Gli ebrei chiamano Legge i primi cinque libri della Bibbia. Un modo sorprendente di denominare una collezione che contiene, sì, norme, precetti e comandi, ma non costituisce un codice di diritto come lo intendiamo noi oggi. È un appassionante racconto, una storia d’amore d’Israele con il suo Dio: inizia dalla creazione del mondo e continua con la chiamata di Abramo, le vicende dei patriarchi, la schiavitù in Egitto e l’esodo. Una Legge davvero originale.
Per la verità, il termine Legge non traduce esattamente l’ebraico Toràh che deriva dalla radice iaràh e indica l’atto di scagliare una freccia, di mostrare la direzione. Anche noi sulle strade ci orientiamo seguendo “le frecce” della segnaletica.
La Toràh traccia il cammino che conduce alla vita, non dettando una normativa fredda, rigida, impersonale, ma raccontando ciò che è accaduto a un popolo, a Israele, la sposa a volte fedele, il più delle volte infedele al suo Signore. Nelle sue gioie e disavventure, nei suoi successi e fallimenti, nelle sue feste e nei suoi lutti, ogni uomo vede riflessa la sua storia: i pericoli da evitare e le scelte sagge da compiere.
La Toràh rivelata a Mosè sul Sinai non era però la parola definitiva di Dio. Sul monte delle beatitudini, Gesù ne ha riconosciuto la validità, ma, considerandola solo una tappa, ha indicato una nuova meta, un orizzonte più lontano e sconfinato: la perfezione del Padre che sta nei cieli.
Chi non pratica la nuova giustizia, immensamente superiore a quella degli scribi e dei farisei, si ferma a metà strada e non entra nel regno di Dio.
Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Indicami Signore la via della vita, la seguirò sino alla fine”.
Prima Lettura (Sir 15,15-20)
15 Se vuoi, osserverai i comandamenti;
l’essere fedele dipenderà dal tuo buonvolere.
16 Egli ti ha posto davanti il fuoco e l’acqua;
là dove vuoi stenderai la tua mano.
17 Davanti agli uomini stanno la vita e la morte;
a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà.
18 Grande infatti è la sapienza del Signore,
egli è onnipotente e vede tutto.
19 I suoi occhi su coloro che lo temono,
egli conosce ogni azione degli uomini.
20 Egli non ha comandato a nessuno di essere empio
e non ha dato a nessuno il permesso di peccare.
“Se vedi una persona saggia, va presto da lei; il tuo piede consumi i gradini della sua porta” (Sir 6,36). Questa frase avrebbe potuto essere scritta all’entrata della scuola che, fra la fine del III e l’inizio del II secolo a.C., Ben Sira (il Siracide) aveva aperto a Gerusalemme. Ai giovani discepoli che seguivano le sue lezioni e che, d’altra parte, si sentivano anche attratti dalle proposte seducenti del mondo ellenistico ed erano affascinati dalle lusinghe della vita pagana, egli indicava il cammino della vita, insegnava la Toràh, la sapienza di Dio.
Era anche un poeta, Ben Sira. La Toràh era per lui “come un cedro del Libano, come un cipresso sui monti dell’Ermon, come una palma in Engaddi, deliziosa come le rose di Gerico”; ne assaporava il profumo, “come di cinnamomo e balsamo, come mirra scelta”; vedeva la sapienza uscire dai suoi rotoli e traboccare “come il Giordano nei giorni della mietitura” (Sir 24,13-24).
Incantato dalla bellezza della legge di Dio, trasmetteva la sua passione agli alunni. Insegnava loro: “Davanti ad ogni uomo stanno la vita e la morte, il fuoco e l’acqua”; ognuno deve scegliere, è libero e responsabile delle proprie azioni, può costruire o rovinare la propria esistenza. Se prende decisioni insensate la colpa non è di Dio che ha fatto bene ogni cosa, ma soltanto sua.
Non v’è alcuna costrizione interiore a peccare. L’uomo può dominare i propri istinti (Sir 21,11), può controllare i propri desideri e le proprie passioni (Sir 20,30). Se compie il male, se devia dai sentieri tracciati dalla Toràh attira su di sé sventure e disgrazie (Sir 40,10), se invece segue i cammini indicati dal Signore avrà vita e benedizione.
Così si esprimeva Ben Sira, il vecchio saggio, desideroso di orientare i suoi figli e i suoi discepoli sulla via tracciata dalla Legge di Dio.
