XV Per annum: Farsi prossimo

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Siamo alle ultime disposizioni dettate da Mosè prima dell’entrata nella terra promessa, dalla quale lui però rimarrà escluso. Il “Deuteronomio/gr. Deuteronomion/Seconda Legge/ebr. Debārîm/Parole”) riporta alcuni suoi lunghi discorsi, frutto della rielaborazione che di quelle tradizioni si fecero a più ondate nella terra di Israele prima, durante e dopo l’esilio babilonese.

Dt 29,1–30,20 contiene le ultime disposizioni di Mosè e l’alleanza in Moab, e si concludono con l’invito a scegliere la vita (30,15-20). I versetti precedenti (Dt 30,1-14) sono incentrati invece sulla comunione esistente fra YHWH e il suo popolo, una comunione da approfondire e da mantenere sempre vitale. Dopo la promessa di feconde benedizioni (30,1-10), seguono i versetti dedicati alla riflessione sulla Torah/Legge.

Comando e Parola

Mosè è salito al monte Sinai fra manifestazioni meteorologiche spaventose per incontrarsi con YHWH e ricevere la sua Torah/Istruzione da donare al popolo (cf. Gen 19,1ss). Ora lo stesso Mosè ricorda che il “comando/miṣwāh” (v. 11) di YHWH e la sua “parola/dābār” non sono “difficili/niplē’t” e non sono “lontane/reḥōqāh” dal popolo.

Mosè ha portato “vicino” il comando di YHWH, l’aspetto normativo della sua volontà, trasmessa mediante il suo profeta. La Torah è però anche “parola/dābār”, rivelazione, luogo di incontro fra due interlocutori che si guardano in faccia e si accettano come luoghi di dialogo, accoglienza, risposta pronta e generosa.

La Torah come “comando” non è troppo difficile e da considerare come impossibile da osservare, perché YHWH è venuto incontro a Israele, si è “abbassato” con condiscendenza e gli ha donato un cuore per comprendere: «Ma fino a oggi il Signore non vi ha dato una mente (“lēb/cuore/mente/intelligenza/coscienza/volontà”) per comprendere né occhi per vedere né orecchi per udire» (Dt 29,3).

Fino ad oggi Israele non capiva il suo Dio. Ora YHWH gli dà un cuore circonciso per amare il suo Signore: «Il Signore, tuo Dio, circonciderà (ûmāl) il tuo cuore e il cuore della tua discendenza, perché tu possa amare (le’ahăbāh) il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore e con tutta l’anima e viva» (Dt 30,6).

Nei patti di alleanza e di vassallaggio del Medio Oriente, sulla falsariga dei quali è stata intesa l’alleanza tra YHWH e Israele, “amare” non rimanda a qualcosa di sentimentale e volubile, ma a gesti concreti di obbedienza, sottomissione, collaborazione in uomini e denaro per le eventuali guerre da intraprendere.

Si è fatta vicinissima

La parola e il comando di YHWH non sono “in cielo” o al di là del mare – sconosciuto e pauroso per un popolo di non navigatori come era Israele –, in modo che sia impossibile metterli in pratica (wena‘ăśennāh). Più li si mette in pratica e più si capiscono (cf. Es 24,8) e, in tal modo, Israele viene riconosciuto come l’unico popolo saggio e intelligente sulla terra: «Osservate dunque le parole di questa alleanza e mettetele in pratica, perché abbiate successo in tutto ciò che farete» (Dt 29,8); «Le osserverete, dunque, e le metterete in pratica, perché quella sarà la vostra saggezza e la vostra intelligenza agli occhi dei popoli, i quali, udendo parlare di tutte queste leggi, diranno: “Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente”. Infatti, quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo? E quale grande nazione ha leggi e norme giuste come è tutta questa legislazione che io oggi vi do?» (Dt 4,6-8).

La Torah di YHWH non è in un luogo irraggiungibile, in modo che si possa dichiararsi legittimati ad una sua ignoranza e alla trascuratezza riguardo alla sua messa in pratica. La Torah non è irraggiungibile e quindi estranea all’uomo. Essa si è fatta conoscibile e fattibile: «perché vicina a te molto (è) la parola/kî-qārôb ’elèkā haddābār me’ōd» (Dt 30,14). Essa è una realtà quasi personificata, scesa dal cielo e dal monte alto e spaventoso del Sinai per farsi vicinissima, del tutto abbordabile.

