«Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare», recita un ben noto proverbio. Tutto qui? Sono parole che usiamo in modo spiccio quando l’incoerenza delle persone con cui abbiamo a che fare ci delude e ci porta a cancellarle dalla colonna delle persone affidabili.
Le letture di oggi, dirette in primis a ciascuno di noi e non a un generico “gli altri”, sono un invito fatto con molta sapienza a esplorare, anzitutto in noi stessi, un simile comportamento decisamente sgradevole, quello di coloro che «dicono e non fanno», con cui Gesù, in uno dei suoi ultimi discorsi (un testamento?), fatto di una lunga litania di «guai!», bolla il comportamento di «scribi e farisei» (Mt 23).
Sono parole molto dure, e faremo bene a darvi l’attenzione che meritano. Anche perché la parabola si presenta come una sorta di continuazione e ulteriori precisazioni a commento di quella ascoltata una settimana fa. Lo sfondo è uguale: una vigna, che è il regno di Dio, dove si è chiamati in ogni ora a lavorare, ma dove l’orizzonte cambia e in certo senso si restringe: i protagonisti non sono più persone estranee chiamate dalla piazza, ma due “figli”, e questo conta, e non poco.
Il “giusto” e il “malvagio”
Il primo passo della riflessione ce lo offre il profeta Ezechiele (18,25-28), che, facendo il medesimo ragionamento ascoltato domenica scorsa, rivolto a quelli che “mormorano” contro le scelte di Dio dicendo: «Non è retto il modo di agire del Signore», risponde che in realtà sono loro a sbagliarsi. Avvertimento mai inutile, dato che istintivamente tendiamo a valutare le cose a partire da ciò che pensiamo noi, e non Lui, dato che, come abbiamo già detto, tendiamo a farci un dio a nostra immagine, e non a considerare in noi la “sua”. Il problema è uno solo, e fondamentale, e riguarda nientemeno che il bene e il male, la giustizia e la malvagità, due poli in mezzo ai quali si svolge la vita di ciascuno.
Il punto del ragionamento di Ezechiele è il rigetto di ogni forma di immobilità in cui si possa rinchiudere una persona, che è catalogata “giusta” o “malvagia” in modo netto e immutabile, come un insetto morto che si appende con uno spillo alla parete.
Il profeta invece ricorda che il “giusto” può deviare e commettere il male, con la conseguenza di morirne, e se non cambia, resta purtroppo malvagio, perché la morte mette termine al suo cammino, così che nessuna ulteriore mutazione è possibile.
Al contrario, «se un malvagio si converte dalla sua malvagità, e compie ciò che è retto, egli fa vivere se stesso». Schema perfetto, dove sono a confronto giustizia e malvagità, cioè vita e morte. Il tempo è dunque la categoria chiave che deve sorreggere il nostro comportamento, quello per cui – come diceva Isacco della Stella – noi “transitiamo” nell’essere, fino a quando saremo “trasferiti” nell’Essere, dove soltanto la mutabilità sarà tradotta in immutabilità, per la vita o per la morte. Il tempo, che è la stagione della pazienza di Dio, della sua magnanimità, affinché «nessuno si perda, ma tutti abbiano modo di pentirsi» (cf. 2Pt 3,9-10), diventa dunque la struttura decisiva in cui inserire il nostro modo di essere, la nostra conversatio, o stile di vita, come dicevano gli antichi.
Il tempo è un dono messo a nostra disposizione, che non va sprecato, ma va “ricomprato”: si veda l’espressione tempus redimentes (Ef 5,16; Col 4,5), dove l’originale greco – exagorázein – è molto pittorico, significando una merce che va acquistata, “tratta dall’agorà”, dalla piazza, in mezzo alle tante offerte che Dio ci fa, merce che non va né ignorata né superficialmente sprecata.
Come? Lavorando incessantemente, instanter operando, per citare la colletta della messa di san Stanislao Kostka (13 novembre), il giovane novizio gesuita polacco, morto a 18 anni, che, come dice un altro celebre testo in Sap 4,13, Consummatus in brevi explevit tempora multa (Divenuto in breve perfetto, ha compiuto le opere di molti anni), ci mostra quanto certi santi morti in tenera età siano stati astuti e saggi acquirenti al mercato del tempo.
La preghiera che a questo punto viene naturale potrebbe essere: «Insegnaci a contare i nostri giorni, perché possiamo introdurre il cuore nella sapienza» (Sal 89,12), non solo «introdurre la sapienza nel cuore»!
Il lavoro per creare comunità
Il brano proposto in seconda lettura (Fil 2,1-11), da leggere per intero, possibilmente, offre un mirabile elenco di come “lavorare” in quella vigna che è il regno, basato sull’esempio di Cristo Gesù, il quale è l’immagine stessa della vite, di cui noi siamo i tralci (Gv 15,1-17).
L’affermazione centrale mi pare possa essere, a livello di comportamento, «Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri».
Il regno qui presentato si realizza dunque in una “fraternità” che rivela l’ideale che Dio ha sognato per il mondo, e che Gesù è venuto a chiederci nella sua preghiera che conclude il discorso di addio: «Che tutti siano uno» (Gv 17,21).
