“Signore non sono degno”, ripetiamo prima di accostarci alla comunione, consci che l’unione con Cristo nell’eucaristia comporta la condivisione della sua scelta di vita, per questo con tutta sincerità gli diciamo: “Non sono degno”, cioè, so di non farcela a divenire come te pane spezzato, sangue versato, senza riserve, per i fratelli. So che non avrò la forza di lasciarmi “consumare” da loro, vengo solo a implorare il tuo Spirito.
L’osservanza dei precetti dell’AT era difficile, ma non impossibile, la meta indicata dalla Toràh era alla portata dell’uomo. Con giustificato orgoglio il salmista poteva dichiarare: “Ho custodito le vie del Signore; non ho respinto da me la sua legge, ma integro sono stato con lui” (Sal 18,22-23); Zaccaria ed Elisabetta “osservavano irreprensibili tutte le leggi e le prescrizioni del Signore” (Lc 1,6); Anania era “un devoto osservante della legge” (At 22,12).
A differenza della morale giudaica, quella cristiana propone invece una meta irraggiungibile: la perfezione del Padre che sta nei cieli (Mt 5,48). Sulla strada verso la vita, la segnaletica precisa e dettagliata della Toràh, con i suoi comandamenti ben definiti, rimane alle spalle; davanti si spalanca l’orizzonte sconfinato della perfezione del Padre e il cammino verso di lui è tutto da inventare. Ogni momento viene guidato, nel cuore dell’uomo, dagli impulsi dello Spirito che suggerisce come rispondere ai bisogni del fratello.
Gesù procede spedito (Lc 9,51) mentre i passi del discepolo non possono che essere piccoli e incerti. “Siamo ancora in esilio, lontani dal Signore” (2 Cor 5,6.9), ma predestinati ad essere conformi alla sua immagine (Rm 8,29), a divenire espressione del suo amore che non conosce confini di razza né di religione e che è offerto indistintamente ad amici e nemici.
Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Signore, ti ripeto che non ce la faccio a seguirti. Tuttavia, accompagnato da te, riesco sempre a fare un altro passo”.
Prima Lettura (Lv 19,1-2.17-18)
1 Il Signore disse ancora a Mosè: 2 “Parla a tutta la comunità degli israeliti e ordina loro: Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo.
3 Ognuno rispetti sua madre e suo padre e osservi i miei sabati. Io sono il Signore, vostro Dio.
17 Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai d’un peccato per lui. 18 Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore.
“Siate santi, perché io, il Signore Dio vostro, sono santo” (v. 2). Con questo invito rivolto da Dio al suo popolo inizia la lettura. Nel linguaggio corrente, per santo si intende chi ha condotto una vita esemplare, è andato in paradiso e, se invocato con fede, può concedere grazie e miracoli. Il vero significato di questo termine è però più ampio: indica ciò che è separato e consacrato a Dio. Erano santi i templi perché distinti, “ritagliati” dal mondo profano e riservati alla divinità. Varcare la soglia di un santuario era entrare nel mondo di Dio, per questo era necessario sottoporsi a numerosi e complicati riti purificatori.
Santi erano gli oggetti sacri che non potevano essere adibiti ad altri usi, sante erano le persone che vivevano in modo originale, che assumevano comportamenti fuori del comune. Il più santo era Dio, assolutamente diverso da tutto ciò che esiste.
Cosa pretendeva dunque il Signore quando ha ingiunto al suo popolo di essere “santo”? Voleva che forse vivesse separato dagli altri popoli?
Israele ha inteso in questo modo il comando di Dio e ha pensato che fosse suo dovere evitare ogni contatto con coloro che avrebbero potuto portarlo all’idolatria. Per mantenere questa “santità”, ha moltiplicato a dismisura i divieti: proibizione di entrare nelle case degli stranieri, di mangiare con loro o anche soltanto di stringere la mano a un pagano.
Essendo questa la mentalità comune, si rimane sorpresi quando si constata che, nel libro del Levitico, c’è un testo – ed è quello che ci viene proposto oggi – in cui la “santità” è intesa in modo completamente diverso: niente separazioni materiali dagli altri uomini, niente osservanze di prescrizioni rituali. Per essere santi basta condurre una vita diversa, una vita che si concretizza nelle seguenti disposizioni: onorare il padre e la madre, osservare i sabati, non odiare il fratello, rinunciare al rancore ed alla vendetta e “amare il prossimo come se stessi” (vv. 3.17-18).
Quest’ultima clausola, assieme alla famosa raccomandazione del libro dei Proverbi “Se il tuo nemico ha fame, dagli pane da mangiare; se ha sete, dagli acqua da bere” (Pr 25,21), è il punto più alto cui è giunta la morale dell’AT. Tuttavia, in essa è ancora presente un limite: l’amore richiesto non è universale; l’interpretazione rabbinica, infatti, lo restringeva ai membri del popolo d’Israele.
