I Avvento: La rugiada che irrora la terra

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Ricordo tempi molto lontani, quando l’irruzione di un nuovo tempo e un nuovo anno liturgico era marcata dal canto del Rorate caeli desuper, sia nell’antifona di Introito della prima domenica d’Avvento, sia in forma più semplificata nella Novena di Natale dove funge da ritornello.

Questa stagione ha una sua magìa, come tutto ciò che incomincia, o il ripartire per nuove avventure. L’Avvento combina in modo meraviglioso la serenità di ritrovare la memoria da una parte, e la curiosità nei confronti del nuovo. Niente di ansioso, perché quella della fede è una memoria che deve riportare il cuore al ricordo della fedeltà di Dio, ed essere quindi fonte di pace e insieme di fiducia nel futuro. Forse non ci si rende sempre conto che quella cui ci educa la liturgia, con la sua ripetitività, è un’abitudine buona, senza la quale vivremmo come sospesi nel vuoto.

“Rorate”

Comincio dal Rorate, dunque, per la gioiosa freschezza che evoca l’immagine della rugiada, e per la musica che accompagna il testo, il gregoriano, e che contiene già un messaggio di enorme importanza.

Non so se lo si canta ancora da qualche parte, ma, data l’età, ho ben vivo il ricordo e l’emozione che provavo negli anni di seminario e ancora dopo, quando tutto il mese che precedeva il Natale era pervaso da quelle note, a cominciare dallo slancio dell’invocazione, che parte dal profondo, quasi dall’abisso (do-re-re) per poi fare un gran balzo verso l’alto (la-sibem-la) e, raggiunto il “do” superiore, la melodia che evoca il cielo sembra ondeggiare nell’aria, attorcigliandosi attorno alla nota che è esattamente un’ottava sopra quella di partenza, da dove “scende” come pioggia il Giusto.

L’immagine della “terra” è trattata invece nella metà bassa del rigo musicale, e il germogliare del Salvatore avviene attorno al “re” su cui il canto va alla fine a riposare.

La lezione non può essere più chiara. La musica dell’Avvento, che riveste le parole che ne formano la sostanza, cerca le alture. È supplica che sale dalle profondità degli abissi per lanciarsi verso l’aria purissima delle vette. Non per niente troviamo il De profundis nel Vespri di Natale, e ho faticato non poco per capirne il perché, legato com’era il Salmo 129 alle continue messe dei defunti che allora erano quasi quotidiane, e che mi pareva avessero poco a che fare con la festa di una Nascita!

E però la voglia di altura richiama anche lo sforzo che deve fare il seme che faticosamente attraversa il buio per emergere alla luce, superando il peso opprimente della zolla che lo seppellisce.

Tutto questo ha solo lo scopo di radunare nelle mente quelle metafore suggestive che dicono tutta la sproporzione tra ciò che vediamo e ciò che attendiamo: la fessura, il seme, il germoglio, la gemma con cui il ramo nudo si sveglia mostrando una straordinaria sorpresa.

Lasciarsi plasmare

La liturgia di oggi inizia un percorso mirato fondamentalmente a tener viva la speranza, quella virtù che è tipica – e solo possibile, mi verrebbe da dire – in chi è in qualche maniera povero e dolorosamente consapevole della propria povertà. E Isaia, il profeta che ci farà compagnia in tutta questa stagione, nella lettura proposta oggi (Is 63,16b-17.19b; 64,2-7), ci introduce nel discorso con una bella immagine: «Se tu squarciassi i cieli e scendessi!».

Quando, al risveglio, ci si trova sotto la cappa di un cielo coperto, un cielo chiuso, senza spiragli, si ha la sensazione di soffocare. Ma prima il profeta ha detto che di tale chiusura un po’ la colpa è nostra, anche se pare che la colpa sia anche un po’ di Dio, perché Isaia sembra rimproverarlo perché gli dice: «ci lasci vagare lontano dalle tue vie e lasci indurire il nostro cuore così che non ti tema».

Quante volte la letteratura monastica dei grandi autori medievali attacca il male della vagatio, per cui una persona incapace di unità interiore si disperde in mille rivoletti inconcludenti, un’inquietudine sterile contro la quale quei maestri non si stancano di proporre l’ideale proposto da Lam 3,28: «Sieda solitario e in silenzio».

E quanto al cuore indurito, ricordo un bel sermone di san Bernardo relativo al discorso del pane di vita (Gv 6,22-66), dove all’osservazione di molti dei suoi discepoli che reagiscono dicendo «Questa parola è dura» (6,60), risponde facendo notare che non è la parola di Gesù a essere dura, ma il cuore di chi l’ascolta senza capire.

Conformemente alla missione del profeta che è duplice: distruggere le false speranze ed edificare quelle vere, Isaia comincia col ricordare i benefici di Dio, per poi confessare i peccati del popolo: «tutti siamo avvizziti come foglie, le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento», immagini che si sposano perfettamente, la prima con la stagione, e la seconda spesso presente nella letteratura monastica per descrivere il peccatore che non ha base né consistenza, e va dove lo porta il vento, che è la sua dimora!

