Nel corso della liberazione di Israele dalla schiavitù in Egitto, il libro dell’Esodo narra come alla montagna del Sinai (Es 19,1–40,38) avvenga il dono della Legge e la stipulazione dell’alleanza (19,1–24,11) e il dono della Dimora (24,12–40,38). Mosè sale sul monte (24,12-18) e, dopo gli ordini di YHWH (25,1–31,18), viene registrato il mistero della misericordia divina (32,1–34,35) e la costruzione della Dimora (35,1–40,38).
Es 32,1-35 narra della costruzione del vitello d’oro e delle sue gravi conseguenze: Il peccato del vitello d’oro (vv. 1-6); Denuncia di YHWH e intercessione di Mosè (vv. 7-14); Giudizio e distruzione del vitello d’oro (vv. 15-20); Giudizio e punizione dei colpevoli (vv. 26-29); Denuncia di Mosè e nuova intercessione (vv. 30-34); Giudizio finale (v. 35).
Il vitello d’oro
Dopo varie settimane di assenza di Mosè, il popolo di Israele si lamenta di questo fatto con Aronne, prendendo le distanze dal loro liberatore («quel Mosè, l’uomo che ci ha fatto salire dal paese d’Egitto…»). Il loro comando è preciso: «Alzati, fa’ per noi un dio che cammini davanti a noi». Fare un dio? Si può “fare” un idolo, ma non “Dio”. Non si possono confondere le cose, anche se il nome è uguale (’ĕlōhîm).
Un dio non lo si può creare, lo si può solo accogliere nella sua esistenza eterna, azione provvidente, amore costante e preveniente. Non si può fare un dio che cammini, perché chi viene portato su una portantina è solo un idolo che va dove lo si vuol far andare, ma che non può “camminare” autonomamente.
Facci un dio/idolo perché lo possiamo vedere, venerare, toccare, manipolare, controllare. Questo è il desiderio inconscio nella richiesta degli israeliti. Questo è il suo peccato originale: non affidarsi alla fede nell’Invisibile, ma vedere e controllare l’opera delle mani dell’uomo.
Dio fatto dagli uomini?
Privo di autorevolezza propria di un leader, Aronne cede immediatamente alla richiesta e fonde per il popolo un vitello indorato, un vitello d’oro. Un dio fuso dagli orecchini e dai pendenti in possesso degli uomini e delle donne. Un dio fatto dagli uomini e con materiale fabbricato da essi non può essere che un idolo senza vita, pura proiezione di desideri umani.
I brani di Sap 13,10-19; 14,11-31; 15,7-19 sono una critica feroce e annichilatrice dell’idolatria egiziana e della ragione psicologica dell’origine di essa, che finisce col culminare nella zoolatria. Una vera “follia”.
Israele invece non è idolatra, ricorda Sap 15,2-6: «Anche se pecchiamo, siamo tuoi, perché conosciamo la tua potenza; ma non peccheremo più, perché sappiamo di appartenerti. Conoscerti, infatti, è giustizia perfetta, conoscere la tua potenza è radice d’immortalità. Non ci indusse in errore né l’invenzione umana di un’arte perversa, né il lavoro infruttuoso di coloro che disegnano ombre, immagini imbrattate di vari colori, la cui vista negli stolti provoca il desiderio, l’anelito per una forma inanimata di un’immagine morta. Amanti di cose cattive e degni di simili speranze sono coloro che fanno, desiderano e venerano gli idoli».
Ben misera la vita e il pensiero dell’idolatra: «Cenere è il suo cuore, la sua speranza più vile della terra, la sua vita più spregevole del fango, perché disconosce colui che lo ha plasmato, colui che gli inspirò un’anima attiva e gli infuse uno spirito vitale. Ma egli considera la nostra vita come un gioco da bambini, l’esistenza un mercato lucroso» (Sap 15,10-12a).
Gli idoli, «sono oggetti inutili, opere ridicole; al tempo del loro castigo scompariranno», stronca recisamente il profeta Geremia (Ger 10,15). «Ripudio il tuo vitello, o Samaria – dichiara YHWH per bocca del profeta Osea –, è opera di artigiano, non un dio; sarà ridotto in frantumi» (Os 8,6).
Posto su un piedistallo, il vitello d’oro è segno di potenza e di fecondità. «I giudei chiedono segni», mentre noi predichiamo Cristo crocifisso, ammonisce l’apostolo Paolo (cf. 1Cor 1,22).
