San Bernardo, nel primo dei sette sermoni dedicati all’Avvento, elenca sei cose che costituiscono l’oggetto della nostra attesa, e lo fa con l’invito a chiederci semplicemente chi sia colui che viene, da dove viene, dove viene, a fare che, quando e in che modo. È una traccia perfetta di indagine, che potrebbe accompagnarci lungo tutta questa stagione dell’anno, che educa, come sempre, la nostra fede e la vita spirituale che ne deriva.
Lo spazio di un’omelia non permette certo l’intero percorso, ma è bene sapere che la liturgia di oggi è una risposta chiara almeno alla prima domanda, perché, da una parte, il «terzo Isaia» (cc. 60-66) fa il ritratto perfetto di chi è colui che viene, mentre, dall’altra, il Battista, in maniera ferma e netta, precisa chi non è l’atteso. Farsi domande è lo stesso che analizzare i nostri desideri, e questo dice l’importanza di fare chiarezza sulle risposte, onde evitare attese sbagliate e aspettative fasulle. Su queste eventualità rischiose è lo stesso Gesù che ci mette in guardia chiedendoci di fare attenzione ai «falsi Cristi» (cf. Mc 13,5; Mt 24,4; Lc 21,8).
Anche ai nostri giorni abbiamo bisogno di questo avvertimento, vista la confusione imperante ingigantita proprio da quelli che si chiamano “mezzi di comunicazione”, i quali, piuttosto che comunicare, sembrano fatti apposta per sollevare polveroni, creare divisioni, dare notizie false, per cui diventa urgente la preghiera per il discernimento e l’attaccamento costante alla genuinità della parola di Dio, il vangelo sine glossa, nudo e crudo, si direbbe, come era il programma del primo Francesco, e come cerca coraggiosamente di fare il secondo e attuale che ci fa da guida.
Il “lieto annuncio”
In questa prospettiva diventa cruciale proprio la prima Lettura (Is 61,1-2.10-11), non fosse altro perché è stato lo stesso Gesù ad applicarla a se stesso, quando, nella sinagoga di Nazaret, dopo aver letto il brano, ne proclamò la realizzazione nella sua stessa persona, marcata dal realismo di quell’Oggi tanto amato da Luca, che ne fa il filo rosso che attraversa tutto il suo vangelo, dall’annuncio della nascita nella notte e fuori casa (Lc 2,11) alla parola rivolta al ladro che gli stava morendo accanto sulla croce (Lc 23,43). Così, infatti, annuncia ai suoi compaesani: «Oggi si è adempiuta questa scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi», e la risposta della gente – ahimè – la conosciamo bene (Lc 4,16-30).
La cosa dovrebbe farci riflettere, perché, davanti ad annunci gioiosi, spesso rimane in noi una sorta di istintivo pessimismo, che ci rende sospettosi sulla loro credibilità, dato che alla fine è il male che è ordinario e “banale”, quello che – come si usa dire – “fa notizia”, mentre la generosità, la gratuità, il bene non sembrano cosa di tutti i giorni, e sulle macerie di un mondo che sembra sbriciolarsi è difficile che germogli la speranza. È per questo che il primo sintetico annuncio che Gesù fa nel racconto di Marco recita: «È giunto il momento: Il regno è qui! Convertitevi e credete nel vangelo» (Mc 1,14).
Il termine vangelo è diventato tecnico, ma bisogna sempre sentirlo, con la mente e con il cuore, nel suo senso primitivo e originario di buona/bella notizia, per il quale il crederci non significa solo che essa è “vera”, ma ancora più che è “affidabile e realizzabile”, ed è qui che le cose si fanno difficili, ma non c’è altra maniera per vivere da discepoli del Maestro.
La reazione dei nazaretani non ci deve scandalizzare, ci deve piuttosto far pensare se, per caso, la loro non è anche la nostra reazione, certo non gridata in modo brutale, ma più subdola e sommessa, e che si rivela non tanto a parole quanto piuttosto su come teniamo in conto l’autoritratto con cui Gesù ci si propone. Ci sono infatti vari tipi di “rifiuto”!
Il profilo è descritto nei primi due versetti, ed è un annuncio esaltante, liberatorio, e perciò “consolante”, l’esatta risposta a ciò che stiamo attendendo, come si diceva la scorsa domenica. Riascoltiamolo: «Lo Spirito del Signore Dio è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annuncio (= vangelo!) ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà agli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore».
Ci vuol poco a capire che il primo annuncio è fatto ai poveri, qui esemplificati in quelli che hanno il cuore spezzato, gli schiavi e i prigionieri, e che sono loro i primi a capirlo e ad accoglierlo, dai pastori ai magi, più tutti quelli che ha incontrato sulle strade della Palestina, inclusi «i pubblicani e le prostitute» (Mt 21,31) e, per ultimi, il ladro della crocifissione e il centurione pagano.
Ma, se il rifiuto pratico di “credere al vangelo” è indice di meschinità e produce tristezza, la sua accoglienza è fonte di gioia, al di là della difficoltà che possa esserci nel “crederci davvero” e nello sforzo richiesto per viverlo. È quanto appare nel paragrafo centrale della lettura, che è il nucleo generatore del Magnificat che segue come salmo responsoriale.
