Il brano evangelico di oggi narra l’incontro tra due “estranei”, un ebreo e una cananea, destinati, per principio, a ignorarsi, quando non a nutrire sentimenti di ostilità come può capitare facilmente tra “diversi”. In ogni tempo, ma forse nel nostro con particolare urgenza, è sempre utile fare una riflessione sul perché di tali categorie mentali e, possibilmente, trovare il modo di superarle.
Le categorie esistono, per le cose e per le persone. Dio stesso, nel secondo racconto della creazione, chiede all’uomo di «dare un nome a ognuno degli esseri viventi sulla terra» (Gen 2,19), e questo per uscire dal caos di ogni possibile confusione e per potersi “relazionare” con tutto ciò che esiste. È tanto vero che questo “dare un nome” risponde ad un’osservazione di base: «Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda» (Gen 2,18).
“Nominare” significa, dunque, porre le premesse per creare le possibilità di una “relazione”, essendo questa, e non la solitudine, la vocazione dell’uomo. La prima cosa che l’uomo nota, infatti, è la percezione di un’“assenza”: l’uomo non trova in nessuna creatura qualcosa che risponda ad un bisogno che scopre proprio nel momento in cui volge il suo sguardo a tutta la creazione. Nel mondo-giardino che Dio ha piantato per porvi l’uomo (Gen 2,8), questi non trova niente in cui rispecchiarsi, niente in cui trovare, insieme, una completezza e un aiuto: quel “giardino” fa piuttosto pensare a un deserto! La prova di questo “vuoto” straripa nella gioia con cui l’uomo, davanti alla creazione della donna, esclama stupito: «Questa volta è osso delle mie ossa e carne della mia carne» (Gen 3,23).
Mi pare importante annotare che la nota della completezza e del possibile aiuto non riguarda solo il rapporto tra i sessi, ma dovrebbe estendersi a ogni tipo di relazione, un ideale che sappiamo essere guastato dal peccato, il quale produce, invece, sentimenti che portano a tradurre la diversità in ostilità. Ma questo è esattamente il problema che le letture odierne ci aiutano a superare positivamente.
Il “cuore” è il luogo dell’incontro
Come sempre, è la prima lettura (Is 56,1.6-7) a introdurre il discorso con affermazioni di carattere generale. Il profeta lancia un messaggio trasparente e di importanza cruciale: non è l’etichetta o la categoria che risulta centrale per decidere chi accogliere e chi rifiutare, ma il “cuore” della persona, che va al di là delle caratteristiche di sesso, razza, religione, età, cultura e quant’altro. «Gli stranieri che hanno aderito al Signore per servirlo e per amare il nome del Signore… li condurrò sul mio monte santo e li colmerò di gioia nella mia casa di preghiera».
Se il nostro sguardo obbedisce a questa legge, anche colui che ci appare – per qualunque ragione – “straniero”, diventa in realtà “uno di casa”, destinato alla gioia di Dio, che non è proprietà né privilegio di nessuno, ma dono che riceviamo dal Signore se «restiamo fermi nella sua alleanza».
Questa è un patto di amore con cui Dio si è legato all’umanità, patto basato su una iniziativa di Dio stesso, che ci ha scelti e amati prima che noi lo amassimo, un patto che Dio non si rimangia mai, e che resta un punto fisso del suo modo di trattarci: la sua misericordia gratuita – come ci ricorderà Paolo –.
Isaia chiama «casa di preghiera» il luogo dove il Signore accoglie tutti. Due note importanti in proposito.
Primo: questo luogo non è uno spazio fisico, ma piuttosto uno spazio mentale e affettivo, che comprende la mente e il cuore, e che si può trovare dovunque, anche se può essere utile a volte raccogliersi in una “chiesa”, dove le immagini e le parole della liturgia possono essere di aiuto a tornare al “cuore”, che è il primo e più vero luogo di incontro con il Signore.
Secondo: forse è necessario anche ricordare che la “preghiera” non è anzitutto né soprattutto una recitazione di formule, ma lo stare in silenzio per riflettere su noi stessi e per comunicare con Dio, che non è nelle nuvole, ma che troviamo nella sua Parola quale ci viene consegnata dalla Bibbia e trasmessa nella liturgia.
“Tutti hanno peccato”
In questa luce prende tutto il suo valore il brano paolino (Rm 11,13-15.29-32) che travolge la distinzione tra ebrei e non-ebrei eliminando ogni possibile orgoglio di casta, da una parte e dall’altra, perché – udite un po’ – «Dio ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per essere misericordioso verso tutti!».
L’affermazione è straordinaria, e già dovrebbe renderci cauti di fronte a certe rigidità di valutazione. Il peccato delle origini ha trovato misericordia grazie al peccato degli ebrei che, rifiutando di riconoscere in Gesù il Messia, ha aperto la strada dell’annuncio del Vangelo alle genti. D’altra parte, il “bene” prodotto presso le genti, ha messo in luce il peccato di quello che si proclamava «il popolo di Dio», con il risultato detto sopra, per cui «tutti hanno peccato» (Rm 3,23), così che «nessuno si insuperbisca» (Rm 11,20).
