«Di te dice il mio cuore: “Cercate il suo volto”. Il tuo volto io cerco, o Signore. Non nascondere il tuo volto da me» (Sal 26, 8-9). Per chi nasce nella notte, e cammina nella notte, quale bisogno più grande del ritrovare una luce che lo guidi nel cammino? E quale gioia più grande quando tale luce appare, e in più si materializza in un volto?
Credo sia questo uno dei temi più rilevanti della liturgia di questa domenica che, per giunta, si pone proprio all’inizio del cammino quaresimale, e in qualche modo costituisce un’irradiazione della vittoria ottenuta da Gesù sul demonio che tenta di sviarlo dalla strada che ha imboccato dal momento del suo battesimo.
Come sottolineano i vangeli sinottici, che fanno seguire immediatamente un evento all’altro, c’è un rapporto stretto, e per così dire necessario, tra battesimo e tentazione, perché le tentazioni esistono solo in rapporto a una scelta. Coloro ai quali va bene tutto, e conducono una vita senza criterio, non sanno neppure cosa sia una tentazione. Solo chi segue un ideale sperimenta la tentazione, tanto più dura e ardua quanto più alto è l’ideale. I santi insegnano.
L’evento della Trasfigurazione, dunque, si riflette all’indietro sul battesimo, ma – come è ben noto – si proietta pure in avanti verso la passione, rispetto alla quale costituisce un momento di conforto preventivo per i cuori dei discepoli quando si troveranno ad affrontare la prova più sconcertante alla quale viene sottoposto Gesù, il loro maestro, che sarà accusato ingiustamente, arrestato, condannato e ucciso. Perché questo disastroso fallimento non distrugga la loro fede in lui, tre di loro sono scelti per essere testimoni dell’evento del Tabor che, per il vero, comprenderanno appieno a cose avvenute, a cominciare dalla risurrezione.
La logica è semplice: nella tentazione e nella prova la risorsa maggiore per attraversarle senza danno, è tenere la mente concentrata su ciò che accadrà alla fine, per la qual cosa Gesù per primo ci è di esempio. Come scrive la Lettera agli Ebrei: «Anche noi dunque, circondati da tale moltitudine di testimoni, avendo deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento. Egli, di fronte alla gioia che gli era posta dinanzi, si sottopose alla croce, disprezzando il disonore, e siede alla destra del trono di Dio» (Eb 12,1-2).
E così, l’esperienza del Gesù trasfigurato darà a Pietro l’occasione di invitare i discepoli di ogni tempo a coltivare nella memoria quel momento in cui, lui, Giacomo e Giovanni, sono stati testimoni della dichiarazione fatta dal Padre su Gesù, «quando giunse a lui questa voce dalla maestosa gloria: “Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio compiacimento”. Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte», una voce alla quale, insieme a quella dei profeti, bisogna «volgere l’attenzione come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e non sorga nei vostri cuori la stella del mattino» (1Pt 16-19).
Guardare avanti fidandosi
Il brano della Genesi che apre la serie delle Letture (Gen 12, 1-4a) è, appunto, un invito a guardare avanti, oltre la realtà presente, un invito a rischiare sulla base di una promessa, che suscita di fatto una grande speranza. Abramo si muove e va incontro all’ignoto sulla fiducia di quanto ha sentito da Dio: «Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione».
Cosa gli sarà costato credere a questa promessa che supponeva una discendenza, quando si trovò ad avere accanto una moglie sterile, per non dire di quando gli fu chiesto di sacrificare l’unico figlio che gli era nato da una sorta di miracolo?
Penso che, nella logica della liturgia di questa giornata, il brano della Genesi sia un invito preciso a basare la propria vita sulla “fiducia”, su ciò che percepiamo insieme come una vocazione che viene da Dio e sulle promesse che l’accompagnano. Alla base di ogni vera e pensata scelta di vita – e lo dichiarano spesso persone che hanno fatto certe scelte un po’ fuori dall’ordinario – rimane la sensazione che in quella scelta ci si sente bene, si avverte che quella era la strada per ottenere la propria realizzazione a livello profondo.
Il discorso che si fa qui è perfettamente in linea con il significato della Trasfigurazione di Gesù davanti ai suoi discepoli sulla via verso Gerusalemme come un invito a guardare avanti, fidandosi.
Far risplendere la vita
Di vocazione parla esplicitamente il brano di Paolo (2Tm 8b-10), e, guarda caso, in connessione con la sofferenza. Si è parlato di fiducia come ingrediente base della scelta vocazionale, una fiducia che si sostiene con un costante sguardo in avanti, perché si sa che ogni scelta comporta qualche sofferenza, e dunque, per essere mantenuta, esige che si sia capaci di “lottare” contro tutto ciò che la ostacola (si veda la riflessione di domenica scorsa) e che, attraverso questo esercizio o allenamento, si costruisca la perseveranza, senza la quale ogni vocazione è destinata a fallire.
