IV Per annum: L’“autorità” di Gesù

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Con le tre letture che presenta la liturgia odierna non è facile costruire un percorso. Lette velocemente, la prima e la terza parlano del profetismo, mentre la seconda esalta come migliore la scelta della verginità rispetto al matrimonio. A tutta prima, niente o quasi che abbia a che fare con la vita ordinaria, quella vissuta dalla gran parte di coloro che frequentano l’eucaristia.

Che fare? Per un senso di ordine si può partire dal vangelo che, nel piano di Marco, registra le prime mosse di una giornata ideale di Gesù caratterizzata dal suo insegnamento e da un miracolo, parole e azioni che portano la gente a un senso di stupore di fronte alla sua persona che finisce in una domanda che risentiremo spesso nel corso del racconto evangelico: «Che è mai questo?».

Partiamo dall’insegnamento, che è la prima e più importante attività di Gesù.

Marco non ci dice nulla qui su “cosa” egli insegni: per avere una prima breve raccolta di parabole dovremo attendere il capitolo 4, perché prima l’evangelista desidera mostrare che lo stupore è prodotto soprattutto dai miracoli.

Profeta, cioè portavoce di Dio

L’insegnamento rimanda piuttosto alla figura del “profeta”, ed è per questo che la liturgia presenta in prima battuta un passo che riguarda tale figura. Cominciamo col dire che, contrariamente a quanto spesso si pensa, il profeta non è anzitutto colui che “prevede” avvenimenti futuri, ma colui che “parla in nome di Dio”, e ciò che dice ha come oggetto temi che hanno a che fare con il comportamento morale. Lo fa con due tipi di discorso: la denuncia di ciò che è male, e la proposta di ciò che è bene. Il “futuro”, semmai, è un derivato: la condanna e il castigo per i comportamenti cattivi, la beatitudine e il premio per quelli buoni. Come scrive Geremia, il compito del profeta, la sua vocazione, è “sradicare e demolire, distruggere e abbattere, edificare e piantare” (Ger 1,10).

Sorge subito un problema: come accertarsi se quanto dice viene veramente da Dio? Profeti ci sono sempre stati e sempre ci saranno, persone che hanno la vista più lunga del normale, e che dicono parole e prendono iniziative che, a posteriori, vengono riconosciute come anticipatrici di mutamenti futuri.

Ci sono però profeti di speranza e profeti di sventura, profeti credibili e profeti incredibili, profeti veri e falsi profeti. La Scrittura, vangelo incluso, è piena di messe in guardia. Alcuni detti sono diventati proverbiali, dal «Nessun profeta è bene accetto nella sua patria» (Lc 4,24) al «Guardatevi dai falsi profeti, che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci!» (Mt 7,15).

Il brano letto oggi (Dt 18,15-20) è mirato soprattutto, attraverso la voce di Mosé, a rassicurare il popolo che sarà sempre assistito da qualche profeta, presentato come il necessario “mediatore” in grado di trasmettere il pensiero e la volontà di Dio con il quale il rapporto diretto è temibile.

La storia di Israele conosce tre generi di mediatori: il re, il sacerdote e il profeta. I primi due sono incaricati di Dio di far rispettare la Legge e, nel caso, di spiegarla, mentre quella del profeta è la figura più aperta in quanto destinata a interpretare ciò che avviene e a suggerire la maniera più congrua di rispondervi. Su queste tre figure si erano sviluppati tre tipi di messianismo: quello regale, o politico, quello sacerdotale legato al culto, e quello profetico, ognuno incarnato da grandi figure ideali.

Tutti e tre questi tipi erano presenti anche nelle attese del Messia ancora al tempo di Gesù. Sappiamo che egli rifiutò decisamente la figura politica, e pure quella sacerdotale, e per questo fu eliminato sia dal potere politico che da quello sacerdotale. Fu riconosciuto come “profeta” dalla gente, anche se, alla fine, davanti a come erano andate a finire le cose, fu sconfessato.

I discepoli dovettero cercare nella Scrittura qualche testo che rimandasse a una figura di “Messia sconfitto”, e la trovarono nei carmi del “Servo di YHWH” di Isaia e nella figura di Geremia, perseguitato per aver parlato contro il tempio (vedi il cap. 7).

Il brano letto oggi si preoccupa di dire che «nessuno presuma di dire qualcosa in nome di Dio», perché questo costituisce una colpa gravissima.

Una verginità feconda

Il passo della Lettera di san Paolo ai Corinzi (1Cor 7,32-35) non è fuori dal tema della profezia. La scelta verginale, anche se ai nostri tempi è un tema non facile da capire, è da sempre presentata come una vocazione che anticipa i tempi, che si presenta come una realizzazione già in questo mondo di ciò che vivremo nel mondo futuro, quando «alla risurrezione non si prende né moglie né marito, ma si è come angeli nel cielo» (Mt 22,30).

