Il racconto che Marco presenta nelle domeniche 14, 15 e 16, con il brano di Giovanni per la domenica 17, forma una serie di passi in qualche modo collegati tra loro; il filo rosso che li unisce è la reazione di stupore della gente che incontra Gesù. Lo stupore è la reazione che nasce davanti all’imprevisto, ma non è sempre uguale. Le varie reazioni hanno in comune il fatto di suscitare un interrogativo, ma la risposta differisce, e di molto.
Si danno tre possibilità. La prima è di chi seppellisce l’interrogativo sul nascere, eliminando automaticamente il problema. La seconda è di chi invece lo tiene aperto, e si dimostra in qualche modo disposto a rimanere con attenzione in attesa di capire. La terza, infine (e questo appare nel brano di Giovanni), costituisce sì una risposta, che però è in realtà un equivoco, e dunque un’altra forma di incomprensione che è in pratica un rifiuto a voler accettare lo sforzo implicito nel tentativo di capire.
Come sempre, i brani evangelici sono introdotti, e per così dire commentati, dalle due letture che li precedono.
In piedi e attenti
La pagina del profeta (Ez 2,2-5) presenta un tema corrente nella Bibbia: Dio parla per bocca dei profeti, ma quelli che dovrebbero ascoltarli sono descritti come una razza di «figli testardi e dal cuore indurito», una «genia di figli ribelli». Ma almeno sappiano che la parola del profeta “risuona”, e chissà che prima o poi arrivi ad aprire le loro orecchie per accogliere il messaggio che Dio intende inviare loro.
Il brano inizia con un dettaglio che si rischia di trascurare, e invece contiene un’immagine decisiva. «In quei giorni – dice il profeta – uno spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi, e io ascoltai colui che mi parlava».
L’attenzione pare non sia una virtù che abbonda in noi, abituati forse al torpore di una vita sempre uguale nei suoi ritmi e nei suoi riti. L’effetto dell’irruzione in noi dello spirito è di farci alzare e di renderci così pronti all’ascolto. Certo, siamo abituati ad ascoltare le letture da seduti, ma questo dovrebbe essere inteso come espressione dell’atteggiamento del discepolo che ascolta e impara.
Ed è significativo che quando, al vangelo, la lettura ci presenta la Parola, la posizione corretta diventa quella di chi, in piedi, sta sull’attenti, così come questa è la posizione da tenere quanto recitiamo il Credo, a indicare la solidità della nostra fede e la prontezza a tradurre in realtà ciò che professiamo con le parole.
Il salmo responsoriale (Sal 122,1-2a) descrive mirabilmente questo stato di attenzione “alle mani del padrone/padrona” in attesa dei loro ordini.
L’esperienza della debolezza
C’è una “durezza di cuore” che è riprovevole, e contro la quale Dio non sa trovare altro rimedio che quello di farci sperimentare i nostri limiti e le nostre fragilità. Paolo ne fa la dolorosa esperienza, là dove parla di una “spina nel fianco” che lo tormenta e dalla quale supplica di essere liberato (2Cor 12,7-10).
Ma questo non è il parere di Dio. Perché l’orgoglio, il primo dei sette vizi capitali, è sempre in agguato e, per domarlo, non c’è altro rimedio che sperimentare la debolezza, e perfino l’umiliazione. Così Dio risponde alla richiesta, del tutto comprensibile di Paolo: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza».
Il tema è in diretta connessione con quanto espresso da Ezechiele: il profeta non deve scoraggiarsi perché non è ascoltato, perché questo lo mantiene nell’umiltà, evitandogli così il pericolo di cadere in un protagonismo rischioso.
Con un salto logico sorprendente e paradossale, l’apostolo arriva addirittura a “vantarsi” delle sue debolezze, perché solo così egli può rivelare la potenza di Cristo che opera in lui. Segue la proverbiale litania di “vanterie”: «nelle debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo». La conclusione inaspettata e paradossale è la frase scultorea che conclude questa pagina: «quando sono debole, è allora che sono forte».
Il poeta gallese R.S. Thomas ha espresso magnificamente questa verità nei seguenti versi: «Quando siamo deboli siamo / forti. Quando i nostri occhi si chiudono / al mondo, allora da qualche parte / dentro di noi il roveto // arde. Quando siamo poveri / e consci dell’inadeguatezza / della nostra tavola, è ad essa che, / non invitato, l’ospite arriva» (R.S. Thomas, Il senso è nell’attesa, Àncora 2010, p. 139).
Si noti l’uso astuto di quella tecnica che si chiama enjambement, che separando con l’a capo le due parti della frase, costringe a una piccola sosta che prepara una sorpresa. Così la fragilità diventa la nostra sostanza, ciò per cui “siamo”, gli occhi che si chiudono al mondo permettono di vedere il “roveto ardente” e, quando la tavola è inadeguata, è allora che “non invitato, l’ospite arriva”.