Seconda Lettura (1 Cor 2,6-10)
6 Tra i perfetti parliamo, sì, di sapienza, ma di una sapienza che non è di questo mondo, né dei dominatori di questo mondo che vengono ridotti al nulla; 7 parliamo di una sapienza divina, misteriosa, che è rimasta nascosta, e che Dio ha preordinato prima dei secoli per la nostra gloria. 8 Nessuno dei dominatori di questo mondo ha potuto conoscerla; se l’avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria. 9 Sta scritto infatti: “Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano.
10 Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito; lo Spirito infatti scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio.
A Corinto c’era chi si inorgogliva, chi, per mettersi in mostra, faceva sfoggio di sapienza e predicava il vangelo ricorrendo a sottili ragionamenti, come facevano i filosofi.
Paolo dà un giudizio severo di queste persone: chi si comporta in questo modo – afferma – non si è ancora reso conto che, dal punto di vista umano, la proposta della fede è una follia: è l’invito a divenire discepoli di un uomo giustiziato. Solo dei “pazzi” possono rischiare la vita accettando la sua proposta e solo chi è ancora più “pazzo” può decidere di divenirne messaggero e paladino. Nulla di irrazionale nella fede cristiana – sia chiaro! – nulla che ripugni alla ragione, ma indubbiamente la proposta di donare la vita cozza con il buon senso umano.
Esiste però – continua Paolo – una “sapienza” cristiana, non “di questo mondo”, naturalmente, ma del mondo di Dio, una sapienza che può essere capita solo dai “perfetti”, cioè, dai “cristiani adulti” (v. 6).
L’Apostolo che ha appena affermato di essersi presentato ai corinzi “in debolezza e con molto timore e trepidazione”, privo della sapienza che sovrabbonda nei discorsi persuasivi dei filosofi (1 Cor 2,3-4), ora colloca anche se stesso fra questi sapienti che hanno ricevuto, per mezzo dello Spirito, una speciale rivelazione dei misteri di Dio (v. 10).
Di che si tratta?
Di quella che è chiamata “sapienza divina, misteriosa, che è rimasta nascosta, che nessuno dei dominatori di questo mondo ha potuto conoscere” (v. 7-8), di quella che, in altre lettere, è detta semplicemente “mistero”, “mistero taciuto per secoli eterni, ma rivelato ora” (Rm 16,25-26), “mistero nascosto da secoli” (Col 1,26). È il disegno divino della salvezza universale. Questo progetto era noto da tutta l’eternità soltanto a Dio e nessuno poteva immaginare quale meraviglia egli stesse preparando.
Ora che si sta realizzando, il “mistero” può essere contemplato nel suo progressivo svelarsi e Pietro afferma che, in cielo, gli stessi angeli mantengono gli occhi fissi sul mondo, ansiosi di scorgere e di godere di quanto Dio sta compiendo (1 Pt 1,12). L’autore della Lettera agli efesini ripropone, in altre parole, la stessa, commovente idea. Gli angeli – dice – scoprono il mistero di Dio osservando ciò che avviene nella chiesa: “Ora si sta manifestando nel cielo, per mezzo della chiesa, ai Principati e alle Potestà la multiforme sapienza di Dio” (Ef 3,10).
Ciò che Dio sta attuando oltrepassa i desideri e le speranze degli uomini. Adattando un versetto del libro di Isaia (Is 64,3), Paolo descrive così la sorpresa che attende coloro che hanno la fortuna di poter scrutare questo mistero: “Occhio non vide, orecchio non udì, né mai passò per la mente di alcun uomo, ciò che Dio ha preparato per coloro che lo amano” (v. 9).
Vangelo (Mt 5, 17-37)
17 Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento. 18 In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure un iota o un segno dalla legge, senza che tutto sia compiuto. 19 Chi dunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà considerato grande nel regno dei cieli.
20 Poiché io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli.
21 Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. 22 Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna.
23 Se dunque presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, 24 lascia lì il tuo dono davanti all’altare e và prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono.
25 Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario mentre sei per via con lui, perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia e tu venga gettato in prigione. 26 In verità ti dico: non uscirai di là finché tu non abbia pagato fino all’ultimo spicciolo!
27 Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; 28 ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore.
