Perché c’è il male nel mondo, da dove viene, perché Dio non interviene a sistemare le cose una volta per tutte, perché dopo duemila anni che è venuto Gesù pare che nel mondo non sia cambiato niente? Quante volte ci siamo sentiti fare o ci siamo fatte domande del genere?
Il vangelo di oggi ci offre tre parabole, una piuttosto sviluppata, un mini racconto seguito poi da una spiegazione, e altre due molto brevi che sono semplicemente un paragone. Sembrano invitarci a collegare due visioni della realtà: una “pasticciata” e vistosa, in cui tutto ciò che accade risulta da una inspiegabile confusione tra grano buono e zizzania, l’altra fatta di due immagini, che invitano a guardare bene e a scrutare a fondo, perché si tratta di due cose che rischiano di essere trascurate: una è minuscola, «il più piccolo di tutti i semi», l’altra neppure si vede se non per l’effetto che produce, il «lievito», cose che però, nonostante appaiano due minuzie trascurabili, crescono e operano in modo prodigioso.
Sono un po’ la sintesi del bello e del brutto che fanno il contesto normale e quotidiano della nostra vita, o forse è meglio dire del modo in cui il “regno dei cieli” appare e agisce nel nostro “regno della terra”. Penso che la liturgia odierna, con le letture che propone, intenda aiutarci a trovare in questo “composto” qualche utile indicazione per come muoversi in questo apparente pasticcio.
Il Forte che governa con mitezza
La prima lettura (Sap 12.13.16-19) ha certamente l’effetto di rassicurarci alla partenza: «Non c’è Dio fuori di te, che abbia cura di tutte le cose, perché tu debba difenderti dall’accusa di giudice ingiusto». È la risposta alla serie di domande che abbiamo posto in testa a questa riflessione. Non le spazza via, ma almeno ci chiede di riflettere e cercare di capire prima di accusare, o di arrivare troppo in fretta a quella risposta spiccia che qualcuno si dà, per cui, quando le cose vanno bene, Dio scompare dall’orizzonte, mentre, quando vanno male, la colpa è tutta sua. Per questo la frase che segue è ancora più importante: «La tua forza infatti è il principio della giustizia, e il fatto che sei padrone di tutti ti rende indulgente con tutti».
Questo è un passaggio chiave, chiara eco di un mirabile versetto che lo precede di poco: «Tu ami tutte le cose che esistono e non provi disgusto per nessuna delle cose che hai creato; se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure formata» (Sap 11,24). Sono affermazioni che danno un grande respiro, che non so se siano correnti in altre esperienze e dottrine religiose.
L’idea di un Dio che, proprio perché non ha bisogno di niente, usa la sua forza, la sua onnipotenza, solo per spargere misericordia e avere un occhio per ciascuna delle sue creature, è grandiosa e commovente, e per converso rivela quanto fosse stolta l’idea che Satana instillò nei nostri progenitori, e che continua a instillare in noi, loro discendenti, per cui Dio sarebbe così geloso del suo potere da impedirci, con i suoi divieti («dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare»: Gen 2,17), di appropriarcene per condividerlo!
L’immagine di un Dio tirchio e sulla difensiva dovrebbe semplicemente farci sorridere. Per questo il testo fa un altro passo: «Padrone della forza, tu giudichi con mitezza e ci governi con molta indulgenza. Con tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo che il giusto deve amare gli uomini, e hai dato ai tuoi figli la buona speranza che, dopo i peccati, tu concedi il pentimento».
È dall’immagine che ci facciamo di Dio che dipende il nostro comportamento. Chiediamocelo qualche volta, a cominciare da quando e come preghiamo: qual è il volto del Dio al quale ci rivolgiamo? Un grande teologo francese, Maurice Bellet, che amo ogni tanto citare, ha scritto un gran bel volume, molto illuminante, e l’ha intitolato Il Dio Perverso! Anche su questo “immaginario”, in cui concentriamo la nostra visione di Dio, andrebbe fatta ogni tanto una sana opera di purificazione.
La preghiera come affidamento
Viene a proposito quanto scrive Paolo nel breve testo proposto come seconda lettura (Rm 8,26-27): «non sappiamo come pregare in modo conveniente»! Conosciamo tutti quella preghiera che si riduce spesso solo a chiedere cose, dove Dio appare come il distributore automatico che deve darci il dolce che desideriamo inserendo qualche cosiddetta “preghiera” come la monetina nella macchinetta.
Carlo de Foucauld, che tra non molto sarà proclamato santo, ha scritto una splendida orazione che si chiama Preghiera dell’abbandono, dove basta citare l’inizio e la conclusione per vedere come da essa emerga tutta un’altra visione di Dio: «Padre mio, io mi abbandono a te, fa di me ciò che ti piace! Qualunque cosa tu faccia per me, ti ringrazio… È per me una esigenza d’amore il donarmi, il rimettermi nelle tue mani senza misura, con una fiducia infinita, perché tu sei il Padre mio».