Il lettore non faticherà a notare il sapiente amalgama di riferimenti e immagini bibliche: 2Cor 12,10; Es 3,2; Ap 3,20. È in questi versi che in Thomas, appassionato di ardue esplorazioni mentali, appare il pastore compassionevole che si era rivelato nelle prime poesie sui contadini del Galles, sua patria.
Il profeta rifiutato
Il vangelo (Mc 6,1-6) arriva al cuore del problema. Qui si uniscono due tradizioni: quella dello stupore e quella della figura del profeta.
Se per stupore abbiamo parlato di tre forme, per quella del profeta ce n’è per il vero una sola: il profeta inevitabilmente suscita incomprensione e ostilità, con il particolare non secondario che questo accade prima di tutto tra i suoi concittadini.
L’espressione nemo propheta in patria, fortemente marcata nel testo di Marco, è diventata un proverbio anche per chi non conosce il latino, ed è presente pure in culture che non sono quella biblica.
Per quanto ci riguarda, essa attraversa tutti i sinottici, anche se variamente espressa e diversamente collocata: Matteo la pone dopo il discorso in parabole del cap. 13, Marco nel testo odierno, Luca all’inizio della predicazione nella sinagoga di Nazaret, a suggerire una costante, Giovanni addirittura nel Prologo, con un’affermazione che diventa nientemeno che la linea di lettura portante del suo vangelo, strutturato proprio sulla “lotta” tra luce e tenebre.
Ben cinque domande marcano la progressione dello stupore incredulo dei nazaretani, i compatrioti di Gesù. Prima ci si chiede “da dove” viene ciò che dice Gesù; poi il problema riguarda la “straordinaria” sapienza del suo discorso; poi, ancora di più, ci si chiede come faccia a compiere i “prodigi” che opera; infine – ed è il dubbio che, ahimè, azzera tutte le domande –, si rimarca il fatto che, per loro, Gesù, almeno fino ad allora, è ben noto in paese come “falegname”, membro di una famiglia numerosa da tutti conosciuta. Quale pretese dunque può avanzare per presentarsi come “profeta”?
E qui giova osservare che Marco sottolinea il rifiuto in maniera impressionante: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». Tre ambienti di vita, sempre più circoscritti, a indicare fin dove può estendersi il rifiuto!
L’annotazione che segnala come Gesù in quel contesto familiare «non poteva compiere nessun prodigio» (si noti l’imperfetto che indica un’azione continua), potrebbe sembrare un gesto di vendetta. Non è così, perché la reazione di Gesù non va oltre un suo stupore per l’incredulità dei compaesani, e peraltro il suo rifiuto appare più un segno di “impotenza” causato dall’assenza di fede, anche se non rinuncia a guarire «pochi malati», almeno per lasciare un segno che poteva essere significativo per quei pochi disposti a credergli. In ogni caso, è chiaro che Gesù non desidera passare anzitutto come colui che compie “prodigi”.
Alla fine, ciò che conta di più, è che l’incredulità non blocca per niente l’iniziativa del profeta, che continua a percorrere – altro imperfetto (percorreva) significativo – i villaggi d’intorno “insegnando”.
E, a proposito, un’altra osservazione è degna di nota. Il tema verrà ripreso alla grande nella sezione successiva di Marco consacrata alla missione degli apostoli (6,7-13). E possiamo anticipare una costante del secondo evangelista, quella di sottolineare un Gesù che è sempre “fuori”, in movimento, a differenza di Luca che colloca l’insegnamento di Gesù normalmente attorno a una mensa. Ma conta osservare che il “fuori” è una categoria mentale più che logistica.
L’attività pubblica di Gesù è tutta sotto questo segno. Già agli inizi, dopo il battesimo, lo Spirito lo “getta fuori” nel deserto, e i primi gesti del suo ministero lo pongono al di fuori della legge quando questa diventa una gabbia di morte, un itinerario riassunto nelle “controversie galilaiche” (Mc 2,1-3.6) con al centro tre miracoli “polemici”: guarisce un uomo da uno spirito immondo, un lebbroso al quale prima perdona i peccati e, alla fine, si proclama “Signore del sabato”.
Ma poi il “fuori” è vissuto in tutta una serie di “uscite”, per seminare (4,3), per entrare in un territorio ostile (4,35-41), per una pausa contemplativa (6,31-42), per aiutare a vedere meglio (7,31-35; 8,22-26), per far muovere verso il dono di sé (10,17-22) e, alla fine, il mirabile racconto del cieco Bartimeo (10,46-52), al quale Gesù apre gli occhi per vedere il senso della passione.
Queste spigolature già nel loro numero marcano uno stile di vita. E questa scelta rivoluzionaria l’avevano già ben capita i suoi familiari che, dopo i primi segnali, «uscirono per impadronirsi di lui, poiché dicevano: È fuori di sé!» (Mc 3,21).
A noi decidere quale “stupore” seguire, dato che la “Chiesa in uscita” era già nel programma.