29 Se il tuo occhio destro ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te: conviene che perisca uno dei tuoi membri, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geenna. 30 E se la tua mano destra ti è occasione di scandalo, tagliala e gettala via da te: conviene che perisca uno dei tuoi membri, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geenna.
31 Fu pure detto: Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto di ripudio; 32 ma io vi dico: chiunque ripudia sua moglie, eccetto il caso di concubinato, la espone all’adulterio e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio.
33 Avete anche inteso che fu detto agli antichi: Non spergiurare, ma adempi con il Signore i tuoi giuramenti; 34 ma io vi dico: non giurate affatto: né per il cielo, perché è il trono di Dio; 35 né per la terra, perché è lo sgabello per i suoi piedi; né per Gerusalemme, perché è la città del gran re. 36 Non giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello. 37 Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno.
“Beati noi, o Israele, perché ciò che piace a Dio ci è stato rivelato” (Bar 4,4). Così Baruc esprimeva l’orgoglio del suo popolo e la sua riconoscenza al Signore che aveva indicato a Israele “la via della sapienza” (Bar 3,27), nella Toràh, nel “libro dei decreti di Dio” (Bar 4,1).
Essendo opera di Dio, la Toràh non può essere né smentita né contraddetta. “La Scrittura non può essere annullata” – ha dichiarato Gesù (Gv 10,35) – perché Dio non può avere ripensamenti o rinnegare quanto ha detto in passato o apportarvi correzioni. Il cammino da lui tracciato dall’AT ha validità perenne.
Nella prima frase del vangelo di oggi Gesù ribadisce questa verità: “Non pensate che io sia venuto per demolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per demolire, ma per portare a compimento” (v. 17).
Se sente il bisogno di chiarire la sua posizione, significa che qualcuno ha avuto l’impressione che egli, con il suo comportamento e con le sue parole, stesse demolendo le convinzioni, le attese e le speranze di Israele, basate sui testi sacri.
Gesù era rispettoso delle leggi e delle istituzioni del suo popolo, ma le interpretava in modo originale; il suo punto di riferimento non era la lettera del precetto, ma il bene dell’uomo. Per amore all’uomo non esitava a violare anche il sabato e questa sua libertà suscitava stupore, perplessità e anche irritazione nelle autorità religiose. Tuttavia, più che la sua mancata osservanza delle prescrizioni dei rabbini, ciò che creava sconcerto era il suo messaggio, la nuova Toràh che aveva proclamato sul monte, una Toràh che sconvolgeva i principi e i valori su cui era fondata l’istituzione religiosa e civile d’Israele.
Mosè aveva promesso: “Tutti i popoli della terra ti temeranno; il Signore ti concederà abbondanza di beni; ti metterà in testa e non in coda e sarai sempre in alto e mai in basso” (Dt 28,10-13). Come poteva Gesù dichiarare di essere in sintonia con l’AT se proclamava beati i poveri, i perseguitati, gli oppressi e se annunciava, per i suoi seguaci, difficoltà, sofferenze e persecuzioni? Il suo messaggio era in aperto contrasto con le Scritture.
Leggendo i profeti, Israele si era convinto che il messia avrebbe instaurato un regno eterno, glorioso; avrebbe dato “agli afflitti di Sion una corona di gloria invece della cenere”, mentre per i nemici avrebbe promulgato “un giorno di vendetta per il nostro Dio” (Is 61,2-3). Nei momenti più drammatici della sua storia, Israele ritrovava in queste promesse la ragione per continuare a credere e a sperare in un futuro migliore. Come mai Gesù deludeva queste attese?
Ecco come chiarisce la sua posizione e le sue scelte: le promesse fatte da Dio – spiega – si compiranno tutte, non ne cadrà nemmeno una. Prima che il mondo sia finito, quanto è stato scritto si realizzerà, ma in modo inatteso e la sorpresa sarà tanto grande che persino le persone pie, devote, sincere, come il Battista, correranno il rischio di veder vacillare la loro fede e di rimanere scandalizzate (Mt 11,6).
In questa luce vanno intesi i detti di Gesù che concludono la prima parte del vangelo di oggi, riguardanti l’osservanza dei precetti anche minimi e la giustizia superiore a quella degli scribi e dei farisei (vv. 19-20). I precetti cui fa riferimento non sono quelli dell’antica legge, ma le beatitudini. Sono queste beatitudini la nuova proposta, la nuova giustizia che porta a compimento, conduce alla perfezione quella antica, quella che gli scribi e i farisei – bisogna riconoscerlo – praticavano in modo esemplare.
