Nella IV domenica di Quaresima dell’anno A si legge il lungo brano che, a partire dalla guarigione del cieco nato, ci coinvolge nelle discussioni attorno all’identità di Gesù (Gv 9,1-41). Ne riportiamo qui solo l’inizio, versetti 1-7.
In quel tempo, Gesù passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio. Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo».
Detto questo, sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe», che significa “Inviato”. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva.
Della luce del sole abbiamo bisogno per vedere i fatti, le persone, gli eventi, ma è innegabile che non è la sola luce di cui abbiamo bisogno. C’è un’altra luce, tutta interiore, che ci serve per comprendere, perché quegli eventi non rimangano muti e oscuri, ma siano portatori di significato e motivino le scelte della vita.
Verso la luce
In questo lungo brano del capitolo 9 di Giovanni il fatto in sé è molto semplice e descritto in pochi abili tratti: Gesù sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse di andare a lavarsi nella piscina; quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva.
La rapidità e la semplicità di questa catena di azioni contrasta però con la lunghezza e la complessità dei vari dialoghi che seguono, tra dubbi, ironia, ostinazione, slanci di entusiasmo e il coinvolgimento progressivo di un numero sempre maggiore di persone che tentano di comprendere quello che è successo.
Il cieco è invitato a spiegarlo più volte, vengono chiamati a testimoniare i genitori, si aggiunge il parere di coloro che lo avevano visto mendicare, mentre giudei e farisei cercano di interpretare quel fatto straordinario attingendo alle loro conoscenze religiose.
I fatti non sono così univoci, così chiari come potrebbe sembrare ed è spesso un’illusione quella di pensare che essi mostrino un’unica verità e indichino un’unica strada. Anche sui fatti viene la notte, quella del timore di sbagliare o del dubbio di aver capito male, dell’ansia per quello che potrebbe accadere dopo e della fatica nel sostenere e attraversare una realtà complessa.
La guarigione del cieco dovrebbe portare gioia e stupore per il miracolo, per una luce ritrovata; porta, invece, confusione e disorientamento, dà inizio a un processo interpretativo che richiede impegno, costanza, discussione, pazienza, confronto, memoria e responsabilità.
Il cieco stesso ha bisogno di tempo e di un nuovo incontro con Gesù per leggere e riconoscere quello che gli è successo, ha bisogno di qualcuno che lo aiuti a capire che cosa comporta per lui ora il dono che ha ricevuto.
Aprire il cuore alla Luce
Sì, abbiamo bisogno di luce, ma di quella che alimenta la pazienza di interrogarci, la capacità di leggere gli eventi, la consapevolezza che consente di scegliere, di iniziare nuove strade e interromperne altre.
Abbiamo bisogno della luce della fede, che è un modo di vedere le cose e Dio che opera in esse; è un dono che porta a riconoscerlo in quello che accade e a sentire che, in ogni avvenimento, Gesù è “colui che parla con te”.
Cieco è allora chi pensa che la realtà sia semplice e altrettanto lo siano le soluzioni ai problemi che la vita ci pone, chi pensa che all’evidenza dei fatti corrisponda la semplicità nel comprenderli, l’ovvietà nel giudicarli, l’immediatezza nello scegliere.
Chiediamo al Signore di aprire anche i nostri occhi per accorgerci della realtà che ci circonda e per provare a comprenderla, alla sua luce.
Chiediamogli quella forza d’interpretazione della realtà che è la fede, e quella luce che è lui stesso, venuto nel mondo per indicarci la direzione del cammino e darci il coraggio di sceglierlo e intraprenderlo.