Sarà perché le letture di oggi cominciano con la gioiosa visione di un arcobaleno, con tutto ciò che questo significa, che mi è venuto spontaneo collegare il tempo di Quaresima con l’arrivo della primavera.
Questo implica mettere un po’ sullo sfondo l’atmosfera penitenziale, con il viola che siamo abituati a collegare con la malinconia, e vederlo semmai nel concerto dei colori per coglierne il senso di una rinascita dopo l’inverno, di una ripartenza che, anche nelle pratiche di rinunce e mortificazioni volontarie, diventa quella serie di esercizi con cui gli atleti si preparano a gareggiare: Quaresima come allenamento, dunque, come un percorso di quotidiane piccole vittorie su noi stessi che ci preparano alla grande festa della Pasqua.
Purtroppo è da tempo che si è persa per i più la memoria della civiltà contadina, di quel mondo rurale, più lento, più silenzioso, più pacato, che apriva gli occhi e il cuore allo svegliarsi della natura.
Bisogna – almeno in letteratura – tornare al medioevo, quando un genere letterario diffuso era chiamato la reverdie, il ritorno del verde, con tutto ciò che questo significa. Mi suona ancora nelle orecchie una poesia inglese del Trecento, la cui prima strofa, nel ritmo e nelle immagini, è una splendida musica: «La primavera è giunta con l’amore al villaggio, / coi fiori ed i gorgheggi degli uccelli / che porta tutta questa gioia. / Margherite nelle valli, dolci note di usignoli, / canta ogni uccello la sua canzone».
Da non dimenticare che – e il ricordo è ancora vivissimo in me – l’altro fiore tipico della rinascita, insieme alle margherite, sono proprie le “viole”, quelle che crescevano generose sulle rive dei fossi, e che noi ragazzi usavamo posare sulla statua di Cristo morto nella Settimana santa quasi a far fiorire le ferite.
Forse è degno di nota che il termine inglese medievale Lenten, che indica l’allungarsi delle giornate, è rimasto nell’inglese moderno con la forma Lent, che significa “primavera”, ma che oggi ha preso anche il significato corrente di “Quaresima”.
E, tanto per non dare l’impressione che sto divagando, la Regola benedettina, ancora più antica, dedica un intero capito, il 49, all’osservanza della Quaresima, dove è scritto: «In tali giorni aggiungiamo qualcosa all’onere solito del nostro servizio: orazioni particolari, astinenze da cibi e da bevande, in modo che ciascuno, di sua spontanea volontà offra a Dio con la gioia dello Spirito Santo qualcosa di più della misura a cui è tenuto, cioè privi il corpo di un po’ di cibo, di bevanda, di sonno, rinunci a chiacchiere e scherzi, e con la gioia del desiderio suscitato dallo Spirito attenda la santa Pasqua» (49,5-7). Non dunque la malinconia, ma la gioia, nominata ben due volte.
Un arco di pace
L’arcobaleno, dunque, al centro della prima lettura (Gen 9,8-15), potrebbe diventare il simbolo, non solo di questa domenica, ma di tutto il tempo quaresimale. L’arcobaleno è il frutto di una salutare trasfigurazione: l’immagine, che potrebbe evocare un’arma di guerra, diventa simbolo della pace, penso perché fa della diversità dei colori non un’accozzaglia di potenziali conflitti, ma una variopinta armonia di differenze che, come le piccole pietre di un mosaico, producono una mirabile sinfonia.
Il termine chiave che ricorre nella lettura, oltre a quello di arcobaleno, è “alleanza”, e tutti sanno che la parola è la chiave di volta di quella che siamo soliti chiamare “storia della salvezza”, una storia di cui siamo parte, che ricordiamo e riviviamo ogni volta che celebriamo l’eucaristia.
L’alleanza è un patto che indica un accordo tra due o più per un mutuo aiuto, un impegno che implica una fedeltà reciproca. Per fare un esempio molto pratico, il termine in francese indica “l’anello nuziale”, quello che da noi si chiama “la fede”. Solo che, nel rapporto con Dio, il patto è asimmetrico perché non siamo su un piede di parità: Dio non ha bisogno del nostro aiuto, siamo noi che abbiamo bisogno del suo!
Però, a ben riflettere, neanche questo è vero. Negli anni cinquanta circolava un bel film dal titolo che fece impressione: “Dio ha bisogno degli uomini”. Ma qualcuno conoscerà sicuramente certe espressioni di Etty Hillesum, l’ebrea morta nel campo di Auschwitz, che, in una pagina del suo Diario ebbe a scrivere che noi possiamo aiutare Dio. Come? Ecco il testo, scritto in un momento in cui la persecuzione nazista contro gli ebrei aveva raggiunto forme devastanti per crudeltà: «Una cosa diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare in questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzetto di te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini» (Diario, Adelphi, Milano 1996, pp. 169-70).
L’alleanza che Dio stabilisce con la terra è la promessa che «non sarà più distrutta alcuna carne dalle acque del diluvio». L’arcobaleno è il segno che servirà a ricordare l’intangibilità di questa promessa. Capirlo, significa esattamente entrare nella logica di Etty Hillesum: collaborare con Dio a “salvare” la sua presenza in noi e a “disseppellirla nel cuore devastato di altri”.
