Dobbiamo al grande saggio ebreo medievale Moshe ben Maimon, conosciuto anche come Rambam (1135-1204), l’enumerazione dei precetti della Torah di Mosè in seicentotredici, divisi in duecentoquarantotto “comandamenti di fare” (mitzwotcasah) e trecentosessantacinque “comandamenti di non fare” (mitzwot lo’-tacaseh). L’autorità di Rambam, universalmente riconosciuta, ha favorito l’accoglienza della sua sistemazione, rendendola tradizionale.
La sapienza dei maestri vede in queste cifre un valore simbolico, per il quale i comandamenti di Dio coprono tutti gli ambiti della vita, in modo integrale ed esaustivo, riguardando tutte le membra del corpo umano (248) e tutti i giorni dell’anno solare (365).
L’acribia mostrata dalla tradizione nel lavoro di individuazione dei precetti e nella loro interpretazione, così da chiarirne la portata, ove possibile oltre ogni dubbio, indica l’importanza attribuita all’obbedienza dovuta alla Torah, formalizzando l’esigenza di un’obbedienza il più possibile esatta: «Quindi prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: “Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto”» (Es 24,7-8). La tradizione sapienziale farà l’elogio di questa obbedienza: «Quelli che temono il Signore non disobbediscono alle sue parole. […] Quelli che lo amano si saziano della legge» (Sir 2,15.16); cf. Sal 1; 119).
Si “ascolta” facendo
La tradizione sapienziale, che giunge fino al Nuovo Testamento, codifica la prassi come l’unica forma di ascolto possibile. Si “ascolta” solo “facendo”: «Siate di quelli che mettono in pratica la Parola, e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi; perché, se uno ascolta la Parola e non la mette in pratica, costui somiglia a un uomo che guarda il proprio volto allo specchio: appena si è guardato, se ne va, e subito dimentica come era. Chi invece fissa lo sguardo sulla legge perfetta, la legge della libertà, e le resta fedele, non come un ascoltatore smemorato ma come uno che la mette in pratica, questi troverà la sua felicità nel praticarla» (Gc 1,22-25): così «si costruisce sopra la roccia» (Mt 7,24-27 // Lc 6,47-49).
La consapevolezza dell’ispirazione profetica delle Scritture si cristallizza nel loro valore canonico e normativo. La lettura liturgica e comunitaria, come quella personale, diviene esperienza, nella fede, dello Spirito di Dio che si rivela e si comunica: «Dice lo Spirito Santo…» (Eb 3,7); «lo Spirito Santo intendeva così mostrare…» (Eb 9,8); «A noi lo testimonia anche lo Spirito Santo…» (Eb 10,15).
Anche il più piccolo dettaglio della Scrittura contiene un mistero che va accolto e custodito, indagato e insegnato: «Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento. In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli» (Mt 5,17-19).
Tuttavia, gli stessi profeti sono i primi interpreti consapevoli di un ordine, di una gerarchia dei precetti, soprattutto in vista del conseguimento della benedizione promessa nel Decalogo: «affinché siano lunghi i tuoi giorni…» (Dt 6,2-3; cf. Dt 5,16; Es 20,12); essi ci lasciano come dei “riassunti”, dei “condensati” delle Dieci Parole: «Chi di noi può abitare presso un fuoco divorante, chi di noi può abitare tra fiamme perenni? Colui che cammina nella giustizia e parla con lealtà, che rifiuta un guadagno frutto di oppressione, scuote le mani per non prendere doni di corruzione, si tura le orecchie per non ascoltare proposte sanguinarie e chiude gli occhi per non essere attratto dal male» (Is 33,14-15); «Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia, amare la bontà, camminare umilmente con il tuo Dio» (Mi 6,8).
Anche il Salterio prolungherà la riflessione: «Signore, chi abiterà nella tua tenda? Chi dimorerà sulla tua santa montagna? Colui che cammina senza colpa, pratica la giustizia e dice la verità che ha nel cuore, non sparge calunnie con la sua lingua, non fa danno al suo prossimo e non lancia insulti al suo vicino. Ai suoi occhi è spregevole il malvagio, ma onora chi teme il Signore. Anche se ha giurato a proprio danno, mantiene la parola; non presta il suo denaro a usura e non accetta doni contro l’innocente» (Sal 15,1-5). «Chi potrà salire il monte del Signore? Chi potrà stare nel suo luogo santo? Chi ha mani innocenti e cuore puro, chi non si rivolge agli idoli, chi non giura con inganno» (24,3-4).
La discussione si trasferisce poi nelle scuole dei maestri; la ricerca del “primo di tutti” i comandamenti non obbedisce solo a uno scrupolo descrittivo o mnemotecnico; riflette la ricerca di un senso più comprensivo, di un possibile accesso al mistero. In questa direzione prosegue la divisione tradizionale delle due tavole (quella dei doveri verso Dio e quella dei doveri verso il prossimo), adottata anche nella catechesi della Chiesa primitiva. Una prima sintesi aveva visto la luce nel medio giudaismo, come testimonia il tardo libro di Tobia, che offre la prima formulazione.
L’insegnamento di Gesù
Anche Gesù offre il suo contributo di maestro riconosciuto, con un’autorità che non dipende dalla tradizione codificata dalle scuole farisaiche (cf. Mt 5,21-48). Con l’insegnamento di Gesù, il precetto antico mostra la sua esigenza interiore e raggiunge il desiderio e il movente segreto (cf. Mt 12,34; 23,25-28): «Io vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 5,20). Ai suoi discepoli Gesù chiede perfino di essere «perfetti come è perfetto il Padre» (Mt 5,28).