Come nella pratica dell’antica legge c’era chi si accontentava della fedeltà ai precetti più importanti e trascurava gli altri, così nell’adesione alla proposta delle beatitudini c’è chi si attiene al minimo (ammirarle, approvarle, appoggiare chi ha il coraggio di praticarle) e c’è chi è coerente fino in fondo e fa scelte coraggiose e decise. Agli occhi di Dio – dichiara Gesù, con un certo umorismo – i primi appariranno come “i minimi”, gli altri invece saranno giudicati grandi, saranno considerati “rabbini” nel regno dei Cieli, saranno cioè persone da additare come modelli agli altri discepoli.
Nella seconda parte del vangelo (vv. 20-37) vengono presentati quattro esempi del balzo in avanti, richiesto a tutti coloro che vogliono entrare nel regno dei Cieli. Si tratta di quattro disposizioni che si ritrovano nell’AT e che non vengono smentite, ma spiegate in modo originale. Gesù ne evidenzia tutte le implicazioni: parte dalla Toràh di Mosè – che era il punto di arrivo, il vertice raggiunto dalla “giustizia” degli scribi e dei farisei – e va oltre, propone la meta ultima di questa Legge.
Gli esempi che porta sono sei, ma il vangelo di oggi ne riprende soltanto quattro, gli altri due ci verranno proposti domenica prossima. Sono introdotti tutti con la stessa formula stereotipa: “Avete udito che Dio ha detto agli antichi… Ora io vi dico…”.
Non uccidere! (vv. 21-26).
È il primo caso che viene preso in considerazione. È una disposizione chiara, che non ammette eccezioni e che condanna qualunque forma di omicidio (Gn 9,5-6). L’uomo non ha potere sulla vita di un suo simile, quand’anche fosse un criminale (Gn 4,15). La vita umana è sacra e intangibile dal momento in cui sboccia fino a quando, naturalmente, si conclude. Questo era già chiaro nella Toràh antica, ma, per entrare nel regno dei Cieli, è necessario capire che il non uccidere comporta molto di più. Ci sono altri modi – subdoli, sofisticati, occulti, camuffati – di uccidere.
Se ci fossero raggi X capaci di rilevare il cimitero celato nel nostro cuore ci spaventeremmo. Tra i morti troveremmo coloro ai quali abbiamo giurato di non rivolgere più la parola, coloro ai quali abbiamo negato il perdono, coloro ai quali continuiamo a rinfacciare l’errore commesso, coloro cui abbiamo tolto il buon nome con maldicenze o calunnie, coloro che abbiamo privato dell’amore e della gioia di vivere…
Gesù insegna che il comandamento che ordina di non uccidere ha tante implicazioni che vanno ben oltre l’aggressione fisica. Chi usa parole offensive, chi si adira, chi alimenta sentimenti di odio ha già ucciso suo fratello (v. 22).
L’omicidio parte sempre dal cuore. Non si può odiare un uomo e continuare a sentirsi in pace con se stessi. Non si riesce ad uccidere se prima non ci si è convinti di avere a che fare con chi non è uomo, non merita di vivere e quindi è bene che venga eliminato. Quest’opera denigratoria è portata avanti mediante le parole, ripetendo a se stessi, come uno spietato ritornello: “È uno stupido”, “è un pazzo”, “è un senza Dio”. Così si giunge, senza rimorsi, a pronunciare la sentenza: merita “il rogo”.
È questo cuore crudele e ingiusto – insegna Gesù – che va disarmato. All’opera di demonizzazione dell’uomo, egli contrappone il suo giudizio: è un fratello. Per tre volte ripete questa parola (vv. 22-24), come un antidoto per guarire il cuore dal veleno dell’odio, mantenuto vivo e incrementato dalle parole cattive. Poi affronta alla radice i conflitti: introduce il tema della riconciliazione.
Ne richiama anzitutto il dovere e l’importanza (vv. 23-24).
Lo spunto è preso da una pratica religiosa di Israele. Prima di entrare nel tempio ad offrire sacrifici, era necessario sottoporsi a meticolose purificazioni. Gesù dichiara che non è il corpo che ha bisogno di essere puro, ma il cuore: la riconciliazione con il fratello sostituisce tutti i riti purificatori.