Il popolo ha identificato nel vitello indorato il dio che lo ha fatto salire dall’Egitto, e Aronne vi costruisce addirittura un altare davanti a esso.
Mosè intercede e YHWH “si pente”
YHWH comanda a Mosè di scendere immediatamente dal monte perché il popolo di Israele si è pervertito (šiḥēṭ), si è allontanato dalla via indicatagli dal suo vero Signore. Hanno fabbricato un idolo, vi hanno fabbricato un altare e lo stanno venerando. È un popolo dalla “cervice pesante/cervice ostinata/qešēh ‘ōrēp”, ribelle e avversa all’ascolto docile. «È il popolo che tu hai fatto uscire dall’Egitto», rinfaccia YHWH a Mosè. E poi sbotta: «“Lasciami in pace/hannîḥāh lî”, che la mia ira li divori, mentre di te farò una grande nazione».
Mosè non spezza la solidarietà che lo lega al suo popolo e ricorda a YHWH che Israele è il popolo che egli ha fatto uscire dall’Egitto con grande forza e braccio potente (cf. v. 11). Ne va della sua faccia, del suo onore, se ora lo distruggesse. Mosè inoltre ricorda a YHWH che deve ricordarsi delle promesse fatte ai padri: una discendenza numerosa e un possesso permanente della terra della libertà.
Il brano ricorda con una forte nota antropomorfica come Mosè riuscì in tal modo a “placare il volto” di YHWH (wayyaḥēl ’et-penê YHWH) e a indurlo persino a “pentirsi/wayyinnāḥem” del male programmato contro il popolo e a recedere dal suo proposito.
Sono espressioni certamente antropomorfiche, che attribuiscono a Dio sentimenti umani. Ma esse non sbagliano nel loro intento: indicare che il Dio di Israele coltiva un amore appassionato per il suo popolo, spesso indicato con il termine “gelosia/qinnā’”. E l’amore appassionato non sopporta che l’amato si faccia del male da solo, prendendo i sentieri interrotti dell’idolatria, della ricerca cioè della “visibilità” e della volontà di “controllo”.
La vita del popolo di Israele deriva invece solo dalla fiducia che esce da sé per accogliere il dono, un’apertura propria di chi si fida e si apre all’ascolto docile, totalmente opposto alla “cervice pesante”.
La vita del popolo può continuare, grazie all’amore appassionato di YHWH e all’intercessione solidale di Mosè. Egli non cede infatti alla “lusinga” di YHWH di cercare una propria grandezza desolidarizzando dal popolo, con il quale ormai ha fatto corpo unico da tanti anni. Una fusione cementata da un lungo cammino, prove e sofferenze superate, gioie godute per i doni provvidenziali di YHWH.
Perduto e ritrovato
A Gesù si avvicinano in continuità (ēsan eggizontes) folle di personaggi poco affidabili. Vanno da lui “tutti” i “pubblicani/telōnai”. Incuriositi? Intimiditi? Strafottenti? Con qualche segno di voler “cambiare mentalità/meta-noein”? Sulle loro motivazioni non viene specificato nulla.
Sono gli addetti alla raccolta delle imposte e delle tasse per conto dei romani al loro “banco delle imposte/telonion”. Sono professionisti abituati a “fare la cresta” sui loro introiti e per tutto questo considerati sfruttatori, ladri, collaborazionisti e peccatori pubblici, emarginati dalla società civile e religiosa giudaica.
Con loro si avvicinano a Gesù – con gli stessi sentimenti? – anche tutti i “peccatori”, probabilmente trasgressori particolarmente conosciuti della legge divina e delle mille prescrizioni elaborate dalla tradizione orale farisaica. Gente invecchiata nel male. Senza alcuna speranza di riscatto sociale e religiosa.
Si avvicinano a Gesù forse perché hanno sentito che è un rabbi accogliente? Gesù infatti li “accoglie/prosdechetai” – non li sopporta solo, infastidito. Li accoglie guardando verso di loro, verso il loro volto e il loro cuore pesante, inaridito, in ricerca di luce, di una parola comprensiva.
Gesù li accoglie e mangia con loro, il massimo gesto di familiarità, di comunione, di amicizia. Questo non vuol dire che approvasse il loro comportamento e i loro pensieri. Tuttavia egli sceglie in prima battuta l’accoglienza della persona, l’apertura di una breccia, la costruzione di un ponte che renda possibile un incontro. Tutto questo suscita il mormorio continuo (diegoggyzon) dei farisei e degli scribi, studiosi della Bibbia e del diritto, per lo più di orientamento religioso farisaico.
