Avvicinandosi la conclusione dell’attesa, si precisano sempre più i dettagli della sua apparizione: il da dove viene, il dove viene, a fare che, il quando e il modo della sua venuta, per riprendere la lista indicata da san Bernardo. Al centro della liturgia si staglia l’esperienza che fa Maria, la madre, nell’Annunciazione che la chiama a un ruolo di co-protagonista nel realizzare l’opera di Dio per la salvezza del mondo.
In questa storia occupa un posto importante il re Davide che, come rappresentante e incarnazione di tutto il popolo d’Israele, aveva ricevuto una grande promessa, che veniamo a conoscere nella prima Lettura (2Sam 7,1-5.8b-12.14a-16).
La casa e il regno
Al centro del discorso che il profeta Natan rivolge al re sta l’immagine della casa, che poi si muta in quella ben più grande di regno. Sono due immagini cruciali, e giova sostare un momento per coglierne appieno il significato, perché ci riguarda da vicino. La casa è segno e luogo di ospitalità, il regno parla, invece, di governo di un popolo portatore di una missione. La casa risponde al “dove” viene l’Atteso, e il regno esplicita lo “scopo” per cui viene: sono la terza e la quarta caratteristica della sua apparizione; il chi e il da dove sono stati già visti, e, data la loro importanza, li sentiremo ripetere, il quando e il modo saranno oggetto del brano evangelico che ascolteremo oggi. Così il cerchio si completa.
Cominciamo col dire che il peso e il significato che riveste il dove appare in tutta la sua chiarezza se lo si confronta con il da dove. Il contrasto appare già, in embrione, nella percezione che ha Davide del contrasto tra la sua casa, che nonostante fosse una reggia, è semplicemente «di cedro», mentre l’arca di Dio sta «sotto i teli di una tenda»!
La preoccupazione di Davide è di costruire per l’arca una casa degna del suo significato, e ancora non sa che, quando il Figlio verrà a stare in mezzo a noi, sceglierà proprio una “tenda”! Questo è infatti il senso letterale del verbo greco eskénosen, tradotto purtroppo con “abitare” invece che con «pose la tenda» (Gv 1,14).
Natan riporta Davide alla realtà o – come si direbbe – a tenere i piedi per terra: tutto quello che il re ha fatto ed è riuscito a realizzare è in realtà opera della bontà di Dio nei suoi confronti. E dunque, «il Signore ti annuncia che sarà lui a fare a te una casa». E questo è il primo punto.
Il secondo viene subito dopo: «Susciterò un tuo discendente dopo di te, e renderò stabile il suo regno… La tua casa e il tuo regno saranno saldi per sempre davanti a me, il tuo trono sarà reso stabile per sempre». Sono le parole che Maria si sentirà dire dall’angelo nell’Annunciazione, dove dovrà imparare, lei per prima, cosa significa “ospitare” Dio, e di che tipo sarà il suo “regno”.
Quello che accadrà stravolgerà ogni più rosea previsione, perché il Figlio di Dio troverà casa nell’angustia del suo utero, verrà al mondo in una stalla, e il trono del suo regno sarà una croce. Avremo tempo per sostare su questi paradossi per tutto il tempo di Natale e quello della Pasqua, dove inni e orazioni ripeteranno di continuo lo stupore e la meraviglia davanti al come e al dove va a finire il chi e il da dove viene a noi Colui che ci si offre come il Salvatore. Ora non possiamo fare altro che dire: «Canterò per sempre l’amore del Signore» (Salmo).
Il silenzio e il mistero
La seconda Lettura espande questo canto nella grande dossologia che conclude la Lettera ai Romani (Rm 16,25-27), un brano mozzafiato, che scorre senza pause, e che andrebbe letto con molta calma. Quello che ci apprestiamo a celebrare nella notte di Natale, è la «rivelazione del mistero, avvolto nel silenzio dei secoli eterni». Lo sentiremo ripetere nell’antifona d’ingresso della 2a domenica dopo Natale, che ci ricorderà che il Verbo onnipotente scese dal cielo «nel quieto silenzio che avvolgeva ogni cosa» (Sap 18,14-15).
La festa che usiamo fare in occasione del Natale, con tutto ciò che serve a dire e a esprimere la gioia per questo dono, è logica e legittima, ma non si dimentichi che conta ancora di più il silenzio che avvolge il mistero, e che non deve assolutamente mancare. Il silenzio è necessario per tornare al centro di noi stessi, al cuore, che è la vera casa dove il Figlio di Dio fatto uomo desidera abitare, la fragile tenda che lui ha scelto come dimora, non per sedersi e dormire, ma per camminare con noi, come è tipico di chi vive nelle tende!
Annunciazione e vocazione
Il Vangelo (Lc 1,26-38) completa l’opera portandoci al quando e al modo dell’Incarnazione del Figlio di Dio. Fissiamo anzitutto lo sguardo sull’inizio, che conosciamo bene come parte integrante dell’Ave Maria. Si noti la densità del saluto: «Rallegrati, piena di grazia, il Signore è con te». Tre cose: quella centrale è la pienezza di grazia; la seconda è la compagnia del Signore: a Dio non basta chiamare e scegliere, ma sta con la sua creatura; la terza è l’effetto di queste due premesse, la gioia di Dio che si riversa in Maria.