Insegnavano i rabbini che la più importante delle preghiere giudaiche – lo Shemà Israel – una volta iniziata, non poteva più essere interrotta, per nessuna ragione, nemmeno se un serpente si fosse attorciliato attorno alla gamba dell’orante. Gesù afferma che, per riconciliarsi con il fratello, si deve addirittura piantare a metà non solo lo Shemà Israel, ma perfino l’offerta del sacrificio nel tempio.
Difficile trovare nella cultura ebraica un’immagine più efficace per sottolineare l’importanza della riconciliazione. Chi la rifiuta, chi non la ricerca ad ogni costo si autoesclude dal “regno dei Cieli”.
Avevano assimilato bene questa lezione i primi cristiani. L’autore della Lettera agli efesini raccomandava: “Non tramonti il sole sulla vostra ira” (Ef 4,26) e qualche anno prima, nella giovane comunità di Antiochia di Siria, era stata emanata questa disposizione: “Nel giorno del Signore, chi è in discordia con il suo prossimo non si unisca a voi prima di essersi riconciliato, affinché il vostro sacrificio non sia contaminato” (Didakè 14,1-2). Due secoli dopo, un vescovo delle stesse regioni esortava i suoi fratelli nell’episcopato con queste parole: “Pronunciate le vostre sentenze il lunedì affinché, avendo tempo sino al sabato, possiate risolvere il dissenso (fra i membri delle vostre comunità) e per la domenica rappacificare quanti sono tra loro in discordia” (Didascalia 2,59,2).
Dopo aver richiamato il dovere della riconciliazione, Gesù ne sottolinea l’urgenza (vv. 25-26). Non può essere dilazionata.
Un cristiano non dovrebbe mai aver bisogno di ricorrere ai tribunali per ottenere giustizia, dovrebbe sempre riuscire a mettersi d’accordo prima con il suo fratello. Comunque, nel caso preferisca intentare processi piuttosto che sopportare l’ingiustizia, tenga presente che se si presenta davanti a Dio in disaccordo con il fratello, non verrà da lui riconosciuto come figlio. Le immagini severe della prigione, delle guardie, dell’obbligo di pagare fino all’ultimo spicciolo non vanno materializzate. Sono tipiche della cultura semitica e del linguaggio rabbinico; sono introdotte solo per richiamare, in modo energico, la necessità inderogabile della riconciliazione. Per ottenerla il discepolo deve essere disposto a qualunque rinuncia.
Dopo aver parlato del comandamento di non uccidere, Gesù passa al problema dell’adulterio (vv. 27-30).
La lettera della Toràh sembrava vietare solo le azioni cattive. Gesù, com’è solito fare, va invece al cuore e coglie le esigenze più profonde di questo comandamento. Ci sono amicizie, sentimenti, relazioni che sono già adulteri.
Siamo in un campo in cui, con molta facilità, si viene travolti dagli istinti e dalle passioni che possono provocare guai seri a sé, alla propria famiglia e a quella degli altri. Gesù insiste: di fronte a certe situazioni, è necessario avere il coraggio di procedere a tagli, anche se dolorosi, prima che i cattivi desideri si trasformino in adulteri di fatto.
Due sono i membri del corpo che bisogna essere disposti ad amputare: l’occhio destro e la mano destra. In questo contesto sono il simbolo di ciò che risveglia la libidine (sguardi) e dei contatti pericolosi (mano). È necessario essere pronti a rinunciare a tutto ciò che l’opinione comune ritiene magari esperienze arricchenti, conquiste gratificanti, occasioni da non perdere (la parte destra era ritenuta la più nobile, la preferita; Sal 137,5), pur di non rovinarsi la vita. Non si tratta di mutilazioni materiali, ma del faticoso autocontrollo di cui parla anche Paolo: “Tratto duramente il mio corpo e lo tengo soggiogato perché non succeda che dopo avere predicato agli altri, venga io stesso squalificato” (1 Cor 9,27).
La Geenna è la valle che delimita a sud-ovest la città di Gerusalemme; era l’immondezzaio della città, il luogo maledetto dove erano stati sacrificati e bruciati al dio Moloc i bambini; si riteneva che lì ci fosse la porta che introduceva nel mondo dei demoni.
Chi non sa imporsi le necessarie rinunce nel campo della sessualità corre il rischio di gettare tutto il proprio corpo (la propria persona) nella Geenna (nella spazzatura). Questo non è un castigo di Dio, ma la conseguenza del peccato.