Seconda Lettura (1 Cor 3,16-23)
16 Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? 17 Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo è il tempio di Dio, che siete voi.
18 Nessuno si illuda. Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto per diventare sapiente; 19 perché la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio. Sta scritto infatti: “Egli prende i sapienti per mezzo della loro astuzia”. 20 E ancora: “Il Signore sa che i disegni dei sapienti sono vani”.
21 Quindi nessuno ponga la sua gloria negli uomini, perché tutto è vostro: 22 Paolo, Apollo, Cefa, il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro! 23 Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio.
C’erano discordie, erano sorti partiti, esistevano invidie, liti e fanatismi a Corinto. Comportamenti comprensibili e scusabili fra “bambini”, fra neonati alla fede (1 Cor 3,1-2), ma inconcepibili fra cristiani maturi, fra “perfetti”.
Per denunciare la gravità della situazione, Paolo ricorre all’immagine del tempio di Dio (vv. 16-17). La comunità è come un santuario ritagliato dal mondo profano; chi la mantiene unita e salda è lo Spirito, le divisioni che disgregano e minacciano di far crollare tutta la costruzioni introducono un principio opposto e devastante. Chi si rende responsabile di un simile disastro sarà trattato dal Signore con estrema severità: “Dio – assicura Paolo – distruggerà lui” (v. 17). È l’immagine tradizionale del giudizio finale che serviva, nel linguaggio rabbinico, non a descrivere ciò che accadrà alla fine, ma a mettere in risalto l’estrema gravità di un’azione.
Nella seconda parte della lettura (vv. 18-23) viene ripreso il motivo della contrapposizione fra la “sapienza di Dio” e quella “degli uomini”. Le discordie derivano dal fatto che i membri della comunità seguono la “sapienza di questo mondo”, opposta a quella di Dio.
Nella sua lettera, Paolo ha già detto che “il vangelo è una pazzia agli occhi degli uomini” (1,18.21.23), oggi afferma che la saggezza degli uomini è una follia per Dio (v. l9).
L’Apostolo non intende svalutare o disprezzare gli sforzi e le capacità della ragione umana; egli mette in guardia dai deliri di onnipotenza e dalle pretese insensate di chi è convinto che tutto possa essere ridotto al razionale e che si possa fare a meno della luce di Dio.
Questo pensiero introduce nelle interpretazioni nuove e provocatorie che, nel vangelo di oggi, Gesù darà ad alcuni testi dell’AT, interpretazioni che propongono scelte morali la cui validità è garantita da Dio, non dalla “sapienza di questo mondo”.
Vangelo (Mt 5,38-48)
38 Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente; 39 ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra; 40 e a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. 41 E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due. 42 Dá a chi ti domanda e a chi desidera da te un prestito non volgere le spalle.
43 Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; 44 ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, 45 perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. 46 Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? 47 E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? 48 Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste.
Abbiamo ascoltato la scorsa domenica l’interpretazione di Gesù di quattro testi della Tiràh d’Israele. Oggi viene presentata quella di altri due.
La prima riguarda il modo nuovo di ottenere giustizia. Tutti siamo d’accordo che il male va contenuto e contrastato. Ma come?
Nelle società arcaiche dove non c’era un potere statale capace di mantenere l’ordine, si ricorreva facilmente alla vendetta, alla rappresaglia senza limiti. Il responsabile di una malefatta, una volta scoperto, veniva sottoposto a castighi esemplari, a punizioni pubbliche, tanto severe e crudeli, da dissuadere chiunque altro dal commettere simili errori. La ritorsione serviva come deterrente, ma era un modo barbaro di fare giustizia.
Lamec, il discendente di Caino, si tutelava incutendo terrore: “Ho ucciso un uomo per un graffio e un ragazzo per un livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamec settantasette volte” (Gn 4,23-24).
È per porre un argine a simili eccessi che la Toràh aveva stabilito: “Occhio per occhio, dente per dente” (Es 21,23-25).
Questa è forse la legge più travisata della storia del diritto. È citata ad esempio quando, ricevuto uno sgarbo, si ripaga con la stessa moneta. “Occhio per occhio, dente per dente” equivale, in questi casi, al rifiuto di avere compassione, di accordare clemenza al colpevole. In realtà la disposizione aveva tutt’altro significato: vietava i cosiddetti castighi esemplari e le rappresaglie. Ognuno doveva pagare per la colpa commessa, non per tutto il male presente nel mondo.