Ma c’è un’altra cosa, meno appariscente, forse, ma estremamente importante. Luca infoltisce questo avvenimento con molti nomi, cinque in tre righe: Gabriele, Davide, Giuseppe, Maria, Nazaret. L’evangelista lo fa quando intende segnalare l’ingresso nella storia di qualche evento che ne marca il cammino, una svolta decisiva: lo stesso accade nell’introdurre la nascita di Gesù (Lc 2,1-4), e l’inizio della predicazione del Battista (Lc 3,1-3). Persone e luoghi, mirati a disegnare lo spazio della storia che si fa nel tempo!
I sogni non restano nei libri, ma diventano realtà. Il Dio biblico e cristiano non si limita a creare il mondo e a sostenerlo da lontano, ma vi entra e vi gioca un ruolo decisivo per restaurarlo. Non da solo, certo. Le nostre mani, per rifare di continuo la bellezza del creato, sono il prolungamento delle sue.
Questa non è dunque solo una annunciazione, ma è insieme una vocazione. Maria ha bisogno anzitutto che le venga spiegato (o forse l’ha capito pian piano a cose avvenute) perché debba “rallegrarsi”, cosa significhi che “il Signore è con lei”, e soprattutto cosa implichi il fatto che venga chiamata «piena di grazia». Tutte e tre le cose evidenziano che si tratta di una chiamata di Dio, di una vocazione che darà una svolta decisiva alla sua vita. Non c’è neanche bisogno che sia lei a fare domande, perché l’angelo vede il suo turbamento e risponde agli interrogativi che Maria si poneva. Gabriele anzitutto la rassicura, perché trovare grazia presso Dio significa essere amati da lui, e questo implica che quello che succederà è anzitutto e soprattutto un segno del suo amore, per Maria anzitutto, ma attraverso lei per l’umanità intera.
Qual è l’annuncio? Maria è chiamata a dare alla luce un figlio, che sarà non solo suo, ma anche Figlio dell’Altissimo, si chiamerà Gesù, cioè «colui che salva», e infine, come «figlio di Davide», riceverà il trono di suo padre per un regno che non avrà fine. Da essere stravolti!
E Maria finalmente apre le labbra per porre una domanda cruciale: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Non si lascia sbalordire dalla cascata di titoli gloriosi che magnificano la grandezza futura di questo suo figlio, ma parte da ciò che è capitale: il problema di come “concepire” questo figlio vista la sua condizione di «promessa sposa» con Giuseppe, che non ha ancora “conosciuto” nel senso che la parola ha normalmente nella Bibbia.
Maria è molto parca di parole, e nei successivi racconti della Natività è ritratta sempre in silenzio: vede quello che accade attorno al bambino, ma soltanto osserva, riservandosi di «meditare nel suo cuore» (Lc 1,19) cosa significano le varie reazioni a quella nascita, cosa significa l’annuncio strano di Simeone che le parla di una «spada» che le trafiggerà l’anima (Lc 2,35).
L’unica volta che apre la bocca è per dire a Gesù perduto e ritrovato nel tempio: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre ed io, angosciati, ti cercavamo». Ma anche allora, l’evangelista aggiunge che «essi non compresero ciò che aveva detto loro» (Lc 2,48-50).
Ora, la risposta dell’angelo è fatta di due spiegazioni. La prima, per il vero, spiega poco a chi avrebbe bisogno di prove tangibili e concrete, e chiede anch’essa un atto di fede, perché sarà lo Spirito a prender parte alla nascita, scendendo su di lei e «coprendola con la sua ombra».
La seconda risposta è più realistica, e riguarda un fatto: la fecondità della cugina Elisabetta, che «ha concepito un figlio nella sua vecchiaia», il che è la prova provata che «nulla è impossibile a Dio».
Davanti a queste parole Maria reagisce con la conclusione più bella: «Ecco la serva del Signore; avvenga per me secondo la tua parola». Tutto il problema si dissolve in una dichiarazione di totale disponibilità a quello che il Signore ha deciso di fare, perché colei che è appena stata proclamata madre del Figlio dell’Altissimo, cui è destinato il trono di Davide, si dichiara semplicemente serva del Signore. Davanti a tanta sobrietà verbale in Maria, mi ha gradevolmente sorpreso la versione che dell’Annunciazione ha dato il poeta scozzese Edwin Muir (1887-1959), che ha deciso di concentrare il senso della scena in un «incontro silenzioso di sguardi».
Cito solo qualche verso, sufficiente, spero, per entrare in quella che si può chiamare un’atmosfera, peraltro molto eloquente. «L’angelo e la ragazza s’incontrano. / La terra era l’unico luogo d’incontro. / Perché quelli che hanno corpo non avevano ancora / viaggiato oltre la spiaggia dello spazio. Gli spiriti eterni vanno in libertà. // Guarda, sono l’una di fronte all’altro, guarda, / i volti si riflettono l’uno nell’altro / finché in lei il cielo e in lui la terra / splendono di un bagliore costante. […] Fuori dalla finestra passi che si perdono / nel giorno ordinario / e con il sole lungo il muro / seguono una strada che non ritorna […] Attraverso il meriggio senza fine / questi due non parlano né si muovono, / ma fissano lo sguardo nel dilagante incantesimo / come se il loro contemplare non volesse spezzarsi mai».
Contempliamo!