Gesù difende e spiega il proprio atteggiamento, che è quello del Padre che lo ha mandato, con una parabola/tēn parabolēn, che si rivela poi essere composta di tre splendide parabole. Esse insistono tutte sul motivo del perduto-ritrovato: il pastore, la massaia, il padre prodigo di due figli (quest’ultima, splendida, è un prezioso “bene particolare”/Sondergut lucano).
Agli interlocutori spetta rispondere personalmente alla domanda esplicita o implicita che esse pongono a chi le ascolta (e a chi oggi le legge o le sente proclamare). Questa è la ricchezza unica e insurrogabile della parabola, un risultato retorico-letterario (e teologico-spirituale) altrimenti non raggiungibile in altre maniere.
Il pastore premuroso
Un uomo, un pastore buono e premuroso lascia novantanove pecore nel deserto – non del tutto al sicuro – per cercare “la perduta (irrimediabilmente)/to apolōlos” (< apollymi; non solo “smarrita/to planōmenon”, Mt 18,12.13). A prima vista “perduta”. Ma l’apparenza può ingannare…
Il risultato della ricerca non è ipotetico, ma sicuro, ottenuto (heurōn < heuriskō). Senza scene di rimprovero o di violenza, il pastore la riporta a casa con delicatezza, sulle spalle, come si fa con gli animali e le persone in particolare difficoltà (cf. Is 40,11). Ciò che ha la qualità di perduto – il neutro to apolōlos sottolinea proprio questo – è ritrovato. Il pastore chiama gli amici a congioire per il ritrovamento.
L’applicazione fatta da Gesù – e ripresa e perfezionata forse dall’evangelista quale vero autore che applica alle sue comunità la parola del Maestro – sottolinea che, allo stesso modo, tutto questo avverrà nel cielo, cioè nel cuore del Padre. Ci sarà più gioia per un peccatore che si pente (hamartolōi metanoounti) che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione.
La parabola ha sottolineato l’insistente e totale gratuità misericordiosa dell’agire del pastore verso un animale “perduto” irrimediabilmente, almeno all’apparenza. L’applicazione (v. 7) ricorda, da parte sua, la necessità che la persona peccatrice mostri segni di cambiamento di mentalità. Questo è sufficiente a scatenare una gioia nel Padre del tutto imparagonabile (uno contro novantanove…) con quella suscitata in lui dalla vita “regolare” degli altri novantanove sue pecore/figli più o meno al sicuro (giusti sembra, ma pur sempre nel deserto…).
Perduto-ritrovato, misericordia-accoglienza, (conversione)-gioia. Tanti temi si sovrappongono in modo indistricabile nella parabola, ma tutti a servizio della difesa che Gesù intende fare della sua prassi di accoglienza totalmente gratuita – in prima battuta – dei peccatori che si avvicinano a lui.
Domanda esplicita della parabola: quale uomo (v. 4: Tis antrōpon hymōn;) si comporta in questo modo, raro, arrischiato, ai limiti dell’irragionevolezza? Qualcuno di voi si comporterebbe forse così? C’è qualcuno che invece si comporta certamente così? Ognuno deve rispondere. E la risposta data deve essere applicata alla propria vita. Ricchezza insurrogabile delle parabole!
La massaia coscienziosa
Una donna, una massaia povera e coscienziosa non si rassegna ad aver perduto (irrimediabilmente)/apolesēi (< apollymi) – almeno così sembra in un primo momento – una delle dieci dracme che aveva in casa. Quattro grammi e mezzo di argento: il costo di una pecora, di un quinto di bue, la paga di una giornata di lavoro! La fatica sua, quella di suo marito… Ha perduto una dramma su dieci, ma è una perdita immensa, che morde la vita della famiglia e la spinge ai limiti della disperazione.
Non farà lei forse quello che sto per raccontarvi, domanda Gesù (ouchi) ai suoi ascoltatori, aspettando una risposta necessariamente positiva (la grammatica è teologia, diceva Lutero…)? La donna accende la luce, spazza la casa e cerca con cura (epimelōs) finché non ritrova la sua dracma. Una “cura” che non era detta esplicitamente neppure del buon pastore…
Il risultato della ricerca è certo, positivo anche in questo caso (heurousa). La donna allora chiama vicine e amiche a congioire per il ritrovamento della dramma che sembrava persa (irrimediabilmente).
Speriamo per lei che non abbia speso più per la festa di quello che ha ritrovato…
Una parabola che è un regno delle donne. Perduto-ritrovato-gioia condivisa.