Intesa correttamente rimane valida anche oggi e, se praticata, garantisce l’equità nelle sentenze. Gesù non la considera decaduta, propone di andare oltre questa giustizia rigorosa e invita ad affrontare il problema in altro modo (vv. 38-42).
I rabbini del suo tempo insegnavano: “Sii ucciso, ma non uccidere”, ma aggiungevano subito: se però qualcuno ti aggredisce e vuole toglierti la vita, tu non riflettere, non dire a te stesso: forse mi renderò colpevole del suo sangue; uccidilo prima che sia lui a ucciderti!
Questa interpretazione dei rabbini non suscitava obiezioni. Era conforme alla logica umana e poteva trovare giustificazioni anche nella Toràh.
Ora ecco la sorpresa, Gesù non la accetta e dice ai suoi discepoli: “Voi non dovete resistere al malvagio!”; piuttosto che fare violenza al fratello, dovete essere disposti a subire l’ingiustizia (Mt 5,39). Siamo di fronte a parole inequivocabili; comunque, a scanso di equivoci, aggiunge quattro esempi, presi dalla vita quotidiana del suo popolo.
Il primo riguarda la violenza fisica: “Se uno ti percuote sulla guancia destra…” (v. 41).
Quando si riceve uno schiaffo, se l’aggressore non è un mancino, si viene colpiti sulla sinistra. Gesù parla della destra perché la violenza subita è maggiore: si tratta del manrovescio, un’offesa gravissima, punita in Israele con un’ammenda pari a più di un mese di stipendio. Al discepolo, Gesù non raccomanda di essere più buono, più mite nelle pretese di risarcimento, esige un comportamento radicalmente nuovo: “Tu porgi anche l’altra guancia”.
“Buoni sì, ma non stupidi!” – si suol dire. Certo, le parole di Gesù non devono essere prese alla lettera (questo sarebbe davvero sciocco). Anch’egli, quando ha ricevuto lo schiaffo, non ha presentato l’altra guancia, ma ha protestato (Gv 18,23). Ciò che esige dai discepoli è la disposizione interiore ad accettare l’ingiustizia, a sopportare l’umiliazione, piuttosto che reagire facendo del male al fratello.
L’unico modo per interrompere il ciclo diabolico offesa-violenza è il perdono. Se alla violenza si reagisce con un’altra violenza, non solo non viene eliminata la prima ingiustizia, ma se ne aggiunge un’altra. Questo circolo può essere spezzato solo con un gesto originale, assolutamente nuovo: il perdono. Tutto il resto è vecchio, è qualcosa di già visto, di ripetuto senza sosta fin dagli inizi dell’umanità.
Il secondo esempio si riferisce all’ingiustizia economica (v.40).
In Israele, uomini e donne indossavano due capi di vestiario: una tunica a maniche lunghe o a mezze maniche, portata sul corpo nudo, e un’ampia cappa (il mantello). Nel mantello ci si avvolgeva quando faceva freddo e lo si toglieva quando si svolgeva un lavoro servile. Ai poveri serviva anche da coperta per la notte, per questo la Toràh stabiliva che non poteva essere pignorato (Es 22,25-26).
Gesù propone un caso limite di ingiustizia: un discepolo viene portato in tribunale perché lo si vuole privare della tunica. Chiaramente tutti gli altri beni gli sono già stati tolti. Che deve fare? Null’altro che manifestare il suo totale e incondizionato rifiuto di entrare in liti e contese. Per questo cede anche il mantello, l’ultimo indumento che gli rimane, quello che non poteva essere requisito come pegno, ed è disposto a rimanere nudo, come il suo Maestro sulla croce.
Il terzo esempio è l’abuso del potere (v. 41).
Capitava spesso che i soldati romani o qualche signorotto locale angariassero dei poveri contadini e li costringessero a fare da guide o a portare carichi. Un esempio lo abbiamo nel racconto della passione: Simone di Cirene è obbligato a portare la croce di Gesù (Mt 27,31).
Gli zeloti, cioè i rivoluzionari di quel tempo, suggerivano la ribellione e il ricorso alla violenza per opporsi a simili soperchierie. Epitteto esortava alla prudenza: “Se un soldato ti requisisce l’asino, non resistergli e non lamentarti, altrimenti verrai percosso e alla fine glielo dovrai consegnare lo stesso”. Gesù non fa alcuna considerazione di questo tipo, non si richiama alla prudenza; ai discepoli dice semplicemente: “Se qualcuno ti costringe a fare un miglio, tu fanne due”. Non detta una norma di saggezza, non suggerisce una strategia atta a convertire l’aggressore, non assicura nemmeno che un simile comportamento arrendevole otterrà risultati positivi in tempi brevi. Chiede al discepolo che, senza fare calcoli, mantenga il cuore libero dai risentimenti e si astenga da qualunque reazione che non sia dettata dall’amore.