Sulla bocca

La Parola è uno spazio vitale in cui muoversi e vivere, incontrare YHWH e tutti i suoi beni promessi. Essa è “sulla tua bocca/bepîkā” (Dt 30,14). È la realtà della tua relazione con Dio e con gli uomini. La puoi ripetere, pronunciare, comunicare, “mormorare rimuginandola”, insegnare e soprattutto pregare. Dalla bocca può scendere nel ventre, perché la puoi “mangiare” (cf. Dt 8,3; Ez 2,8–3,11; Sal 119,131) e farla diventare tuo nutrimento.

YHWH nutre Israele con la sua Parola che si fa vicinissima, diventa suo cibo che lo nutre e, al tempo stesso, trasforma il popolo in parola vivente, “popolare: un popolo-testimone con le labbra e con la vita di ciò che YHWH gli ha comandato e di ciò con cui lo ha istruito.

La Parola è uscita dalla bocca dell’Altissimo e ora sta fissa in mezzo all’assemblea di Israele, sulla bocca dell’israelita. Scrive il Siracide: «Io sono uscita dalla bocca dell’Altissimo e come nube ho ricoperto la terra. Io ho posto la mia dimora lassù, il mio trono era su una colonna di nubi. Ho percorso da sola il giro del cielo, ho passeggiato nelle profondità degli abissi. Sulle onde del mare e su tutta la terra, su ogni popolo e nazione ho preso dominio. Fra tutti questi ho cercato un luogo di riposo, qualcuno nel cui territorio potessi risiedere. Allora il creatore dell’universo mi diede un ordine, colui che mi ha creato mi fece piantare la tenda e mi disse: “Fissa la tenda in Giacobbe e prendi eredità in Israele”» (Sir 24,3-8).

Nel cuore

La parola di YHWH si è fatta vicinissima e ha posto la sua dimora sulla bocca dell’israelita e nel suo cuore (bilbābe, Dt 30,14). La Parola non è una realtà che possa diventare propaganda, parola svenduta sul mercato dei mass media e dei social, parola ingannata e ingannatrice, che nasconde e travia i pensieri del cuore (cf. Is 29,13; Ger 12,2; Sal 55,22; 62,5; 78,36-37). Essa scende “nel tuo cuore/bilbābe”. Prende dimora, cioè, in ciò che noi definiamo come “mente”. Per l’ebreo il lēb/lēbāb è la sede della coscienza, della volontà, delle capacità decisionali e anche, in parte, dell’affettività dell’uomo.

Certo, è necessaria la conversione (cf. Dt 30,7) per aprirsi alla Parola, ma essa si rivela in ogni caso comprensibile, affidabile, sensata, salvifica e sempre molto attuale alle circostanze che cambiano ma che da essa ricevono una splendida luce per essere vissute in quella pienezza che promuova l’uomo così come YHWH/Il Padre lo sogna da sempre.

Ereditare la vita

Dopo l’inno di giubilo di Gesù per la profonda comunione che lo lega al Padre (Lc 10,21-22) e la beatitudine annunciata in privato ai discepoli per il fatto di esserne testimoni privilegiati (Lc 10,23-24), ecco che si alza uno “scriba/nomikos”, esperto della Torah e del diritto. Non si sa se fosse di orientamento farisaico, come in Mt 22,34-35 (incerto in Mc 12,28), seguito dalla maggioranza dei nomikoi.

Dal contesto in cui Matteo inquadra la scena (Mt 22,34-40), egli era probabilmente un sadduceo, uno di quelli che si alza dopo che Gesù li aveva messi a tacere nella questione sull’appartenenza di una donna andata sposa a sette mariti una volta giunto il momento della risurrezione.

Nel racconto di Luca (10,25-37) l’esperto intavola con Gesù una “maqloqet buona” (secondo la terminologia dell’esegeta P. Basta), una discussione giuridico-religiosa positiva, incentrata sull’oggetto e non sui soggetti e su un giudizio su di essi, con accuse personali (“maqloqet cattiva”). Egli richiede a Gesù il proprio parere di maestro molto rispettato circa una questione difficile e dibattuta (ekpeirazōn, Lc 10,25 con traduzione diversa da CEI 2008). Non vuole metterlo alla prova (così la traduzione CEI 2008), magari con intento malvagio, ma vuole discutere fra pari per arrivare eventualmente a una conclusione condivisibile da entrambi.