Proprio questa mutazione contiene un altro insegnamento decisivo. Le due situazioni che mutano, una in senso positivo (pagani) e una in senso negativo (ebrei), mostrano come le “identità” non vanno intese come etichette rigide, chiuse e immobili, ma devono rimanere aperte ad ogni possibile mutamento, in meglio o in peggio, il che toglie valore a qualsiasi “pre-giudizio” per lasciare il posto alla valutazione del comportamento.
La parola chiave è “uscire”
Il passo decisivo ci è offerto dal vangelo (Mt 15,21-28). Il punto chiave è meravigliosamente segnalato da un verbo – “uscire” – che malauguratamente non compare nella povera traduzione della Bibbia CEI. Questo è l’inizio: «In quel tempo, partito di là, Gesù si ritirò verso la zona di Tiro e di Sidone. Ed ecco una donna cananea, che veniva da quella regione, si mise a gridare…». Fausti scrive: «E uscito di là, Gesù si ritirò nelle parti di Tiro e Sidone. Ed ecco una donna cananea, che usciva da quelle regioni, gridava dicendo…». Fausti traduce alla lettera la Volgata che rende alla lettera il greco. Basterebbe, per capire l’importanza, almeno in qualche caso, della traduzione letterale.
Mi basta ricordare che il cistercense Isacco della Stella (XII secolo) ha composto ben cinque sermoni (33-37, in I Sermoni, vol. I, Paoline, Milano 2006, pp. 251-299) per commentare questo brano di Matteo. La parola chiave che li attraversa tutti è precisamente il verbo uscire, in cui Isacco legge l’uscita eterna del Figlio dal Padre (lettura mistica), quell’uscita per noi fondamentale che è la discesa del Verbo nella carne (lettura storica) e, alla fine, questa uscita dai confini della Galilea per entrare in un territorio pagano (lettura morale, in cui la donna diventa l’immagine della Chiesa), chiamato qui genericamente «le parti di Tiro e di Sidone».
Il brano descrive un “percorso” che coinvolge tutti e due i protagonisti. Gesù esce da una religione diventata formalismo limitante con, in più, il rischio altissimo di creare una sicurezza fasulla: la donna esce da una religione dove la fede è in divinità lontane che non danno risposte efficaci al bisogno di dominare il demonio, qualsiasi cosa questa parola voglia dire.
La prima è una religione con troppi appigli e troppo facile, la seconda è senza appigli, e dunque inutile; la prima appare angusta e soffocante, la seconda impotente e angosciante.
L’incontro cambia tutti e due mediante un percorso di avvicinamento. Per la donna, Gesù è chiamato prima «Signore, Figlio di Davide» – forse una formula codificata che ella aveva sentito dire – poi, quando vede che non funziona, grida e si rivolge a lui chiamandolo semplicemente «Signore», un titolo che andava bene per qualsiasi sconosciuto.
Gesù pure muta: all’inizio non le rivolge neppure la parola, poi, richiamato dai discepoli, non si sa se per benevolenza o per eliminare una scocciatrice, le ricorda il limite posto dalla sua missione destinata «alle pecore perdute della casa di Israele», dandole del «cagnolino» secondo il tipico vocabolario usato dagli ebrei per i pagani, ma, alla sua replica, che gli ricorda come «anche i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni», risponde: «Donna, grande è la tua fede! Avvenga di te come desideri». Le si rivolge con un titolo dignitoso (lo stesso usato per sua madre a Cana) e riconosce in questa pagana la presenza della «fede».
Ed ecco la lezione aurea offerta da questo brano: ogni incontro trasforma la persona, ma perché tale incontro sia vero occorre uscire – tutti e due –, perché ognuno è altro per l’altro. Sia Gesù sia la donna sono usciti da un confine: lui da una visione “ordinata e pianificata” della missione per cui era stato inviato, la donna dal territorio della “rassegnazione” davanti al fallimento. La sua tenacia ha costretto Gesù ad anticipare i tempi; la riluttanza di Gesù ha costretto lei a raffinare e a semplificare la sua fede. Erano due “altri” all’inizio della storia; sono, alla fine, due che si ritrovano in un momento di guarigione e di lode al Signore. Che questo incontro sia decisivo per Gesù, lo mostra il brano successivo (Mt 15,29-31) che mostra un Gesù che esce incontro a una folla di “altri”: «zoppi, ciechi, muti e molti altri ammalati». I muri sono caduti, le frontiere sono aperte, e attorno a Gesù gli altri non sono più altri, ma un nuovo popolo che lui guida e nutre con una seconda moltiplicazione di pani (Mt 15,32-39).
In appendice, non vorrei dimenticare che, nella storia di questo incontro, e a favorirlo, intervengono anche i discepoli, e se – come suggerisce Isacco della Stella – nella cananea è raffigurata la Chiesa, la loro presenza suggerisce la “mediazione” che la comunità di Gesù è chiamata a operare. La traduzione fa dire loro «Esaudiscila»; Fausti più letteralmente usa «Congedala». Il verbo usato è, in effetti, ambiguo. Può essere inteso come un invito a esaudirla guarendole la figlia, o a un più brusco liberarsi della donna perché disturba con le sue grida. I discepoli, di fatto, in un altro passo, rimproverano la gente che presenta a Gesù dei bambini perché imponga loro le mani, ma Gesù li richiama a non impedire ai bambini di andare a lui (Mt 19,13-15). Ottimo spunto per un regolare esame di coscienza su come esercitiamo la nostra “mediazione”.