Sappiamo quanta forza e quanta creatività questo desiderio abbia suscitato nella bimillenaria storia della Chiesa in termini di varie forme di volontariato e tentativi di vita comunitaria, e insieme quanti disastri hanno prodotto, e producono, la rivalità e la vanagloria, l’arrivismo e la vacuità che si nascondono in mille forme ipocrite di chi va alla ricerca di un successo mondano.
Ma non c’è altra scelta, perché l’esempio sovrano ci è ricordato con le parole di un inno che ci arriva dalla liturgia delle prime comunità cristiane, che mette a fuoco il paradosso fondamentale della vita di Gesù, l’annientamento e lo svuotamento nella morte che genera la pienezza della vita e la gloria di Colui che, Parola di Dio e Dio egli stesso, aveva scelto di abitare nella fragilità della carne per essere in tutto simile a noi tranne che nel peccato.
Il pericolo dell’autogiustificazione
Il Vangelo (Mt 21,28-32) è alla fine terribile nella sua spietatezza. La parabola finisce per essere un inganno per quelli che la ascoltano, che non si rendono conto (attenti, perché capita anche a noi!) di essere loro il personaggio negativo della storia.
Viene in mente la parabola che il profeta Nathan raccontò a Davide per farlo consapevole del suo peccato vergognoso (2Sam 12,1-7). Il racconto è trasparente nel suo significato. Vi si trovano ritratte le due figure di cui parlava Ezechiele: il «malvagio» che dice no all’ordine del padre, ma poi si pente e lo esegue, e il «giusto» che dice subito «Sì, Signore», e poi non fa quanto gli è stato chiesto.
Interrogati su chi dei due ha compiuto la volontà del padre, la risposta viene naturale alle labbra degli uditori, perché evidentemente stanno pensando agli “altri”, che è facile giudicare, senza comprendere che nella storia potevano anche essere cascati loro stessi.
Le ovvietà sono sempre pericolose. Mi viene in mente una poesia di R.S. Thomas, che comincia con un’espressione che indica esitazione e imbarazzo: «Ehm» / uno disse / parlaci dell’amore / e il predicatore aprì / la bocca e la parola Dio / gli cadde fuori…» (Il senso è nell’attesa, p. 75), quasi fosse bava che sfugge al controllo, a denunciare l’inefficacia, e la banalità, di certo linguaggio religioso.
E proprio per costringere a riflettere su se stessi, arriva come un pugno nello stomaco la frase solenne di Gesù, introdotta dal classico «In verità in verità vi dico», che arringa brutalmente i suoi interlocutori: «i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio». Il binomio è la classica sintesi per dire il popolo dei “peccatori”, in contrappunto con “scribi e farisei” che indicavano il popolo dei giusti! Gesù fa saltare queste due categorie “mummificate”, sostituite da quella della “conversione”, che invece, nella sua elastica dinamicità, dichiara la prontezza a qualsiasi cambiamento in positivo. Perché la gloria di pubblicani e prostitute non è nell’essere tali per professione, ma nella loro capacità di “credere” a chi predica «la via della giustizia» e di conseguenza a “pentirsi” e a cambiare stile di vita.
Il primo significato di questo sconcertante ribaltamento è senz’altro quello di mostrare con la massima chiarezza la generosità sconfinata di Dio. È stato detto che, come la parabola del figliol prodigo dovrebbe essere intitolata del Padre prodigo, così questa meriterebbe il titolo di Padrone prodigo (D.J. Harrington, The Gospel of Matthew, Collegeville, Minnesota 1991, p. 284).
Ci si può chiedere anche cosa porti queste due categorie di “marginali” ad essere i primi a credere a chi predica la conversione. Forse era proprio la loro situazione di “scarti”, e certo anche parole insperate di “accoglienza”, a renderli più sensibili ad annunci di un riscatto possibile tale che li facesse entrare, anche loro, nel regno, a lavorare nella vigna.
La durezza delle affermazioni di Gesù risalta nel non fermarsi a una denuncia generica, ma arrivano a un’accusa diretta, perché, mentre peccatori e prostitute restano sullo sfondo della scena, scribi e farisei sono tirati brutalmente in primo piano, interpellati senza mezzi termini come «voi»!
Quando si tratta di scardinare la durezza di un giudizio fatto di autogiustificazione e di conseguente disprezzo in chi era convinto di essere lui giusto e modello di giustizia, il linguaggio non può che diventare altrettanto duro. Matteo non ci dice nulla qui della reazione di scribi e farisei, ma certo non è senza significato che, poco oltre, la parabola sia seguita da quella dei vignaioli omicidi (Mt 21,33-46), quando finalmente «i capi dei sacerdoti e i farisei capirono che parlava di loro».
Quello che ne seguirà è a tutti noto. Significativamente il racconto della passione è preceduto da guarigioni di “ciechi” (Mt 20,29-34; Mc 10,46-52; Lc 18,35-43). La lezione è chiara. Se l’abbiamo imparata è il segno che i nostri occhi si sono aperti. Preghiamo che rimangano tali.