Il quarto caso è quello della persona importuna che viene a chiedere un prestito (ma può anche essere un alloggio, un appartamento in affitto, un posto di lavoro, un prezzo di favore…) magari, come spesso accade, senza un minimo di discrezione.
Gesù dice al discepolo: “Dà a chi ti domanda e non volgere le spalle a chi ti chiede” (v. 42). Non fingere di non capire, non cercare scuse, non inventare difficoltà inesistenti, non cercare di scaricare su altri il problema. Se puoi fare qualcosa, fallo e basta.
Nell’ ultimo (il sesto) esempio Gesù si richiama a un duplice comandamento “Ama il tuo prossimo, ma odia il tuo nemico” (vv. 43-48). Nell’AT il primo lo si trova (Lv 19,18), ma il secondo no. Probabilmente Gesù non si riferisce a un testo specifico della Toràh, ma alla mentalità che si era creata in Israele a partire da alcuni testi biblici. Nelle sacre Scritture si parla, a volte, di guerre sante (Dt 7,2; 20,16), compaiono sentimenti di vendetta (Sal 137,7-9), si manifesta il proprio attaccamento al Signore, ma in un linguaggio molto arcaico: “Non odio, forse, i tuoi nemici, Signore? Li detesto con odio implacabile” (Sal 139,12-22). Espressione di questo odio è l’invito che i monaci esseni di Qumran rivolgevano ai loro adepti: “Amate tutti i figli della luce, ma odiate tutti i figli delle tenebre, ciascuno secondo la sua colpa, nella vendetta di Dio”.
Ci sono però nella Bibbia – è bene ricordarlo – altri testi in cui si ammonisce di non ricambiare il male (Pr 24,29) e si raccomanda l’amore al nemico: “Quando vedrai l’asino del tuo nemico accasciarsi sotto il carico, non abbandonarlo a se stesso: mettiti con lui ad aiutarlo” (Es 23,5). Appellandosi ad essi, alcuni rabbini sostenevano che il comandamento: “Ama il prossimo come te stesso” (Lv 19,18) doveva essere esteso anche al nemico, ma l’opinione comune lo restringeva agli appartenenti al popolo giudaico.
In questo contesto religioso, il duplice comandamento di Gesù suona paradossale: “Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori”.
È l’apice dell’etica cristiana, è la richiesta dell’amore gratuito e incondizionato che non si aspetta alcun contraccambio e che, come quello di Dio, raggiunge anche chi fa del male.
Alcuni saggi dell’antichità hanno fatto proposte morali elevate: “Comportati in modo da trasformare i tuoi nemici in amici” (Diogene). “Proprio dell’uomo è amare anche coloro che lo percuotono” (Marco Aurelio); ma l’imperativo Ama i tuoi nemici è un’invenzione di Gesù.
Il secondo comando – pregate – suggerisce il mezzo per riuscire a praticare l’amore per “chi ci perseguita”, per chi ci rende la vita impossibile: la preghiera. Essa eleva verso il cielo, unisce al Signore, purifica la mente e il cuore dai pensieri e dai sentimenti dettati dalla logica di questo mondo e fa vedere il malvagio con gli occhi di Dio, che non ha nemici.
Gesù invita a mostrarsi suoi figli, chiede ai discepoli di lasciar trasparire nei loro comportamenti l’indole del Padre celeste “che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti”. La distinzione fra malvagi e buoni e la lotta contro gli uomini, portata avanti in nome di Dio, sono bestemmie!
Due esempi (vv. 46-47) mettono a confronto il comportamento usuale degli uomini con la novità di vita di chi ha assimilato i pensieri, i sentimenti e le opere del Padre che sta nei cieli. La caratteristica dei “figli di Dio” è l’amore offerto a chi non lo merita e il saluto rivolto a chi si comporta da nemico. La formula di saluto era: Shalom, augurio di pace e di ogni bene. Con tutto il cuore, il discepolo desidera, anche per chi lo odia, il bene e, dimentico dei torti, si impegna perché questo avvenga.
La conclusione addita la meta irraggiungibile: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (v. 48).
La perfezione del giudeo consisteva nell’esatta osservanza dei precetti della Toràh. Per il cristiano è l’amore senza limiti come quello del Padre. Perfetto è chi non manca di nulla, chi è integro, chi non ha il cuore diviso fra Dio e gli idoli. La disponibilità a donare tutto, a non conservare nulla per sé, a mettersi totalmente a servizio dell’uomo – compreso il nemico – colloca sulle orme di Cristo e conduce alla perfezione del Padre che si dona tutto e che non esclude nessuno dal suo amore.