Il principio che sostiene questo discorso è sottolineato con enfasi da Paolo. Dio ci chiama «non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo progetto e la sua grazia. Questa ci è stata data fin dall’eternità, ma è stata rivelata ora con la manifestazione del salvatore nostro Cristo Gesù».
Dove si vede e si capisce tutto questo? Qual è il progetto di Dio, e come e dove si rivela la sua grazia? Nel fatto che «Dio ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’incorruttibilità per mezzo del vangelo».
Inutile ricordare che, prima di essere un libro, il vangelo è Gesù, la sua vita, le sue parole, i suoi gesti, i suoi miracoli. Seguendo il suo esempio, e con il conforto assicurato dalla sua presenza, dato che ha promesso di essere sempre con noi «tutti i giorni sino alla fine del mondo» (Mt 28,20), la nostra vocazione – di tutti – resta il compito di far risplendere la vita, profetizzare la futura incorruttibilità e sconfiggere ogni forma di morte.
A questo punto, anche se il discorso può sembrare generico e vago, chiunque può trovare i mille modi con cui è possibile concretizzare questo ideale, e praticarlo, anche a costo di dover attraversare delle sofferenze.
Illuminare la notte
Di splendore parla il brano evangelico (Mt 17,1-9), e di una luce che si concentra sul «volto», quasi una risposta alle ripetute invocazioni del Salmo 26,8-9 che apriva la liturgia odierna, perché, davanti ai tre discepoli, «il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce».
Il bagliore serve ad attirare l’attenzione su qualcosa di straordinario, ma non basta. La presenza, accanto a Gesù, di Mosè e di Elia dichiara che in lui trovano la loro sintesi più alta le figure dei leader saggi e le voci di tutti i profeti che hanno guidato Israele nella sua storia, e che continueranno a guidare il popolo, ogni popolo, sulle orme di Gesù.
Davanti a tanto prodigio, sorge naturale la reazione di Pietro: «è bello per noi essere qui!», con l’idea di prolungare la presenza dei tre costruendo per loro tre capanne. Ma ecco apparire una «nube luminosa che li coprì con la sua ombra», una frase piena di paradossi per dire l’indicibile: la nube vela e rivela, copre con la sua ombra, riparando con ciò dalla luce accecante del sole, ma è insieme luminosa e, alla fine, è una nube che parla, perché da quella che è una vera epifania di Dio, vicino e irraggiungibile, spunta una voce che proclama: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo».
La reazione dei discepoli rivela lo sconvolgimento provocato dalla visione: «caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore». La scena è perfetta: tre in alto, come segno della maestà, della serenità e della quiete che pervade il mondo di Dio, tre in basso, in una posizione che traduce visivamente il disordine e la paura che marcano il nostro mondo.
Inevitabile visualizzare la Trasfigurazione di Raffaello nei Musei vaticani, genialmente contrastata nel reparto sottostante dalla guarigione del ragazzo epilettico indemoniato (Mt17,14-18), ordine e caos, o a quella più composta di Giovanni Bellini a Capodimonte, insieme a tante altre raffigurazioni.
Segue un gesto delicatissimo di Gesù che, per dissipare lo spavento dei discepoli, li «tocca» e li rassicura: «Alzatevi, non temete». Sì, perché lo scopo della visione non era di trattenere i discepoli dal viaggio verso Gerusalemme, dove si sarebbe compiuto il dramma del maestro e dei suoi seguaci, ma di incoraggiarli a continuare il cammino, almeno fino alla risurrezione, che viene esplicitamente nominata nei tre annunci della passione che precedono e seguono l’evento della Trasfigurazione.
La luce che viene a noi da questo “mistero” può anche essere debole e ondeggiante come quella della “lampada” che brilla in un luogo oscuro, ma l’immagine è stata ripresa in modo stupendo dal poeta G.M. Hopkins, che in una «lanterna che guada la notte» vede l’immagine di qualche persona «bella nel corpo o nello spirito» come gli capita di incontrare negli amici. Sa però che questi legami si interrompono, che queste lanterne si spengono, per la morte o la distanza. Resta però alla fine Cristo, colui che salva le relazioni, da Hopkins magnificamente definito come «primo, saldo, ultimo amico», first, fast, last friend: uno stupendo trattato di cristologia in quattro monosillabi.