La gioia di appartenere a Gesù e alla sua Chiesa non può convivere con la presunzione di essere più “giusti” degli altri (cf. Lc 18,9-14).
Il volto dell’altro
Se abbiamo esperienza della grazia, del Bene che è il volto di Dio, non ci identifichiamo semplicemente con le condizioni di partenza del nostro percorso (cultura, lingua, abitudini ecc.), cioè con quello che siamo stati fino a quel momento; ma cogliamo, nell’incontro con l’altro, la chiamata dell’“oggi di Dio”, il quale come ad Abramo apre anche davanti a noi il viaggio della speranza, il cammino verso la manifestazione del suo volto.
È proprio il volto dell’“altro”, la sua “differenza”, che rende possibile per noi un “di più” che vada oltre noi stessi, che ci liberi dalla condanna della ripetizione senza fantasia del nostro già saputo e sciupato.
Il mondo dell’“altro” è quell’“oltre” che Dio ci prepara, come la “terra della promessa” dove egli si mostra: «Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti mostrerò» (Gen 12,1); «Abramo chiamò quel luogo “Il Signore vede”; perciò oggi si dice: “Sul monte il Signore si fa vedere”» (Gen 22,14).
Nel confronto con l’“altro”, nella sua differenza, io sono chiamato fuori di me stesso, ad andare incontro; c’è qualcosa qui che realizza già un tratto importante, essenziale, dell’immagine divina inscritta in noi all’origine. Essa si fa nitida e trasparente del suo modello proprio in questa uscita da sé, nell’andare incontro, nel “farsi prossimo” (Lc 10,36-37).
L’accoglienza dell’altro corrisponde all’intenzione divina di darci “un aiuto che corrisponde” a noi, proprio perché ovvia la mancanza di bene dell’essere soli e incompleti (cf. Gen 2,18).
Soprattutto, non possiamo avere paura del bene che scopriamo fuori dei confini che ci sono familiari, né possiamo pensare che il Bene debba chiedere il permesso a noi, per agire nei cuori e nelle menti di chi è diverso da noi. Non si tratta di un’eventualità, da sottoporre ai rigidi criteri di valutazione della nostra presunzione; è piuttosto una realtà da presupporre, di cui andare alla ricerca, da cui lasciarsi arricchire attraverso il dialogo interpersonale, interculturale.
Si tratta infine di credere che «Dio è più grande del nostro cuore» (1Gv 3,20), e «vuole che tutti […] siano salvati e giungano alla conoscenza della verità» (1Tm 2,4).
Questo fu l’atteggiamento di Gesù, sorpreso e “ammirato”, o addirittura “felice” (cf. Lc 15,5), della fede del centurione pagano (Mt 8,10) e della donna sirofenicia (Mc 7,29), come anche dell’amore della donna peccatrice (Lc 7,47), o della conversione di Zaccheo (Lc 19,9-10). Del resto, Gesù anche da risorto precede sempre i suoi «in Galilea» (Mt 26,32; 28,7.10.16).
Proprio la conoscenza di ciò che è “gratis” per noi ci offre, e ci richiede pure, di vivere liberi da ogni timore e gelosia. «Fossero tutti profeti nel popolo del Signore» (Nm 11,25), diceva Mosè a un Giosuè preoccupato che le prerogative del condottiero fossero usurpate da altri. In realtà, è proprio ciò che corrisponde al piano divino sull’umanità, quello di non limitare al possesso di qualcuno il dono di Dio, ma di allargarlo a tutti.
Da fratelli e non da avversari
Ciò vale perfino per il suo Spirito (Gl 3,1-2; At 2,17), che rende tutti figli, e perciò fratelli, perfino i pagani (At 10,44): «Ma tutte queste cose le opera il medesimo e identico Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole. […] Siamo stati infatti battezzati tutti in un solo Spirito per formare un corpo solo, sia Giudei sia Greci, sia schiavi sia liberi; e tutti siamo stati abbeverati nel medesimo Spirito» (1Cor 12,11.13).
A maggior ragione, il dono di Dio ci chiama a condividere da fratelli e non da avversari i beni della terra, che ci sono consegnati per il bene di tutti: «Se uno possiede le ricchezze del mondo e, vedendo il proprio fratello che si trova nel bisogno, gli chiude il cuore, come l’amore di Dio può essere in lui?» (1Gv 3,17). Anche solo un bicchiere d’acqua «non perderà la sua ricompensa», ma diventerà la realizzazione del dono di Dio condiviso tra tutti.
Negare ai fratelli il dono della fraternità (Gen 4,9), attraverso l’ingiustizia e la violenza, li espone al dubbio, allo smarrimento e alla disperazione, e perfino alla morte.
Negare il soccorso possibile, violare i diritti, umiliare la dignità, togliere la speranza: questo pone un “ostacolo”, un “inciampo” (in greco, uno skandalon) sul cammino, e impedisce di vedere oltre, di avere un futuro. Lo scandalo, infatti, non consiste né nella miseria morale o fragilità personale, né nello svelamento di questa in uno spazio pubblico. Lo scandalo di cui parla Gesù non fa gossip; piuttosto, avvelena l’esistenza di chi lo dà e di chi lo riceve.
Il contesto sinottico, soprattutto in Mt, ma decisamente anche nel vangelo di Marco, lega lo scandalo al tema della croce del Messia (Mt 16,23). Esso pertanto ha a che fare espressamente con la mentalità del potere e della violenza, come qualcosa che si oppone al “pensiero” di Dio e al suo progetto, al suo stile e alla sua azione di salvezza.
Lo scandalo
Lo scandalo offende soprattutto i piccoli, non perché essi non siano avvezzi a supporre fragilità o miseria nei fratelli, come pure in loro stessi; esso offende i piccoli perché li priva della speranza del bene, della sensatezza e dell’onore del vero e del coraggio necessario a difenderlo.
Lo scandalo è sbattere in faccia ai più deboli quella che si ritiene una beffa per loro: dire che non c’è riscatto, e che nemmeno in Dio possono confidare: sono i pensieri dell’empio secondo il Salterio (36,1) e il libro della Sapienza (2,21-22).
La mano, il piede e l’occhio non suggeriscono tanto le parti del corpo che darebbero luogo a peccati tali da suscitare vergogna pubblica; sono piuttosto le dimensioni antropologiche del potere, della libertà e del giudizio: in queste abita lo scandalo contro i piccoli.
Risuona nelle parole di Gesù la serietà di accenti degli antichi profeti: di Amos, di Osea, di Isaia. Questo spiega gli accenni e le immagini di tipo apocalittico impiegate da Gesù per l’ammonizione. Sono l’avvertimento di chi vede da lontano il pericolo e ne valuta la portata distruttiva. Ma sono al tempo stesso i richiami di Colui che «gode non della morte del peccatore, ma del fatto che si converta e viva» (Ez 33,11).
Anche Pietro, apostrofato come “Satana” da Gesù, per il suo pensiero «secondo gli uomini, e non secondo Dio» (Mc 8,33), è invitato a riprendere il suo posto di discepolo, “dietro” a Gesù, nel cammino della sequela, verso Gerusalemme.
Per i discepoli di Gesù, camminare dietro il Maestro è un processo di trasformazione e di crescita mai ultimato, un’occasione permanente di conversione, nella custodia dei “piccoli” e nell’accoglienza degli “altri”.