Il terzo caso riguarda il divorzio (vv. 31-32).
Dio ha voluto il matrimonio monogamico e indissolubile. La Bibbia lo afferma con chiarezza, fin dalle prime pagine: “I due formano una carne sola” (Gn 2,24). Per la durezza del cuore dell’uomo si è introdotto però, anche in Israele, il divorzio.
Andando contro la consuetudine, le tradizioni e le interpretazioni dei rabbini, Gesù riporta il matrimonio alla purezza delle origini ed esclude la possibilità di separare ciò che Dio ha stabilito che rimanga unito. La clausola “eccetto in caso di concubinato”, che sembra lasciare aperta una possibilità al divorzio, in realtà riguarda le unioni illegittime e irregolari.
Né l’infedeltà, né le incomprensioni, né alcun’altra difficoltà di coppia possono legittimare un nuovo matrimonio. Qualunque unione di questo tipo è definita da Gesù adulterio, non una macchia che può essere lavata da una buona confessione, ma una scelta di morte.
Il discepolo deve fare attenzione perché la mentalità corrente, il permissivismo, la banalizzazione della sessualità, la dissolutezza dei costumi possono facilmente far dimenticare le parole del Maestro, far vacillare anche le convinzioni più solide e persuadere che è normale, umanizzante, apprezzabile ciò che invece è solo un palliativo, un ripiego, un espediente dettato dalla “sapienza di questo mondo”.
Non è leale, non rende un buon servizio a chi è in difficoltà chi occulta le esigenze della morale cristiana, chi si mostra compiacente e propone convivenze che finiscono per essere inevitabilmente accompagnate da dolorosi conflitti interiori. Va sempre tenuto presente che fanno parte della morale evangelica la rinuncia, il sacrificio, la croce e anche l’eroismo della forzata verginità di chi è sposato: “Vi sono eunuchi che hanno scelto di rimanere tali per il regno dei Cieli” (Mt 19,12).
Le parole chiare di Gesù però non conferiscono a nessun discepolo la licenza di giudicare, di condannare, di umiliare, di emarginare coloro che hanno fallito nella loro vita coniugale. Si tratta, in genere, di persone che sono passate attraverso grandi sofferenze e che hanno vissuto situazioni drammatiche. Per loro si rivela a volte impossibile realizzare il progetto cristiano di matrimonio. La comunità è chiamata a manifestare nei loro confronti la tenerezza e la comprensione del Maestro che non ha spento il lucignolo fumigante né spezzato la canna incrinata (Is 42,3).
Il quarto caso è quello del giuramento (vv. 33-37).
Durante l’esilio a Babilonia gli israeliti avevano assimilato, fra le altre cattive abitudini, anche quella di giurare a sproposito. Arrivavano al punto di non fare più un’affermazione senza accompagnarla con qualche imprecazione. Per evitare di pronunciare il nome di Dio ricorrevano a formule meno impegnative: giuravano per il cielo, per il tempio, per la terra, per i loro genitori, per la loro testa. Un saggio del II sec. a.C. raccomandava: “Abitua la tua bocca a non giurare, abituati a non nominare il nome del Santo” (Sir 23,9).
Gesù prende posizione contro quest’abitudine sconsiderata e lo fa con la sua solita radicalità: “Non giurate affatto… Sia invece il vostro parlare sì quando è sì, no quando è no; il resto viene dal maligno” (vv. 33-37).
Non era tanto la profanazione del nome del Signore che lo preoccupava. Ci sono altri elementi che rendono inaccettabile un giuramento. Anzitutto esso presuppone una concezione pagana di Dio che è immaginato come un vendicatore, pronto a scagliare i suoi fulmini contro bugiardi e spergiuri; poi è il sintomo di una società in cui regnano la diffidenza, la sfiducia, la slealtà, il sospetto reciproci.
Nella comunità dei discepoli di Gesù il giuramento è inconcepibile perché essa è costituita da persone dal “cuore puro” (Mt 5,8), guidate dallo spirito di verità (Gv 14,17; 16,13), che bandiscono dalla loro vita ogni menzogna – come raccomanda Paolo – “Deposta la menzogna, parlate ognuno al vostro prossimo secondo verità, poiché siamo membri gli uni degli altri” (Ef 4,25; 1 Pt 2,1).