Siamo perfettamente in linea con quello che ci ha insegnato Gesù stesso nel Padre nostro, la preghiera – ricordiamolo qualche volta – che ci è stata consegnata nel nostro battesimo e che dovrebbe formare la base della nostra contemplazione quotidiana. Per il resto, lo Spirito (nominato tre volte in due versetti) viene in aiuto della nostra debolezza (non si chiama peraltro il «Paraclito», cioè colui che assiste e sta accanto?), intercede con gemiti inesprimibili, cosa che fa «secondo i disegni di Dio».
Se ci affidiamo con semplicità alla sua azione, non dobbiamo preoccuparci di andare davanti a Dio con elaborate orazioni come se dovessimo esibire davanti a lui la nostra bravura: facciamo le nostre richieste con semplicità, ma teniamo a mente che la preghiera è prima di tutto “contemplazione” della bellezza e della bontà di Dio, e insieme “ascolto” di quanto la sua Parola continua a dirci. Dopo queste due premesse, ci può stare anche la domanda.
Grano, zizzania, senape, lievito
La parabola della zizzania seminata in mezzo al grano è ben nota, e per giunta è spiegata nello stesso brano di vangelo (Mt 13,23-43). I momenti del racconto sono tre: la seminagione notturna della zizzania ad opera del «nemico», la reazione impaziente dei servi che, vedendola apparire, vorrebbero subito estirparla, e l’invito del padrone alla pazienza «fino al momento della mietitura».
Ma,visto che si è già parlato di “semina” in un’altra parabola, mi sono chiesto: che ci stanno a fare due parabole simili, per giunta raccontate con tale abbondanza di particolari? Ci vedo due visioni complementari del “regno dei cieli”, facilmente proiettabili sulla realtà di Chiesa come immagine e segno di quel regno.
La prima è un capolavoro di ordine: unico è il seme, ma capita che cada in quattro terreni ben distinti, dei quali solo l’ultimo è buono.
La seconda è un capolavoro di confusione, dove grano e zizzania sono così simili che si rischia di prendere l’uno per l’altra.
L’immagine di ordine nasconde un pericolo: che uno si collochi nella zona che gli viene più naturale, quella del terreno buono, per esempio, che ingenera di riflesso l’idea di una “Chiesa di puri” che tanti danni ha fatto, fa e continuerà a fare grazie ai conseguenti meccanismi di esclusione che ben conosciamo. Perché poi, a pensarci bene, forse sarebbe meglio dirsi che in ciascuno convivono tutti e quattro i “terreni” della parabola.
La cosa viene più facile se si guarda alla parabola di oggi, che è un invito a non precipitare il giudizio, né sugli altri né su noi stessi, dove perfino non è sempre facile discernere tra ciò che è grano e ciò che è zizzania (Satana può anche mascherarsi da angelo di luce! 2Cor 11,14).
Proprio un invito a fare bene attenzione, quando si guarda alla Chiesa alla luce di questa parabola, arriva dalle due piccole parabole che seguono, che fissano lo sguardo sul “buono” che c’è nel popolo di Dio e oltre i suoi stessi confini.
Il granello di senape ci avverte che da un piccolissimo seme spunta un albero talmente grande «che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido tra i suoi rami», immagine che, come si sa, si riferisce a tutti i popoli della terra.
Il lievito, per parte sua, è nascosto nella pasta dalla quale neanche alla fine si distingue, ma la sua presenza è ben visibile nell’effetto che produce sulla pasta stessa. C’è tutta una spiritualità che è cresciuta su queste due immagini, di cui Carlo de Foucauld è stato un esempio preclaro, prendendo a modello la vita di Gesù negli anni di Nazaret.
Si sa, è una spiritualità che non piace a certi settori della Chiesa, che rivendicano una “testimonianza” fortemente identitaria, per la quale contano in primo piano i “numeri” e l’occupazione di varie strutture di potere. Pazienza. Per la pace di tutti, forse è il caso di fare appello alla varietà dei carismi e alla loro legittimità, senza facili scomuniche, magari, se si riesce, «gareggiando nello stimarci a vicenda» (Rm 12,10).
E, per finire con un tocco di umorismo che fa sempre bene, vorrei citare una “facezia” di Maurice Bellet «Un onesto prelato si lamenta con lo Spirito Santo: “Avevamo bisogno, o Santo Spirito, di una vita di Gesù (una sola!), una dogmatica, una morale, un rituale, un diritto canonico e un catechismo per il buon popolo. E tu hai ispirato la Bibbia: che confusione, che caos!”.Tema per una tesi da affidare a studenti di teologia: Redigere la risposta dello Spirito Santo» (Minuscule traité acide de spiritualité, Bayard, Montrouge 2010, p. 94).