Ma il percorso non finisce qui: dopo la tappa della memoria buona, e quella della nostra ingratitudine, siamo in grado di concludere, in umiltà, la preghiera conclusiva: «Ma, Signore, tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci plasma, tutti noi siamo opera delle tue mani». Il punto è lasciare la durezza e lasciarsi plasmare!

Nell’esercizio di ricupero della fiducia non c’è mezzo migliore che meditare il commovente Salmo 79, anche solo sostando sui tre versetti utilizzati come salmo responsoriale, dove ci rivolgiamo a Dio come al nostro pastore, e ci presentiamo a lui come sua vigna.

Mentre scrivo, sfruttando le possibilità offerte da Internet, ascolto sullo sfondo la Cantata 104 di Bach, Du Hirte Israel höre, “Tu, pastore di Israele, ascolta”, una musica che trasuda dolcezza e tenerezza come poche, anche solo nell’uso del ritmo ternario e cullante delle pastorali.

Non so quanti approfittino (l’ho già ricordato altre volte) della ricchezza di materiale che si trova in quella miniera senza fondo che è il contributo offerto nei secoli alla fede dalla musica, dall’arte e dalla letteratura. Le Cantate, del resto, erano preparate da Bach ogni domenica e offerte ai fedeli come una “predica in musica”, alla quale l’assemblea partecipava in proprio con un “corale” conclusivo che coinvolgeva tutti, come è compito di ogni liturgia.

Parola e testimonianza

La seconda Lettura (1Cor 1,3-9) tocca un tasto importante per vivere un tempo di “attesa” come è l’Avvento: ed è di «stare saldi», di perseverare nella speranza, spesso messa alla prova da fallimenti e fragilità nostre, come da quelle che vediamo attorno a noi e nel mondo, e che rischiano di “chiudere” il cielo sopra le nostre teste.

Quali sono i mezzi che Paolo, parlando a quelli di Corinto, ricorda per mantenere questa solidità? Il più importante è rimanere attaccati ai doni di cui «siamo stati arricchiti», a cominciare dalla parola che deve essere il nostro pane quotidiano.

Da qui nasce l’altro mezzo sovrano: la testimonianza, in cui la parola diventa vita mediante il comportamento virtuoso, che la rende vera e credibile. Basta anche solo questo per dare materia a un’omelia dalla quale far partire una revisione di vita e un impegno per la settimana.

“Vegliate”

Il Vangelo (Mc 13,33-37) ci dà la conclusione del discorso escatologico di Marco. È un brano breve, ma essenziale, e può riassumersi tutto in una sola parola, che suona come un imperativo: Vegliate! ripetuto due volte, all’inizio e alla fine, a formare un’importante e magnifica inclusione. Dire “Vegliate” è come dire “Fate attenzione”, e se i segni della venuta del Signore sono deboli, la fessura, il seme, il germoglio, si richiede una vigilanza grande e costante, un’abitudine a scoprirli e a scrutarli, quella attenzione che per Simone Weil è la forma più alta di preghiera.

La ragione è la stessa che era descritta nelle ultime parabole del precedente anno liturgico: il padrone che si assenta, ma che affida ai servi un compito di cui dovranno render conto; lo sposo che arriva all’improvviso, senza preavvisi, per accogliere il quale occorre avere l’olio per le lampade onde illuminare la sala delle nozze.

Vivere alla presenza del Signore è sempre stato il programma base per condurre una vita santa. C’è una bella poesia del prete-poeta anglicano R.S. Thomas (1913-2000) che parla della preghiera come invocazione fatta a Dio perché faccia attenzione alle nostre richieste, con una conclusione sorprendente. Vale la pena citarla per intero: «Preghiere come sassolini / lanciati alla finestra / del cielo, nella speranza di attirare / dell’amato / l’attenzione. Ma senza / trecce visibili da calare / giù perché il credente / vi si arrampichi, / a quale scopo aprire / quella lontana finestra? / Io avrei / rinunciato da molto tempo / se non che sbirciando una volta / attraverso le mie dita incrociate / mi parve di scorgere / il movimento di una tenda».

C’è segnale più debole di quello di una tenda che si muove? Eppure, per chi sa guardare e attendere con fiducia, questo può bastare per rendersi conto di una presenza che è sufficiente per rincuorarci e non farci perdere la fiducia. Forse non è un caso che il poeta dica di essersi accorto che c’era qualcuno «sbirciando attraverso le dita incrociate». È inevitabile fare memoria della croce come luogo di rivelazione, come una griglia che permette di vedere che oltre la finestra c’è un qualcuno, anche perché in quell’evento Dio si manifestò nel modo e nel punto più basso, quello in cui il Figlio di Dio, Cristo Gesù, «svuotò se stesso» e «si abbassò» fino al nulla della morte (cf. Fil 2,7-8).

È una forma del grande paradosso che ritroveremo la notte di Natale, dove il segno che manifesta l’arrivo del Salvatore è un bambino che nasce in una stalla, dove colui che è il Verbo è per il momento un infante, cioè uno che non parla, è voce del silenzio, che è, per dirla ancora con Thomas «il riposo di Dio»!

È ovvio e inevitabile che ci vogliano occhi e orecchi “vigilanti” per vederlo e udire la sua voce.

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