Dei vari elementi della parabola, l’applicazione (v. 10) riprende solo la gioia (presso gli angeli, cioè in cielo, cioè nel Padre), motivandola con il cambiamento di mentalità di un solo peccatore (hamartolōi metanoounti, v. 10, cf. v. 7).
L’applicazione (v. 10) compiuta da Gesù e dall’evangelista a suo tempo, amplia il motivo principale della parabola costituito dalla gioia per ciò che era perduto ed è stato ritrovato. Essa, infatti, lo collega al tema della conversione, possibile all’uomo peccatore, impossibile a una dracma inanimata (o a un animale come una pecora della parabola precedente).
Gesù difende se stesso e il Padre, pastore e massaia insieme, con cuore di padre e di madre.
Ricerca appassionata, accoglienza, gioia del ritrovamento di ciò che ha la qualità del perduto. Questa è la base teologica di partenza imprescindibile. Il perduto è stato ritrovato, passivum humanum ma soprattutto divinum! Solo a partire da questo, da quello che il Padre e il Figlio – nello Spirito – compiono e suscitano in pura gratuità, si può innestare la serie degli altri elementi che concorrono alla riuscita dell’impresa e alla “verità” della parabola.
Il padre prodigo e due figli schiavi
La richiesta irrituale fatta dal figlio minore al padre di avere subito l’anticipo totale della propria parte di eredità spezza la vita al genitore (dieilen autois ton bion = divise fra loro la vita). “Non ho tempo per aspettare che tu muoia”, sembra essere il suo messaggio subliminale. Gli spettava un terzo dei beni o forse i due noni.
In capo a pochi giorni, il figlio raccoglie i suoi beni, non i suoi affetti.
Parte per un paese lontano – in esilio – senza salutare il padre e il fratello maggiore. Nella parabola (non necessariamente nel mondo di Dio!), in quella casa non c’è presenza femminile (ambiente un po’ teso, maschilista, concorrenziale?).
Il progetto del figlio minore è quello di realizzare la propria vita senza il padre, lontano dal padre, forse contro il padre. Strappare le radici, rinnegare paternità e fratellanza. Monade in cammino. Figlio e fratello di nessuno. Schiavitù mascherata da volontà di libertà ab-soluta, sciolta da ogni legame. In teoria i suoi doveri verso la famiglia non avrebbero dovuto essere conclusi, ma non sarà questo il suo caso.
Il figlio minore finisce per dissipare i beni e la propria anima devastando i suoi desideri con la soddisfazione compulsiva dei propri bisogni. Alla fine, ridotto in miseria dalla carestia e dalla sua follia onnivora fagocitante tutto quel gli passa sotto gli occhi, si ritrova a doversi “incollare/ekollēthē” a un padroncino straniero che lo schiavizza mandandolo a pascolare i porci, animali impuri per un ebreo.
Schiavo in casa, si ritrova schiavo lontano da casa. Abituato a un certo tenore di vita sociale e religiosa, si ritrova privato della dignità religiosa, ridotto a livello di schiavitù subumana. Non ha più neppure la libertà interiore o il coraggio/dignità virile di chiedere – o di rubare – le ghiande che i porci ingurgitano invece allegramente in piena libertà. La fame lo ha ridotto in uno stato di necessità, e poi non ci sono telecamere di sicurezza in giro… Che fare?
I salariati sovrabbondano di pani
La fame gli attorciglia le budella, lo fa ripiegare su se stesso (eis heuaton de elthōn) e gli fa ricordare la situazione più che dignitosa dei salariati di suo padre che “sovrabbondano di pani/perisseuontai artōn” (pur restando sempre servi/schiavi/doulous, v. 22). Un padre prodigo perfino con i suoi servi…
La fame gli fa rabberciare in fretta una frasetta religioso-umana di pentimento che forse può riaprirgli la porta di casa. Potrebbe andare in cerca di un altro luogo in cui vivere, ma è la casa paterna che di fatto lo attira come una calamita: mio padre…
Schiavo era, schiavo si è ritrovato, schiavo si immagina per il futuro. «Trattami come uno dei tuoi salariati», pensa di dire al padre. Non ha più niente da perdere, perché è già in stato di perdizione apparentemente irrimediabile («qui sono perduto/hōde apollymai», v. 17; cf. stesso verbo nei vv. 4[bis].6.9). Per questo, “alzatosi/risorto (dalla prostrazione mortale)/anastas”, si mette in cammino verso suo padre.