Non credo che il paradiso sia la morte delle relazioni, al contrario! Penso invece che tutte le relazioni saranno vissute in totale gratuità, libere del rischioso istinto di possesso, e che il cielo sia la casa dell’amicizia, come dice sant’Agostino: «O felice Alleluia di lassù, dove nessuno sarà nemico, dove nessun amico perirà» (Sermone 256,3), tema ripreso successivamente da san Bernardo.

Penso che più che di amore sarebbe meglio parlare di “amicizia”, come fanno i due autori citati, un rapporto basato essenzialmente sulla gratuità, senza nessun altro interesse che non sia la gioia dell’affetto ricevuto e ricambiato, perché, come si usa dire, l’amicizia è premio a se stessa.

La vocazione al celibato, in linea con quanto scrive Paolo, è stata del resto sempre presentata come una dedizione “totale” a Dio, e di riflesso come una disponibilità assoluta al servizio dei fratelli.

Non è il caso qui di entrare nella discussione di un problema indubbiamente spinoso, che ha a che fare con il naturale bisogno di affettività, e che l’apostolo semplifica forse un po’ troppo. Semmai è il caso di verificare la verità di quanto egli scrive nelle grandi figure di santi e di sante che hanno mostrato la possibilità di vivere la loro donazione a livelli di assoluto valore, e soprattutto nella serenità e nella gioia che traspare sui volti di esistenze quotidiane e normali ben vissute anche al di fuori del matrimonio in una gratuità che è anche gratificante.

È arrivato il più forte

Il vangelo (Mc 1,21-28) è il primo di una serie di brani che l’evangelista raccoglie nell’arco di una giornata per illustrare come Gesù spendeva il suo tempo annunciando la buona novella del vangelo. Anzitutto Gesù “insegna” dopo essere entrato di sabato nella sinagoga di Cafarnao, la città in cui aveva deciso di stabilirsi per un certo tempo.

Diversamente da Matteo e Luca, Marco è molto più parsimonioso nell’offrire campioni dell’insegnamento di Gesù. Lo fa in solo due casi: con il breve discorso in parabole (4,1-34) di cui si è detto, e con il discorso apocalittico (13,1-37).

Possiamo pensare che egli qui parafrasi i quattro punti del programma già annunciato (Mc 1,14) prima di aggregare i quattro pescatori alla sua azione. A Marco interessa piuttosto sottolineare che «erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come i loro scribi».

La contrapposizione è significativa. Gli scribi erano una sorta di impiegati, utilizzati in compiti amministrativi che andavano dal comporre documenti a gestire alte cariche di governo. Erano inoltre chiamati a interpretare le Scritture, e, pur se spesso accoppiati ai farisei, si rivelarono i più duri oppositori di Gesù, quelli che, insieme ai sacerdoti, saranno i principali responsabili della sua soppressione.

Mi pare che la gente di Cafarnao abbia notato soprattutto che il modo di insegnare di Gesù era lontano, e di molto, dall’esegesi “burocratica” e fredda degli scribi.

Qui accade un episodio drammatico. Le parole di Gesù scatenano la reazione furiosa di un uomo «posseduto da uno spirito impuro», cioè un modo di designare ciò che è contrario alla “santità”, ciò che è deficiente, imperfetto, disordinato. Costui arriva a una “confessione” che sembra incredibile: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!». È noto che anche i demoni riconoscono Dio, ma questa non è fede.

La sola apparizione di Gesù è segno che il regno del diavolo è condannato: è arrivato il “più forte”, come aveva profetizzato il Battista. Ed è qui che l’autorità di Gesù si manifesta con forza: «Taci, esci da costui!». Solo una parola, nessuna esibizione di strani e scenografici riti di esorcismo. Si rinnova lo stupore davanti a questa autorità che «comanda persino agli spiriti impuri».

Come si è già osservato, il ritmo narrativo adottato da Marco è frenetico. Nei primi ventinove versetti del capitolo introduttivo (1,10.12.18.20.21.23.29.30), che vanno dal Battesimo alla guarigione della suocera di Pietro, il termine “subito” compare otto volte, e la particella correlativa “e” ben venticinque volte! C’è come un senso di urgenza e di rapido progresso in questa prima apparizione di Gesù, ed è certamente questa la prima ragione dello stupore, evocato due volte, che Marco intende trasmettere ai suoi lettori.

Sarà bene ricordare questa reazione, quando l’abitudine ci fa sorvolare su quanto è scritto nei vangeli come cosa già nota. È un brutto segno, e c’è solo un rimedio. Come per capire la musica seria si tratta di ascoltare, ascoltare, ascoltare, e la grande arte chiede di guardare, guardare, guardare, per la poesia e la letteratura di valore vale la stessa regola: leggere, leggere, leggere!

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