Egli domanda a Gesù: «Dopo aver fatto che cosa vita eterna erediterò?» (trad. lett.). Non si tratta di conquistare la vita definitiva o di potersela/doversela meritare con le opere della Legge. Si tenga presente che molti stereotipi sul giudaismo del tempo di Gesù sono stati drasticamente ridimensionati o ridotti al nulla dall’opera magistrale di E.P. Sanders, Paul and Palestinian Judaism: A Comparison of Patterns of Religion del 1977 (tr. it. Torino-Brescia 1986). La vita eterna la si attendeva in dono per fede da YHWH anche nel giudaismo coevo a Gesù e a Paolo (“ereditare/klēronomeō”). Una volta entrati nel Patto, occorreva infatti stare nel (stay in) Patto, corrispondendo attivamente con le opere al dono gratuito del perdono e della giustificazione ottenuto da YHWH.

Sapere e fare

Nel Vangelo di Luca non si menziona il fatto che la discussione verte sul comandamento più grande fra i 613 previsti dalla legislazione religiosa (285 negativi – uno per ogni membro del corpo umano – e 365 propositivi – uno per ogni giorno dell’anno). Gesù risponde allo scriba con una controdomanda tipica del proto-rabbinismo (si ricordi che non esistevano ancora i rabbini al tempo di Gesù!): «Nella Torah che cosa è stato (e resta) scritto (gegraptai, perfetto greco)? Come leggi?».

Lo scriba risponde citando il comando dell’amore radicale per YHWH di Dt 6,5 (con l’aggiunta di «con tutta la tua mente»), abbinandovi con un semplice “e/kai” il comando dell’amore verso il “prossimo/plēsion” come se stessi, riportato in Lv 19,18. Mentre nei Vangeli di Matteo e di Marco a rispondere citando i testi della Torah è Gesù, nel Vangelo di Luca è lo scriba a rispondere immediatamente, e “in modo retto/orthōs”, come riconosce immediatamente Gesù. L’evangelista Marco lo fa rispondere solo dopo che ha già risposto Gesù, praticamente ripetendo le sue parole…

Lo scriba era giunto, assieme a qualche suo maestro illuminato, ad abbinare i due amori. In Matteo e in Marco Gesù espliciterà maggiormente il rapporto tra di loro (il più grande e il primo, il secondo simile).

Lo scriba ottiene immediatamente un giudizio lusinghiero da parte di Gesù («rettamente hai risposto/orthōs apekrithēs», v. 28), con un’aggiunta correttiva decisiva: «questo fa’/toutōn poiei e vivrai/kai zēsēi» (di “vita/zōē” teologica, piena, definitiva, non puramente una “vita biologica/bios”). Gesù comanda una messa in pratica concreta, continua e ripetuta di ciò che lo scriba ha perfettamente riconosciuto scritto nella Torah. La conseguenza certa prevista per il futuro sarà per lui la vita piena.

Gesù non parla di eredità/ereditare, ma connette in ogni caso un “fare/poiein” con un “vivere teologico pieno/zēn”. Non ha problemi di interpretazione del rapporto grazia e opere che ha scatenato una dolorosa lotta e la scissione fra cattolici e luterani. Come ottimo ebreo, a Gesù interessa un rapporto stretto, consequenziale tra ciò che si legge nella Torah, e che si conosce, e quello che deve essere fatto (ebr. ‘āśāh, gr. poiein), messo in pratica.

Giustificarsi

Lc 10,29-37, che riporta il testo famoso denominato “La parabola del buon Samaritano”, è un brano proprio di Luca (Sondergut lucano).

Volendo “giustificarsi/dikaiōsai heauton”, lo scriba interroga Gesù sull’identità del “prossimo/plēsion”. Secondo un grande studioso del Vangelo di Luca, lo scriba intende «giustificarsi, ossia secondo Luca, non avere torto, esser accolto e riconosciuto davanti agli uomini e davanti a Dio. Spera in una definizione del prossimo che corrisponda alla sua abituale condotta, probabilmente restrittiva. Vuol evitare il rimprovero implicito “tu non l’hai fatto”, contenuto nel “fa’ questo e vivrai” (v. 28). Non ne va solamente del suo onore né della sua posizione sociale nel giudaismo, ma della sua vita eterna. Luca critica quest’atteggiamento interessato e gli contrapporrà, in modo indiretto nella parabola, la misericordia disinteressata, espressione di un’altra giustizia». E, in nota, aggiunge: «Luca vede nella giustizia a propria misura, quella che si crede di ottenere da sé, il lineamento di carattere fondamentale degli scribi e dei farisei, cf. Lc 16,15 e 18,19» (F. Bovon).