Sembra una decisione autonoma, di fatto è un accondiscendere alla forza di una calamita che attrae con forza e dolcezza, per grazia. È il padre ad attirarlo.
Il bacio del padre prodigo
Mentre era ancora lontano (makran), il padre vede il figlio arrivare dal paese lontano (chōran makran). Lo vede perché ogni giorno lo attende scrutando dalla terrazza di casa, fiducioso che egli ceda all’attrazione “calamitante” del suo cuore. Lo vede e si commuove (esplagchisthē).
Il primo verbo finito della serie delle tre azioni successive compiute dal padre indica il sommovimento delle viscere (materne), che nella Bibbia indicano metaforicamente l’amore paterno/materno di Dio per il suo popolo, in riferimento al ventre femminile che genera alla vita (nell’AT il gr. splagchna traduce l’ebr. raḥămîm). In ebraico, il plurale esprime inoltre spesso la qualità o un termine astratto: “le viscere” indicano perciò anche la “misericordia”.
Dignità, infine!
Incurante della dignità senile di un padre e di un padrone di casa mediorientale, il padre corre incontro al figlio, cade sul suo collo e lo bacia. Non c’è tempo per le domande o i rimproveri. La gioia (implicita) e la commozione regnano sovrane. Non c’è tempo per stare ad ascoltare le frasi fatte, preparate per l’occasione. Il figlio trova in extremis la dignità di non esprimere la volontà di rimanere in casa del padre come un salariato… Oppure è il padre a tappargli la bocca prima di sentire simili degradazioni, insopportabili al suo cuore.
La voce del padrone si alza chiara e forte. La serie dei cinque imperativi rivolti agli schiavi è fulminante, un fiume in piena. Non c’è tempo neanche per lavarsi (una buona dose di profumo coprirà la puzza dell’esiliato tornato a casa?).
Velocemente si porti al ritornato la veste migliore e lo si rivesta della dignità filiale. Un anello gli sia posto al dito perché ha recuperato la sua autorevolezza per sigillare ogni atto con sovranità indiscutibile. Calzari ai suoi piedi, a indicare la sua dignità di uomo libero e sovrano.
Sia portato il vitello mantenuto all’ingrasso per ospiti importanti e feste memorabili. Lo si uccida, perché «dopo aver mangiato, rallegriamoci/phagontes euphranthōmen!», comanda il padre. Il padre comanda la festa e la gioia! Una gioia condivisa con tutto il villaggio: c’è carne per tutti, l’alleanza interpersonale e sociale è ristabilita…
La baraonda di festa ha un’unica ragione: «Questo figlio mio era morto ed è tornato in vita, “era perduto/apolōlōs” [cf. vv. vv. 4[bis].6.9.17] ed “è stato ritrovato/heurethē”» (cf. vv. 4.5.6.8.9 [bis]). Un passivum humanum, ma soprattutto divinum nella mente di Gesù…
L’“assedio” all’altro schiavo
Il figlio maggiore “sente” dal servo che “tuo fratello” è tornato e che il padre ha fatto uccidere il vitello grasso solo perché lo ha riavuto “sano (e salvo)/hygiainonta”. Ma non “ascolta” il messaggio subliminale che il servo gli lancia perché si unisca alla festa.
In casa egli è sempre vissuto da schiavo nei confronti del padre (douleuō soi), “senza mai trasgredire un tuo ordine/oudepote entolēn sou parēlthon”, gli ricorderà. Il suo linguaggio fa trasparire quello impiegato spesso dai farisei verso Dio, in riferimento ai loro fratelli peccatori (cf. la parabola del fariseo e del pubblicano saliti al tempio a pregare, Lc 18,9-14).
Uno schiavo privo perfino della libertà interiore di chiedere al padre un capretto per far festa con gli amici. Forse il padre della parabola – da non identificare immediatamente e totalmente con Dio Padre a cui rimanda come referente extradiegetico! – poteva essere una persona severa (indurita forse un po’ dalla mancanza di una presenza femminile in casa?). Questo non giustifica l’animo di schiavo del figlio maggiore, coltivato per tanti anni… D’altra parte, che gioia (euphranthō, v. 29) potrebbe essere stata quella ipotizzata con i (presunti) amici (o complici?) senza/contro il padre e senza/contro il fratello minore? Gioia sradicata, spaesata. Gioia artificiale, virtuale, digitale…
Il figlio maggiore non condivide in nulla i movimenti del cuore del padre.
