La carezza è un modo di dire all’altro: tu sei il mio confidente e sono felice che tu mi accordi fiducia. Ma se questi si ritrae, ci si sente rifiutati o fraintesi. La stretta di mano, i fiori, il lumino acceso al santo patrono esprimono sentimenti, emozioni, stati d’animo che nessuna parola è in grado di comunicare. Il soffio sulle candeline, seguito dall’applauso degli amici e dal canto di auguri, segna il momento culminante della festa di compleanno.
Gesti solo apparentemente privi di logica. Il rito, anche se diverso dal ragionamento positivista, è carico di significati e messaggi.
Come possono gli amici manifestarci la loro gioia per la nostra nascita, se non erano presenti quando abbiamo emesso il primo vagito? Quel giorno, ormai lontano, non può essere raggiunto, ma è possibile riprodurlo… attraverso il rito. Il soffio che spegne le candeline annulla i nostri anni, ci riporta al momento della nascita, riproduce il nostro primo respiro e offre la possibilità di festeggiare la nostra venuta al mondo. Non avrebbe senso consumare da soli la torta del compleanno.
L’uomo viene dalla terra, è strettamente legato agli altri esseri viventi e alle creature materiali con le quali è chiamato a costruire una crescente armonia e prova un intimo bisogno di rendere concrete, percepibili con i sensi anche le realtà invisibili e divine.
I sacramenti sono la risposta di Dio a questo bisogno.
Durante l’ultima cena, Gesù ha istituito il rito con cui rendere presente il suo supremo gesto di amore, il dono totale della vita. La Parola di Dio, pane disceso dal cielo, ora può realmente essere assimilata, non solo con la mente e con il cuore, ma anche attraverso il sacramento. Anche di questo segno sensibile noi, fino a quando saremo pellegrini in questo mondo, avremo sempre fame.
Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Non della sola Parola vive l’uomo, ma anche della Parola fatta pane”
Prima Lettura (Pr 9,1-6)
1 La Sapienza si è costruita la casa,
ha intagliato le sue sette colonne.
2 Ha ucciso gli animali, ha preparato il vino
e ha imbandito la tavola.
3 Ha mandato le sue ancelle a proclamare
sui punti più alti della città:
4 “Chi è inesperto accorra qui!”.
A chi è privo di senno essa dice:
5 “Venite, mangiate il mio pane,
bevete il vino che io ho preparato.
6 Abbandonate la stoltezza e vivrete,
andate diritti per la via dell’intelligenza”.
Fra i popoli dell’antico Medio Oriente, più dei ricchi e dei conquistatori di imperi, erano stimati i sapienti (Pr 24,5), coloro che, con l’esperienza che costituisce la “corona dei vecchi” (Sir 25,6) erano in grado di suggerire buoni consigli, citare proverbi, proporre indovinelli e risolvere enigmi; erano ammirati coloro che tramandavano storie atte a educare i giovani e insegnavano comportamenti sociali e religiosi corretti. Sapienti erano soprattutto gli esperti della legge del Signore, perché essa “trabocca di sapienza” (Sir 24,23) e conduce alla beatitudine.
L’autore del libro dei Proverbi si presenta come un padre saggio che si rivolge teneramente al figlio e lo esorta a seguire i consigli della sapienza, assicurandolo: “Essi saranno una corona graziosa sul tuo capo e monili per il tuo collo” (Pr 1,8).
I primi nove capitoli del libro costituiscono l’introduzione a tutta la raccolta di detti sapienziali, frutto di parecchi secoli di riflessione dei saggi d’Israele.
Il brano di oggi è tratto dall’ultimo di questi capitoli. In esso vengono messe in scena due donne, una principessa e una prostituta, che rappresentano: l’una la signora Sapienza, l’altra la signora Stoltezza. Sono in competizione, hanno imbandito due banchetti contrapposti ed entrambe si rivolgono agli inesperti, a chi è privo di senno (vv. 4.16) per attirarli alla loro festa.