Condivido la prima parte del commento dello studioso riguardante l’interpretazione probabilmente restrittiva del concetto di prossimo sostenuta dallo scriba, ma non quella circa l’atteggiamento interessato dello scriba contrapposto a quello di misericordia disinteressata veicolato dalla parabola. Questa, secondo il mio parere, richiede un taglio interpretativo diverso da quello di una più o meno larvata accusa di “meritocrazia” attribuita al giudaismo per quanto riguarda la vita eterna.

Il “prossimo”

Lo scriba ha con ogni probabilità un concetto ristretto di “prossimo”. Secondo la Torah, esso coincide di fatto col proprio correligionario, il proprio connazionale, il membro dello stesso clan e della stessa tribù. La Torah contiene, invero, anche alcuni brani che comandano di aiutare l’“avversario” – una persona con la quale si hanno rapporti problematici per tanti motivi – che si trovi in difficoltà riguardo al proprio asino da carico o di accudire con cura l’animale smarrito appartenente a lui finché non sia possibile restituirglielo sano e salvo (Es 3,4-5; Dt 22,1-4; Lv 19,17-18; cf. la tesi dottorale di G. Barbiero su questi testi biblici riguardanti l’“asino del nemico”).

È innegabile il fatto che, con la sua splendida parabola narrata in risposta allo scriba, Gesù intende allagare a dismisura il concetto di prossimo, piuttosto che insistere su una contrapposizione tramite la misericordia disinteressata come quella – a mio parere errata – a cui pensa Bovon.

Dall’altra parte

Nel canalone del Wadi Kelt, che da Gerusalemme scende a Gerico quasi del tutto secco durante tutto l’anno, il caldo è asfissiante e i pericoli possono essere reali anche oggi. Alcuni anni fa due jogger vi sono stati uccisi proditoriamente.

Può darsi che il viandante – “un uomo/anthrōpos tis” qualsiasi, uguale a tutti gli altri uomini di questa terra (v. 30) – stesse viaggiando nelle ore più fresche, mattutine o serali. L’agguato è un gioco da ragazzi per dei “predoni/istai” che assalgono come un branco di lupi il viaggiatore che, imprudentemente, viaggia da solo.

Il termine istai è impiegato anche per indicare i terroristi e i ribelli contro Roma, due dei quali sono crocifissi con Gesù secondo Mt 27,38 e Mc 15,27 (Luca parla invece, forse per maggior rispetto verso Gesù, di “malfattori/kakourgous”). I briganti spogliano il malcapitato e lo riempiono di botte, lasciandolo politraumatizzato in stato di semicoscienza, mezzo morto (ēmithanē).

Questo basta per mettere in difficoltà il sacerdote e il levita che scendono uno dopo l’altro da Gerusalemme per tornare alle loro case dopo la settimana di servizio svolto al tempio.

Il primo scende per la stessa strada, il secondo arriva addirittura sul posto dell’incidente. Accostarsi e toccare un mucchio di ossa sanguinolente del tutto simili a un cadavere avrebbe compromesso la loro purità rituale, costringendoli, in caso di contatto, a una lunga procedura di purificazione. Entrambi, comportandosi in modo del tutto simile (homoiōs, v. 32) vedono (idōn) il malcapitato moribondo, ma lo oltrepassano da vicino, procedendo sull’altra riva del wadi (anti-par-elthein) (vv. 31-32).

Si commosse

Un samaritano, considerato eretico dai giudei e da loro odiato ed evitato in tutti modi (cf. Gv 4,9, dove la Samaritana ricorda a Gesù: «ou … sygchrōntai Ioudaioi Samaritais = non usano [gli stessi utensili]/non hanno buoni rapporti i giudei con i samaritani»). Il samaritano arriva dal malcapitato, “su di lui/kat’auton”, guardandolo cioè da vicino e dall’alto in basso (v. 33). Oltre la stessa strada (hodos, v. 31), oltre il luogo dell’incidente (topon, v. 32), il Samaritano arriva vicino alla persona (kat’auton).

Il samaritano dà il via a un torrente di opere di “misericordia” (corporali e spirituali…), di azioni di grazia, di atti concreti di soccorso.