Non li conosce, perché è schiavo e non figlio, e perciò non li può neppure condividere.
Il padre per prima cosa si commuove (esplagcnisthē, v. 20). Il figlio maggiore per prima cosa si arrabbia (ōrghisthē, v. 28).
Il padre si abbassa con umiltà a “uscire/exeltōn” di nuovo da casa, dopo averlo fatto di corsa per il figlio minore. Ascolta lo sfogo rabbioso del figlio maggiore, che gli rinfaccia l’uccisione del vitello ingrassato per un suo figlio che è diventato quasi uno zombie per la sua vita dissoluta (come fa a sapere il maggiore che il minore è stato con le prostitute? Proiezione di desideri repressi?). Gli ricorda che quel suo figlio gli ha divorato la sua vita di padre (ho kataphagōn sou ton bion, v. 30) dopo avergliela già spezzata con la sua partenza (cf. v. 12: dieilen autois ton bion).
Il figlio maggiore rifiuta il sentimento di paternità e di figliolanza, vivendo in casa come uno schiavo, senza neppure il coraggio di andarsene come ha fatto il minore.
Rigetta pure ogni sentimento di fratellanza: quello che è tornato è il figlio del padre («questo figlio tuo»), non il suo fratello minore… Nessun residuo di amore fraterno nel suo cuore.
Bisognava far festa!
Il padre “assedia” il figlio maggiore con il suo amore prodigo. Il figlio è sempre col padre, gode sempre della sua presenza e del suo amore. Tutti i beni che il padre possiede sono in comunione con il figlio. A questi manca però di condividere il bene più grande del padre, l’amore prodigo per i due suoi figli, entrambi diversamente schiavi.
“Fare festa/rallegrarsi/euphranthēnai” e “gioire/charēnai” (una gioia condivisa, cf. sygcharēte nei vv. 6 e 9) “è assolutamente necessario/dei” per il cuore del padre. Egli ricorda infatti al figlio maggiore che quello che è tornato è «tuo fratello» minore e non solo il figlio cadetto del padre. Ed è assolutamente necessario far festa perché egli «era morto ed è tornato in vita» (cf. v. 24), «(era) perduto ed è stato ritrovato/apolōlōs kai heurethē» (cf. 4.5.6.8.9.17.24).
Il padre “assedia” con amore prodigo il cuore del figlio maggiore schiavo in casa, dissipatore prodigo anche lui ma, nel suo caso, di amore paterno, filiale e fraterno. Si è mangiato la propria vita (e quella del padre) pur rimanendo a casa, schiavo obbediente e osservante, ma vuoto dentro.
Figlio e fratello puramente virtuale, digitale.
Entrerai alla festa? Precedenza alla grazia
Sarà entrato in casa il fratello maggiore? Avrà condiviso l’amore paterno con animo di figlio e di fratello? Avrà potuto così finalmente godere di una vera gioia e di una vera festa (alla quale forse erano già stati invitati quali ospiti di riguardo anche i suoi amici: non c’è nessun problema per il padre…)?
Questa è la domanda implicita alla quale devono rispondere i farisei e gli scribi interlocutori di Gesù.
Questa la domanda rivolta ad ogni lettore.
Tutte e tre le parabole raccontate da Gesù per difendere e spiegare ai farisei e agli scribi che contestavano molto perplessi il suo atteggiamento di accoglienza verso i peccatori – atteggiamento che riflette quello del Padre che lo ha inviato – insistono sul tema del perduto-ritrovato… da Dio. Temi correlati a quello principale sono quelli del peccato e della conversione, della ricerca premurosa e della gioia condivisa per il ritrovamento.
Queste parabole sono lette spesso in contesto liturgico e spirituale che invita alla conversione dal peccato e alla penitenza. Non va però mai dimenticato l’intento originale con il quale Gesù le ha raccontate e che l’evangelista ha recepito sottolineando alcuni aspetti particolari attraverso le varie applicazioni (l’applicazione è assente nella terza!).
Le parabole non vanno confuse con le allegorie, né ridotte alla loro pura applicazione, che ne sottolinea legittimamente spesso un aspetto sui tanti originali intesi da Gesù.
La ricchezza fresca delle tre parabole della lettura evangelica odierna sta nel sottolineare la prevenienza della grazia di Dio in ogni esperienza spirituale e la domanda che essa pone a ciascun lettore: che ne dici tu? acconsenti alla grazia? entrerai alla festa?
Accetterai il bacio del Padre prodigo d’amore?
Il resto verrà di conseguenza.