La lettura ci fa contemplare solo il primo dei quadretti del dittico, quello in cui agisce la Sapienza, ma, per farne risaltare il messaggio, faremo riferimento anche al comportamento della Follia (Pr 9,13-18).
Entra in scena la Sapienza che si costruisce una splendida casa, con sette colonne (v. 1). La colonna è il simbolo della stabilità e il numero sette della perfezione.
La sapienza di Dio è l’unico architetto di cui ci si può fidare perché progetta sempre edifici solidi, incrollabili; le altre sapienze si dimostrano fragili. Un’ideologia è presto smentita da quella che le succede e a un sistema filosofico ne segue sempre un altro; solo la sapienza di Dio non viene usurata dal tempo né scossa dai terremoti ideologici; i venti delle mode e le intemperie delle nuove dottrine non la intaccano. Chi edifica la propria vita su di essa non andrà incontro a sorprese, non dovrà temere il giudizio di Dio, “sarà simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde, perché era fondata sopra la roccia” (Mt 7,24-25).
Costruito il proprio palazzo, la Sapienza invia le sue ancelle nei punti strategici della città per invitare tutti alla tavola da lei imbandita (v. 2). Offre gratuitamente pane che sazia e vino che dà gioia.
Al cristiano, le premure e la solerzia della Sapienza richiamano la sollecitudine apostolica di Cristo che ha inviato i suoi discepoli nel mondo intero e ha ingiunto loro di non perdere nemmeno un istante lungo la via (Lc 10,4).
La Stoltezza non costruisce nulla, “se ne sta seduta alla porta di casa”, neghittosa e indolente (v. 14), non si preoccupa di andare in cerca degli invitati, sa di poterli comodamente sedurre col suo ingannevole fascino, li aspetta e tende insidie a tutti coloro “che vanno diritti per la loro strada” (v. 15). Con parole melliflue li eccita al proibito: “Le acque furtive sono dolci, il pane preso di nascosto è gustoso” (v. 17).
La sua è la lusinga del piacere immediato che, lo sappiamo, cattura molti e con facilità, ma conduce alla rovina. Chi ne resta ammaliato non si accorge che, nella casa della Stoltezza, “si celano ombre di morte e i suoi invitati si incamminano verso il profondo degli inferi” (v. 18).
Il destino di chi ascolta la Sapienza è invece la vita (v. 6).
Seconda Lettura (Ef 5,15-20)
15 Vigilate dunque attentamente sulla vostra condotta, comportandovi non da stolti, ma da uomini saggi; 16 profittando del tempo presente, perché i giorni sono cattivi.
17 Non siate perciò inconsiderati, ma sappiate comprendere la volontà di Dio. 18 E non ubriacatevi di vino, il quale porta alla sfrenatezza, ma siate ricolmi dello Spirito, 19 intrattenendovi a vicenda con salmi, inni, cantici spirituali, cantando e inneggiando al Signore con tutto il vostro cuore, 20 rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo.
Non è per recriminare sul presente o per rifugiarsi nel rimpianto e nelle nostalgie del passato che l’autore della Lettera agli efesini ricorda ai cristiani del suo tempo: “I giorni sono cattivi” (v. 16). Li vuole piuttosto mettere in guardia dai vizi che ha appena elencato – l’asprezza, lo sdegno, l’ira, il clamore, la maldicenza e ogni sorta di malignità (Ef 4,31) – che caratterizzano il comportamento dei pagani e rischiano di diffondersi anche tra i battezzati. Per evitare questo pericolo, suggerisce: “Vigilate sulla vostra condotta, comportandovi non da stolti, ma da uomini saggi” (v. 16).
La presente età del mondo è malvagia – ha già scritto Paolo ai galati (Gal 1,4) – ma il saggio non si adegua alla morale corrente; riconosce che il male esiste, ma sa “approfittare del tempo presente” (v. 16) per compiere il bene.