Egli non sa se l’ammasso sanguinolento che giace ai suoi piedi sia un giudeo o no. Egli vede (idōn) un uomo (v. 30) – in verità, quel che resta di un corpo umano nudo dopo un feroce pestaggio. Si commuove/esplagchnisthē. Gli si muovono le viscere, sede della misericordia, dell’affetto e della grazia. È la molla essenziale, senza la quale non si mette in movimento alcuna azione di attenzione e di cura amorosa per le persone e le cose, sia ieri che nel mondo di oggi.

Dopo essersi “avvicinato/proselthōn” coraggiosamente, forse deviando dal proprio percorso e disposto a perdere tempo per l’imprevisto – il tempo è denaro! – e senza aspettare sul posto che altri intervengano assieme a lui o al posto suo, “fascia i traumi/katedēsen ta traumata”, lenendo i dolori con applicazioni di olio e medicando le lacerazioni con frizioni di vino (acetoso). Lo carica quindi personalmente sulla propria cavalcatura e lo conduce al caravanserraglio, che ha il dovere di accogliere tutti (pandokeion < pan-dechomai), uomini e bestie. I Padri vi hanno visto la figura della Chiesa (!). Curioso che oggi sul posto si annidi sulle rocce il Monastero di San Giorgio in Koziba (ricordo ancora la bibita fresca offerta cordialmente dai monaci agli esausti pellegrini…).

Prendersi cura

Una volta arrivati a destinazione, il Samaritano “si prende cura di lui/epemelethē autou. Epimeleomai: si tratta di interessarsi, di prendersi in carico, di seguire da vicino una persona, assicurandole anche tutte le cure mediche del caso, dopo quelle assicurate come pronto soccorso.

Il giorno seguente, “dopo aver cacciato di tasca (propria)/ekbalōn” due denari – un anticipo di rimborso-spesa corrispondente a due giornate di lavoro – li “dà/dona/edōken” al proprietario del “caravanserraglio/tutto-accogliente”, comandandogli, con un imperativo aoristo, di iniziare a fare un’azione e precisamente solo quella: “Prenditi cura di lui/epimelēthēti autou”. I Padri della Chiesa hanno visto nei due denari il dono del battesimo e dell’eucaristia donati alla Chiesa dal Cristo. Il samaritano assicura inoltre con decisione all’albergatore che “gli corrisponderà/apodōsō soi” il rimborso dovuto per tutte le altre eventuali spese sostenute per le cure richieste a favore del malcapitato, politraumatizzato.

In ricompensa per tutto ciò che ha fatto, il samaritano non viene mai definito “buono” in tutta la parabola. Veramente la riconoscenza non è di questo mondo (il mondo del testo, evidentemente, non quello di Dio…).

È probabile/possibile che il samaritano fosse un cliente abituale del caravanserraglio, un viaggiatore-commerciante (?), probabilmente abbiente, stimato, credibile per la sua statura morale. Per chi viaggiava per lavoro o per commissioni varie, quella strada da Gerusalemme a Gerico era infatti un passaggio obbligato. Il Samaritano promette il rimborso spese al suo ritorno e tutto lascia credere che sia creduto e accontentato dall’albergatore. Lo speriamo anche per il malcapitato, che in due giorni potrà forse essersi ripreso sufficientemente dai suoi politraumi per tornare a casa propria. Difficile crederlo.

Farsi prossimo

Concluso il racconto parabolico, Gesù domanda allo scriba chi, secondo lui, sia stato “il prossimo/plēsion” “di colui che è caduto (preda)/tou empesontos” dei briganti.

Lo scriba risponde con un greco totalmente semitizzante: «Colui che ha fatto misericordia con lui/ho poiēsas eleos met’autou», colui che ha avuto “amore fattivo/gr. eleos/ebr. ḥesed” nei suoi confronti. Nell’AT il greco eleos traduce quasi sempre ḥesed, l’amore misericordioso, concreto, duraturo, fedele (cf. il bellissimo Sal 118). Nessun problema cattolico-luterano di rapporto tra grazia e opere, tra grazia e meriti.

Si tratta di fare, e di fare misericordia/amore misericordioso. I sintagmi della lingua ebraica e greca “‘āśāh ḥesed/eleos poiein/fare misericordia” sono più espressivi e “dinamici” di quello della lingua italiana “avere misericordia”, che potrebbe alludere al pura percezione affettivo-sentimentale.

