Come in antico il Signore aveva liberato il suo popolo dai suoi nemici tramite Mosè, Giosuè, i giudici, o il re Davide, un seguace di Isaia annuncia agli esiliati in Babilonia il nuovo esodo, la salvezza che il Dio di Israele realizza attraverso la figura misteriosa di un mediatore, che il profeta presenta come “il Servo”.
“Il Servo”
Il Servo prende, talvolta, le sembianze di tutto il popolo, testimone collettivo della fedeltà del Signore alla sua alleanza, di fronte alle nazioni pagane, che sono le spettatrici interessate, e potenzialmente coinvolte, dello spettacolo con cui il Signore compie le sue opere meravigliose.
Tuttavia, in modo più frequente e incisivo, il Servo è raffigurato come un individuo che agisce in modo distinto dal popolo e in suo favore, realizzando la propria mediazione attraverso il ministero della parola: il suo oracolo profetico diviene sapienza e istruzione che travalica i confini del popolo eletto e raggiunge le isole lontane.
Il Servo, alla maniera dei grandi profeti del tempo più antico come Osea e Geremia, mette perfino la sua vita al servizio dell’opera di Dio: questa si compie non più solo per mezzo della parola del Servo, ma ancor più nella forma impressionante di una testimonianza personale che abbraccia la sofferenza e perfino la morte.
L’opposizione dei peccatori, che ingiustamente lo colpisce, provoca la sua sofferenza e la sua morte, che egli accoglie come il proprio cammino di adesione alla parola del Signore e la piena trasformazione della propria vita, in conformità al volere di lui.
L’aspetto paradossale della sua testimonianza è legato all’intervento sorprendente del Signore, che lo libera dalla morte e gli dona una vita arcanamente lunga e feconda, portatrice di giustizia e di conoscenza per tutti. In questo, il Servo non è passivo e mero strumento del piano divino: egli mette attivamente e consapevolmente la sua vita a disposizione dei suoi fratelli, come il luogo concreto dove si compie anche la loro liberazione, l’offerta perenne del perdono come riscatto definitivo dal peccato.
I termini con cui il profeta descrive l’azione del Servo sono prettamente liturgici: nell’onorare e proclamare il vero volto di Dio come vincitore del peccato e della morte, il Servo realizza con il dono generoso della propria vita fino alla morte il senso dei sacrifici celebrati nel tempio e ne amplifica l’efficacia a vantaggio di tutti, universalmente.
Il Servo diviene così il mediatore della liberazione definitiva e la realizza in modo esemplare; ne diviene la primizia, il modello. Per mezzo del suo Servo, il Signore si fa conoscere, mostrando in lui la sua potenza e il dono di salvezza che custodisce per tutti.
Nel volto misterioso del Servo è stata di volta in volta letta l’identità di Geremia, o del Deutero-Isaia. I suoi tratti, tuttavia, nella poesia degli oracoli, sono trasfigurati, fino ad assumere la statura incombente del Messia venturo, re di giustizia, portatore dello Spirito del Signore e della buona novella ai poveri (cf. Is 61,1-2 = Lc 4,18-19): un annuncio di vittoria che trasforma «il giorno di vendetta del nostro Dio» nell’«anno di grazia del Signore».
Come a dire che il dramma del male e della morte non hanno soluzione con l’adozione degli schemi di potere e di violenza che devastano la storia umana, ma solo attraverso un capovolgimento radicale dei valori e delle prassi, a imitazione dell’agire “paradossale” del Signore e del suo Servo.
La fatica di accettare il Messia-Servo
A causa del suo carattere misterioso e della sua “diversità” dalle logiche umane, la figura del Servo non aveva contagiato molto le aspettative messianiche del tempo di Gesù. Anzi, lo stato di soggezione al dominio straniero (persiano, poi greco, seleucide e, infine, romano) aveva esasperato le attese popolari, nutrite di concezioni teocratiche e nazionaliste, belligeranti e miracoliste. Il Messia sarebbe stato un re vittorioso e taumaturgo, travolgente nel suo potere e nel suo successo.
L’incontro con Gesù, il fascino della sua persona e gli entusiasmi delle popolazioni della Galilea per i suoi miracoli fanno uscire allo scoperto le opinioni dei discepoli, e pure le loro ambizioni, che ritengono di dover esprimere prima dei possibili concorrenti.
Sono sordi agli avvertimenti e alle correzioni del Maestro, che di fatto non ascoltano, incapaci di comprenderne le intenzioni e il sentire profondo. Non sono preoccupati di essere solidali con lui, in adesione al suo insegnamento e alla sua consapevole missione di Messia rifiutato dai capi del suo popolo; sono invece preoccupati di garantirsi onori e vantaggi, conformi alla propria visione della vita. Essi aspirano istintivamente alla felicità, a un bene che sono portati a identificare dentro l’ambito dei loro bisogni e dei loro limiti.
L’insegnamento di Gesù e il suo stile di vita provocano invece a un confronto e a un discernimento. «Tra voi non è così!» (Mc 10,43). La sua parola denunzia il limite dei loro calcoli ripiegati sul benessere e sul potere, come i veri idoli che abitano i loro sogni e che li rendono insensibili alla presenza dei fratelli e al loro vero bene.
Per Gesù, infatti, il prossimo non costituisce alcun ostacolo alla realizzazione dei propri desideri; e nemmeno può essere visto come strumento di cui ci si possa servire per i propri scopi.
Per noi discepoli di Gesù, la sua relazione con il Padre, come la conoscenza viva che egli ha del suo mistero di amore che si dona, è la rivelazione del vero volto di Dio e la realizzazione piena della nostra vita umana.
Gesù ci chiede di condividere il suo cammino nel segno della partecipazione al suo calice, che è la sua sorte (cf. Mt 26,39), e al suo battesimo, che è la sua morte (cf. Rom 6,3); accettando di educare il nostro desiderio e consegnando noi stessi alla volontà di bene del Padre, vivendo la preghiera non come amplificazione dei nostri bisogni, ma come esperienza di trasformazione (cf. Mt 26,39-44; Eb 5,7-9) in cui veniamo plasmati dallo Spirito (cf. Eb 9,14).
A beneficio di tutti
I nostri progetti personali vengono liberati dalla prospettiva limitata e selettiva, che si struttura sulla competizione e l’ostilità; essi si dilatano per fare posto a un bene più grande, che noi conosciamo e realizziamo nel servizio vicendevole.
Il servizio vicendevole non diminuisce la dignità di nessuno; piuttosto restituisce a tutti la grandezza propria del Signore e Maestro, che si è fatto servo di tutti (cf. Gv 13,14-15). Non si tratta solo di perseguire una linea di rettitudine morale individuale, ma di accogliere un progetto globale, una visione sociale, in cui insieme gli esseri umani collaborano a realizzare la comunione della Trinità che vuole abitare in noi: «Che siano una cosa sola come noi» (Gv 17,22).
Le relazioni con il nostro prossimo sono lo spazio sempre disponibile, la chiamata quotidianamente rinnovata verso il bene che possiamo costruire insieme, così che il bene di ciascuno realizzi nel servizio il bene di tutti. Anche «lo sviluppo economico, sociale e politico ha bisogno, se vuole essere autenticamente umano, di fare spazio al principio di gratuità come espressione di fraternità» (Benedetto XVI, Caritas in veritate 34).