L’esortazione continua con un nuovo invito alla saggezza: “Non siate dunque sconsiderati!” (v. 17) e con un richiamo alla temperanza (v. 18). Le sregolatezze nell’uso del vino generano dissolutezza morale. Gli iniziati al culto di Dioniso raggiungevano l’estasi ricorrendo a bevande inebrianti, avevano convulsioni e si comportavano da invasati; il cristiano non ha nulla a che vedere con simili pratiche; è colmo dello Spirito santo, ricevuto nel battesimo, è sobrio e ripudia ogni forma di sfrenatezza.
L’ultima raccomandazione riguarda la preghiera (vv. 19-20). I fratelli della comunità si ritrovano per pregare, cantare, meditare insieme la parola di Dio. È così che evitano la stoltezza e acquistano la sapienza che conduce alla vita.
Vangelo (Gv 6,51-58)
In quel tempo, Gesù disse alla folla: 51 “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”.
52 Allora i giudei si misero a discutere tra di loro: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?”. 53 Gesù disse: “In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. 54 Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. 55 Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. 56 Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui.
57 Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me. 58 Questo è il pane disceso dal cielo, non come quello che mangiarono i padri vostri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno”.
Il vangelo di oggi riprende l’ultimo versetto della scorsa domenica, un versetto importante perché segna il passaggio, nel discorso di Gesù, dal “pane del cielo”, inteso come parola, come sapienza di Dio, al tema dell’eucaristia.
I giudei hanno capito che, quando parlava del pane del cielo, Gesù si riferiva al suo vangelo, al messaggio divino da lui portato su questa terra e, di fronte a questa sua pretesa inaudita, hanno reagito, sollevando dubbi e perplessità. L’affermazione con cui inizia il brano di oggi è ancora più sconcertante: il pane da mangiare non è soltanto la sua dottrina, ma la sua stessa carne.
Abbiamo spiegato domenica scorsa che, per carne, un semita non intende i muscoli, ma “tutta la persona”, considerata nei suoi aspetti deboli e fragili. L’uomo è carne perché è una creatura effimera, vulnerabile, destinata alla morte.
È dunque chiaro agli ascoltatori che Gesù non sta facendo una proposta cannibalesca, tuttavia, l’aspetto scandaloso della sua richiesta rimane e la reazione dei presenti è comprensibile e giustificata. Essi si mettono a discutere tra di loro: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?” (v. 52).
Capiscono che egli non si riferisce più soltanto all’assimilazione spirituale della rivelazione di Dio, ma anche a un mangiare concreto, non metaforico. Attendono una spiegazione.
Gesù non si preoccupa del loro imbarazzo e, invece di ammorbidire le sue parole, riafferma quanto ha già detto, aggiungendovi una richiesta ancora più cruda, ribadita con insistenza: è necessario bere anche il suo sangue (vv. 53-56).
Questo, per un ebreo, è qualcosa di ripugnante. Molti testi biblici proibiscono severamente questa pratica (Lv 7,26-27) “perché la vita della carne è nel sangue” (Lv 17,10-11) e la vita non appartiene all’uomo, ma a Dio. Anche oggi, quando uccidono un animale per nutrirsene, i giudei lo dissanguano nel modo più accurato, per non appropriarsi della sua vita; versano il sangue per terra per restituirlo a Dio.
La convinzione che nel sangue risieda la forza vitale spiega l’uso che ne veniva fatto, nell’Antico Testamento, nei riti di consacrazione e di purificazione. Significativo è soprattutto il modo in cui fu celebrata, col sangue, l’alleanza fra Dio e il popolo ai piedi del Sinai. Ci fu un solenne sacrificio di comunione, poi Mosè prese il sangue delle vittime e ne versò metà sull’altare, simbolo del Signore, e metà sul popolo, dicendo: “Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi”. (Es 24,6-8). Con questo gesto veniva creata la comunione di vita tra Dio e Israele e suggellata la loro mutua appartenenza. Era come se tra Dio e popolo si fossero instaurati rapporti di consanguineità.
È in questa mentalità che Gesù inserisce il suo discorso sulla necessità di mangiare la sua carne e bere il suo sangue, per entrare in comunione di vita con lui e con il Padre.