Non si può però fare a meno di ignorare lo scivolamento semantico ed ermeneutico – il glissement degli studiosi francesi – attuato da Gesù col suo racconto.

Con la sua parabola (non un’allegoria!) Gesù raggiunge tre guadagni maggiori.

  • Potrebbe sembrare che il prossimo sia il malcapitato malmenato e soccorso dal samaritano. Egli soccorre il malcapitato con tutto se stesso – tempo, cura e denaro –. Soccorre “un uomo (qualsiasi)/anthrōpos tis” (v. 30). Non sa se sia un samaritano, un giudeo o uno straniero a lui totalmente sconosciuto quanto a razza, religione, sesso ecc. Gesù allarga a dismisura il concetto di prossimo probabilmente inteso dallo scriba in un senso ristretto. Ogni uomo è mio prossimo, specialmente quello in forte difficoltà, reso mezzo morto dalla vita e dalla malvagità degli uomini.
  • Se invece – come suggeriva il card. Martini – ci mettiamo nei panni del malcapitato e guardiamo le cose dal suo punto di vista, appena avrà aperto gli occhi egli avrà scoperto che il suo prossimo era l’ultima persona che si sarebbe aspettato di vedere: uno sconosciuto, forse uno straniero, probabilmente – nel caso in cui colui che è indicato come “un certo uomo” (v. 30) fosse stato un giudeo – un “nemico”, un odiato samaritano… Il prossimo è l’ultima persona che ci aspettiamo di incontrare sulla nostra strada. Non sappiamo chi sia il nostro prossimo o, meglio, tutti gli uomini sono nostro prossimo (“un certo uomo”, v. 30). Il prossimo ci viene incontro in modo quasi sempre velato, prosaico, feriale. La parabola è un racconto “aperto”, non un’allegoria che fissa i codici identificativi del discorso una volta per sempre (ad es: il prossimo è il ferito, l’uomo in difficoltà ecc.), illanguidendo in tal modo la sua forza discorsiva e interpellante.
  • In ogni caso, a Gesù interessa soprattutto dare un messaggio chiaro, forte, ma “aperto” all’inventiva e all’intraprendenza personale: l’importante non è tanto identificare chi sia il “prossimo” – come richiesto nella domanda dello scriba – quanto il diventare prossimo, il farsi prossimo (v. 36). Nel v. 36 il verbo impiegato è È il modo grammaticale dell’infinito perfetto di ginomai, che indica un’azione compiuta nel passato – questo è indicato però solo nel modo indicativo – i cui effetti perdurano nel presente di chi legge e di chi scrive). La forma grammaticale indica, quindi, non tanto chi “è stato” il prossimo per il malcapitato. Il verbo greco “eimi/essere” non ha il tempo grammaticale dell’aoristo e del perfetto. Si sopperisce a ciò impiegando in questi casi il verbo ginomai. Esso possiede però il proprio significato dinamico di “diventare”.

La domanda di Gesù può esser allora tradotta così: «Chi ti sembra sia diventato (e sia rimasto) prossimo di colui che è incappato nei ladroni?».

Con questa traduzione si capisce la conclusione tratta da Gesù. Dopo la risposta corretta e molto “semitica” dello scriba – «Colui che ha fatto misericordia con lui» (v. 37) –, Gesù gli intima con decisione: “Va’ e tu fa’ similmente/Poreou kai sy poiei homoiōs”. Lo scriba aveva chiesto cosa avrebbe dovuto “fare/poiein” per ereditare la vita eterna. Riceve da Gesù una risposta chiara e univoca, che parte dalla sua stessa interpretazione corretta della parabola ascoltata.

Zucchero a velo?

Credo non ci sia bisogno di suggerire ulteriori interpretazioni attualizzanti della parabola di Gesù. Mi sembrano già lapalissiane e indicarle porterebbe probabilmente offesa all’intelligenza del lettore.

È evidente però che il cristiano che non le “vede” o addirittura le contrasta quando le vede indicate e attuate nelle odierne congiunture da altri cristiani e dai loro pastori deve interrogarsi sulla veridicità della propria fede e sulla profondità della propria interiorizzazione del vangelo.

Seme profondo o spruzzatina di zucchero a velo?

In tal caso, sotto il vestito non c’è niente: il re è nudo e va urgentemente rivestito.

È vergogna ai nostri occhi, e soprattutto a quelli di Dio.

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