Il lavacro battesimale
La seconda lettura (1Pt 3,18-22) ritorna sulle acque del diluvio che, come si usava parlarne nelle catechesi mistagogiche, acquista ora la valenza positiva che segue alla distruzione: lava e purifica.
Il tempo di Quaresima dovrebbe essere quello in cui, a cominciare dalla catechesi speciale che si usa offrire in questo periodo, siamo chiamati ad “agitare le acque del nostro battesimo”, per esempio commentando i riti del sacramento alla luce del retroterra biblico dai quali provengono. Anche solo perché i fedeli possano essere aiutati a uscire da quella semplificazione che pensa al battesimo come acqua che lava dal “peccato originale”, cosa che risulta inconcepibile in un neonato.
Giunge a proposito l’affermazione chiarissima di Pietro per cui il battesimo «non porta via la sporcizia del corpo, ma è invocazione di salvezza rivolta a Dio da parte di una buona coscienza (quella dei genitori almeno, che provvederanno in seguito a spiegarlo al bambino), in virtù della risurrezione di Gesù Cristo». C’è già in questo testo l’annuncio della Pasqua, con Pietro che ricorda come Cristo sia «morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo ma reso vivo nello spirito».
Segue poi un’affermazione che riguarda la discesa agli inferi, come ricordiamo nel Credo, quando il Risorto scardina le porte dell’inferno e, prendendo per mano Adamo ed Eva, i primi di un’intera umanità, li trascina con sé nella casa del Padre. Questa – come penso sia noto – è l’interpretazione che l’iconografia bizantina dà della Pasqua: non tanto e non solo l’uscita di Cristo dal sepolcro, come usa da noi, ma l’uscita dagli inferi dell’intera umanità. Dio è fedele alla promessa dell’alleanza.
Gesù, battezzato e tentato
L’inizio della Quaresima è sempre caratterizzato dal racconto delle tentazioni di Gesù nel deserto. Anche questo rientra nella proposta di questo tempo liturgico come un periodo in cui riprendiamo ogni anno il senso del nostro battesimo, anche perché la prima lettera di Pietro è spesso considerata un’“omelia battesimale”.
Tutti e tre i Sinottici sono concordi nel collegare battesimo e tentazione. Questo è evidentissimo in Marco che non mette nessuna pausa tra i due eventi, perché, nel suo stile ben noto, dopo aver riportato la voce dal cielo che proclama su Gesù «Tu sei il Figlio mio, l’amato, in te ho posto il mio compiacimento», scrive: «E subito lo Spirito lo sospinse nel deserto». Peccato che l’avverbio sia stato soppresso nel ritaglio offerto oggi dalla liturgia, con il risultato, infelice, di togliere alla tentazione il legame intrinseco con il battesimo, del quale è solo una conseguenza logica.
La “tentazione”, come Matteo e Luca espliciteranno, consiste esattamente nel mettere alla prova il senso di quell’essere “Figlio di Dio”, cioè il senso della propria vocazione. Come fu per Gesù, così è per noi. Ho già parlato dello stile “stenografico” di Marco, e questo richiede di sostare praticamente su ogni frase per cogliere la ricchezza nascosta nella sua veloce scrittura (Mc 1,12-15). In poco più di due righe c’è tutto.
Il protagonista è lo stesso Spirito sceso su Gesù nel battesimo, che “sospinge” Gesù nel deserto. Il verbo è insolito, anche perché esprime la stessa violenza usata nello scacciare i demoni! Il deserto – come si sa – è un luogo a due facce: da una parte, è dove si è messi alla prova, come lo fu il popolo nell’Esodo, ma è anche lo spazio dove Dio ci chiama per farci sperimentare il suo amore (cf. Os 2,16).
I “quaranta giorni” indicano il tempo perfetto, e può riferirsi ai 40 anni trascorsi dagli ebrei nel deserto, così come è chiara l’allusione al digiuno di Mosé (Dt 9,18) e alla forza ricevuta da Elia per il suo cammino verso il monte Horeb (1Re 19,8).
Il tentatore è Satana, che significa “avversario”, l’anti-Dio diremmo.
Sul tipo di tentazione non ci è detto nulla. Quello che a Marco interessa sottolineare sembra sia la “situazione” di Gesù, in mezzo tra “bestie selvatiche”, che possiamo intendere come tutte le forme di male, e gli “angeli” che lo servono, ad assicurare la protezione rassicurante di Dio.
La vittoria di Gesù appare chiara nel suo contenuto nei due versetti che seguono, in cui Marco concentra il programma del ministero di Gesù: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel vangelo».
Basta leggere le frasi al contrario per scoprire quali sono le “tentazioni”: rimandare ispirazioni alla generosità pensando che ci sia sempre tempo per decidersi al bene; pensare che il regno di Dio ci sarà pure, ma è difficile vederlo nel mondo che ci sta attorno; dunque, non è il caso di agitarsi per convertirci e cambiare stile di vita; quanto al vangelo poi, sarà anche bello, ma forse è solo una splendida utopia!
Perché non vivere la Quaresima per fare un po’ di deserto, magari con qualche buona lettura in più così da rinfrescarci le idee?