Nel passaggio dalla prima alla seconda parte del suo discorso abbiamo forse colto una certa incongruenza. Ha promesso: “Chi crede ha la vita eterna” (v. 47) e oggi dichiara: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna” (v. 54). Se, per avere la vita eterna, è sufficiente la fede nella sua parola, l’adesione alla sua proposta, al suo vangelo, che necessità c’è di accostarsi anche al sacramento dell’eucaristia?
Oggi, nel mondo, per mancanza di presbiteri, la maggior parte delle comunità cristiane, nel giorno del Signore, non ha a disposizione il pane eucaristico, ma solo il pane della Parola e siamo certi che, da quest’unico alimento, ricevono abbondanza di vita.
Perché allora l’eucaristia? Non basta la Parola?
Premettiamo che questo sacramento – che rende realmente presente Cristo – non sostituisce la fede nel suo vangelo. Questa è fondamentale e imprescindibile.
La comunione non è un rito magico, come invece lo erano i riti compiuti dagli iniziati nei misteri pagani, e non è una medicina che agisce automaticamente e ottiene la guarigione del malato anche se è in stato di incoscienza. Non è corretto pensare che, per ricevere la grazia del Signore, basti fare molte comunioni. Gesù non ha raccomandato di fare molte comunioni, ma di “mangiare la sua carne e bere il suo sangue”.
L’eucaristia non produce alcun effetto se non è ricevuta con fede, cioè, se non è espressione della decisione interiore di accogliere Cristo e di permettergli di animare tutta la vita. Prima di ricevere il pane eucaristico è sempre necessario leggere e meditare un brano della parola di Dio. Chi accetta di divenire una sola persona con Cristo nel sacramento, deve prima conoscere la sua proposta di vita. Non si stipula un contratto senza aver letto e valutato con attenzione tutte le clausole.
Abbiamo introdotto il tema di questa domenica con il richiamo al significato del rito. Ora lo riprendiamo per comprendere meglio il discorso sull’eucaristia.
Subito dopo la Pasqua, i cristiani hanno sentito il bisogno di celebrare l’evento fondante della loro fede, la morte e risurrezione di Cristo, e non hanno dovuto inventare un rito per riprodurre l’evento, perché Gesù stesso lo aveva istituito. Prima della sua passione, mentre era seduto a tavola con i suoi discepoli, prese un pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: “Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me” (Lc 22,19).
Fedeli a quest’ordine del Signore, il primo giorno di ogni settimana, i cristiani cominciarono a riunirsi per celebrare l’eucaristia. Commovente al riguardo è la testimonianza, non sospetta, di Plinio che, dalla Bitinia, scrisse all’imperatore Traiano: i cristiani “hanno l’abitudine di riunirsi in un giorno fissato prima del levarsi del sole, di cantare tra loro alternativamente un inno a Cristo come a un dio, di impegnarsi con giuramento a non perpetrare crimini, a non commettere né ruberie, né brigantaggi, né adulteri, a non venir meno alla parola data, a non negare un deposito reclamato con giustizia; compiuti questi riti, essi hanno l’abitudine di separarsi e di riunirsi ancora per prendere il loro cibo che, checché se ne dica, è ordinario e innocuo” (Plinio, Ep. X).
È una caratteristica del rito quella di essere ripetitivo, di seguire uno schema fisso. Guai a noi se, per salutarci, al posto del “buon giorno” e della stretta di mano, dovessimo inventare ogni volta formule e gesti sempre nuovi. I riti sono ripetitivi, ma non inutili, perché creano ciò che significano. Il saluto non solo indica che esiste accordo fra due persone, ma produce e accresce la reciproca armonia. Il dono di una rosa fa sbocciare un rapporto di amore, lo manifesta e lo alimenta. I cori dei tifosi rivelano la simpatia per una squadra e mantengono viva la passione sportiva. La parata militare celebra l’amor patrio e lo inculca.
Questa è la forza, questa l’efficacia del rito.
I primi cristiani avevano una sola celebrazione eucaristica settimanale, oggi noi possiamo partecipare alla messa ogni giorno. Se ripetuto con fede, questo sacramento che significa l’unione con il Signore della vita, rende sempre più solida e più profonda questa unione.