Alla fine appaiono le immagini, già segnalate come figure chiave dell’immaginario che fa da sfondo al tempo d’Avvento: i germogli e i semi, che fanno del mondo un terreno dove «il Signore farà germogliare la giustizia e la lode davanti a tutte le genti». Quella che tocca a noi è la cura dei germogli e dei semi, con cui collaboriamo all’opera di Dio.
La gioia nella vita del credente
La terza d’Avvento è nota come la domenica Gaudete, e il tema della gioia, già presente in Isaia e nel Magnificat, trova il suo manifesto nella seconda Lettura (1Ts 5,16-24): «Fratelli, siate sempre lieti, pregate ininterrottamente, in ogni cosa rendete grazie: questa infatti è volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi».
Mi capita spesso di ricordare a me stesso e agli amici la sintesi più vertiginosa che abbia trovato di ciò che caratterizza la vita del credente, e dunque è la fonte della sua gioia: «Al passato grazie, al futuro sì», cioè Deo gratias. Amen. La frase è di Dag Hammarskjöld, indimenticato segretario dell’ONU, morto nel 1961 in un cosiddetto “incidente” mentre si trovava in missione di pace nel Katanga, e si trova nel Diario scoperto dopo la sua morte (Tracce di cammino, Bose 2006), pagine che rivelano la sua alta statura di mistico, e appare alla data di una fine d’anno, quando si fanno i bilanci.
La gioia, dunque, è alimentata dalla gratitudine, e da quanto riusciamo a fare per obbedire alla volontà di Dio. Gli altri avvertimenti del brano sono forme pratiche di vivere questi due atteggiamenti fondamentali: non spegnere lo Spirito, vagliare ogni cosa per tenere ciò che è buono, astenersi da ogni specie di male. Il risultato promesso è «la pace», che è quanto di meglio possiamo desiderare.
Giovanni Battista, la “voce”
Ora tocca a Giovanni affermare che lui non è l’atteso (Gv 1,6-8.19-28). È il quarto vangelo, opera di un altro Giovanni, l’ultimo ad essere composto, verso la fine del I secolo, che sottolinea maggiormente la differenza tra il Battista e Gesù. È probabile che la cosa si sia resa necessaria perché sappiamo che, anni dopo la morte e la risurrezione di Gesù, c’erano ancora in giro gruppi che ignoravano che esistesse un battesimo diverso da quello amministrato dal Battista (cf. At 19,1-7).
Un sano senso della storia dovrebbe aiutarci a ricordare che la Chiesa non apparve bella e fatta il giorno dopo l’Ascensione o la Pentecoste, ma ci volle del tempo perché la comunità nata dalla predicazione degli apostoli capisse che era altra cosa rispetto a Israele, e si rendesse conto dell’assoluta originalità di Gesù.
Le domande rivolte al Battista testimoniano le varie idee che la gente si era fatta di lui (lo stesso accadrà con Gesù: Mc 8,27-30 e par.), peraltro le medesime che si era posto lo stesso Battista, quando, in carcere, manda alcuni suoi discepoli a fare le stesse domande a Gesù (Mt 11,2-6). La risposta di Giovanni, dopo una serie dettagliata e martellante di no, in cui nasconde si può dire la sua figura affermando che non è né il Cristo, né Elia né il profeta, arriva a qualificarsi come «voce di uno che grida nel deserto: Rendete dritta la via del Signore».
Sant’Agostino ha scritto un mirabile sermone sulla differenza fondamentale che esiste tra la voce e la parola, e credo non ci sia immagine migliore per distinguere il Battista da Gesù, e per indicare la sua missione di “precursore”, che è poi la stessa della nostra: indirizzare chi lo vede e lo ascolta verso il vero obiettivo della ricerca: Gesù, il Verbo di Dio.
Nell’iconografia diventa cruciale, da questo punto di vista, l’immagine del “dito indice”. La illustra verbalmente san Bernardo nel sermone che gli dedica per la festa della sua Natività, e non si può non ricordare cosa ne fa Matthias Grünewald nel fantastico polittico di Isenheim (1512-16), dove, accanto al Crocifisso, stanno a sinistra i personaggi tradizionali di Maria, Giovanni e Maddalena, mentre sorprendentemente, a destra, appare un improbabile (per la storia, ma non per la profezia) e monumentale Giovanni Battista, che con un vistoso dito indice ben visibile indica il corpo disastrosamente sconciato di Gesù, con la scritta «Lui deve crescere, io invece diminuire» (Gv 3,30), e non invece quello che lo stesso dito aveva indicato come «l’agnello di Dio» (Gv 1,29), immagine che peraltro si trova ai piedi dello stesso Giovanni. Qui, e non solo, l’arte arriva in un batter d’occhio a esprimere quello che molte pagine di teologi non riescono a tradurre con tanta rapidità e immediatezza.
Ma i farisei, dopo la serie di risposte negative alla prima serie di domande, gliene fanno un’altra: vogliono sapere con quale autorità allora egli battezza. E Giovanni, come si è auto-declassato descrivendosi come la voce, fa lo stesso con il suo battesimo, che è solo di acqua, ma annuncia che «in mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, che viene dopo di me: a lui non sono degno di slegare il laccio del sandalo», che è il lavoro dello schiavo, al di sotto del quale colloca se stesso.
Cosa resta da fare? “Conoscere” colui che ci è sempre in qualche modo “sconosciuto”, e mettersi al suo “servizio”, quello già descritto da Isaia.