In una discussione con i farisei, egli rimprovera loro, in opposizione al pagamento della decima sugli odori e le spezie, di aver dimenticato «la giustizia, la misericordia e la fedeltà», che evidentemente sono da lui intese come la quintessenza della legge di Mosè, “quello che bisogna mettere in pratica” (Mt 23,23).
Prende forma nell’insegnamento di Gesù un ideale religioso superiore alla semplice conformità e osservanza esteriore, che si identifica con la “conoscenza di Dio”, annunciata dai profeti (cf. Is 11,9; 54,13 = Gv 6,45), che egli rivendica di aver ricevuto in dono (Mt 11,25-27 // Lc 10,21-22) e che coincide con il mistero della sua identità di Figlio (cf. Gv 1,18).
Come aveva annunciato Ezechiele, i precetti e i comandi di Dio saranno praticabili a partire dal dono dello Spirito di Dio, che crea nei fedeli “un cuore nuovo”: «Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi e vi farò osservare e mettere in pratica le mie norme» (36,27).
La custodia dei comandamenti, dunque, nella comprensione di Gesù, non costituisce un cammino di sapienza tra i tanti possibili: l’accesso al Regno di Dio è prima di tutto l’effetto di un dono di grazia, di rivelazione da parte di Dio del suo vero volto. La risposta alla domanda sul primo dei comandamenti ha invero una posta teologica: riguarda la scoperta e la manifestazione del mistero stesso di Dio quale traguardo di vita donato agli uomini.
«Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui. In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati. Carissimi, se Dio ci ha amati così, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri. Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi. In questo si conosce che noi rimaniamo in lui ed egli in noi: egli ci ha donato il suo Spirito» (Gv 4,7-13).
Infatti, Gesù cita per esteso l’inizio del versetto del Deuteronomio: «Il primo [comandamento] è: “Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo!”». In questa obbedienza di fede è possibile accedere all’amore che è comandato («cosicché amerai»).
In più, la forma del futuro (anche nella lingua ebraica) dà al comandamento la forma di una promessa, di una dichiarazione di intenti, che svela al credente l’intenzione divina e gli dischiude un cammino progressivo di trasformazione: la vita dell’amore è in realtà la vita di Dio in noi, con la promessa di una pienezza futura.
Saulo, l’antico discepolo di Rabbi Gamaliele, divenuto discepolo del maestro Gesù e suo apostolo, descrive così questa scoperta: «Fino ad oggi, quando si legge Mosè, un velo è steso sul loro cuore; ma quando vi sarà la conversione al Signore, il velo sarà tolto. Il Signore è lo Spirito e, dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà. E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore» (2Cor 3,15-18).
Il comandamento più importante svela all’uomo la chiamata divina nascosta nel profondo della sua realtà relazionale, creato «a immagine e somiglianza» di Dio (Gen 1,26) nella sua costituzione di “essere di fronte” a un altro (cf. Gen 2,18.20.23), in dialogo con Dio e con i suoi simili, soggetto di un’azione continua del Creatore (cf. Gv 5,17) che agisce in lui con il suo Spirito per conformarlo al modello originario: tutti, infatti, «siamo opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo» (Ef 2,10), per «essere con potenza, secondo la ricchezza della sua gloria, rafforzati nell’uomo interiore mediante il suo Spirito», affinché «il Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori, e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e di conoscere l’amore di Cristo che supera ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio» (Ef 3,16-19), fino ad «arrivare tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo» (Ef 4,13).
Come suo solito, (cf. Mc 12,28.32) Gesù risponde “bene” (kalôs) e lo scriba che lo ascolta argomenta in modo “saggio”, “come uno che possiede intelligenza” (nounechôs): «Amarlo con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso val più di tutti gli olocausti e i sacrifici» (Mc 12,33).
La Regola d’oro
La sapienza delle culture e delle religioni aveva già individuato la Regola d’oro dell’etica della reciprocità, come testimoniano i detti attribuiti a Talete e ai sette saggi: «Evita di fare quello che rimprovereresti agli altri di fare»; o a Confucio: «Quel che non desideri per te, non farlo agli altri». Anche la sapienza biblica, con il suo carattere cosmopolita, l’aveva adottata: «Giudica le esigenze del prossimo dalle tue» (Sir 31,15); «Non fare a nessuno ciò che non piace a te» (Tb 4,15). Attraverso la tradizione dei rabbini, essa si cristallizza nel famoso detto di Rabbi Hillel, al tempo di Erode il Grande: «Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te: questa è tutta la Torah. Il resto è commento. Va’ e studia!» (bShabbath 31a).
Tuttavia, nella sua forma negativa, essa rimane facile prigioniera della logica retributiva, e della visione dell’altro come limite alla propria libertà. Il genio di Gesù, proprio a motivo della sua misteriosa conoscenza del Padre («Come il Padre ha amato me, anch’io ho amato voi»: Gv 15,9), che struttura la sua identità di Figlio, e della forma comunionale del suo progetto messianico, volge la Regola d’oro al positivo, consegnando alla libertà di ogni cuore il compito di dare all’amore un volto personale e proprio: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge e i Profeti» (Mt 7,12).
Anche la totalità del comandamento non ha di mira la misura impossibile e ansiogena dell’ossessione e dello scrupolo insoddisfatto, ma svela per Gesù la dimensione unificante e pacificatrice della comunione con lui, che si offre come maestro e modello dell’amore “più grande”, quello che arriva al dono della vita (cf. Gv 15,13): «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,34).
L’amore allora porta a compimento tutta la legge (Rm 13,8-10; Gal 5,14; cf. Col 3,14), profezia della vita di Dio donata agli uomini.