Ascensione del Signore: La terra si collega con il cielo

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Si sottolinea spesso l’abile artificio usato da Luca di chiudere il suo vangelo, da lui chiamato «primo racconto», con lo stesso evento con cui apre gli Atti degli apostoli, così che questo diventi chiaramente il “secondo libro”, o seconda parte della stessa storia.

Quella di Gesù, dunque non è una partenza, ma una dilatazione della sua presenza, perché la sua Ascensione è esattamente il legame che permette di portare la terra in cielo, proprio come l’Incarnazione era stato l’evento che aveva portato il cielo sulla terra.

Questa circolarità va sottolineata, in una festa che, tra Pasqua e Pentecoste, temo passi in secondo piano, quando invece è proprio l’elevazione di Gesù al cielo che permette la successiva discesa del suo Spirito sulla terra, chiudendo così il cerchio del mistero pasquale, da non intendere affatto come qualcosa di “chiuso” ma, al contrario, come definizione di uno spazio in cui la fede può, e deve, circolare.

La mensa, luogo dell’incontro

Il brano di At 1,1-11 è utilizzato in tutti e tre gli anni A-B-C, ma vale sempre la pena tornarci su. Nel commento dell’anno scorso avevo messo in risalto quelli che considero i motivi principali da cogliere nel testo, e che qui ricordo in sintesi: la vicenda di Gesù riassunta in “fatti e parole”, i quaranta giorni, immagine del tempo perfetto, trascorsi in convivenza con lui attorno a una “mensa”, luogo cruciale di incontri decisivi nel vangelo di Luca; Gerusalemme come città dove tutto è cominciato e da dove tutto ricomincia; l’attesa del Regno da purificare senza materializzare né il concetto né i tempi della realizzazione; la promessa dello Spirito che darà ai discepoli la forza per compiere la missione a cui sono chiamati; infine, l’invito a non volgere lo sguardo all’indietro sperando che ritorni un tempo ormai concluso, ma piuttosto in avanti per entrare da protagonisti in una storia guidata da Dio, che vuole avere bisogno di noi per costruire il suo Regno, quello che è stato visualizzato perfettamente nel morire di Gesù sulla croce, dove consegnò la sua vita per il mondo.

Potrebbe essere l’occasione per sviluppare qualcuno di questi temi, per esempio quello della “mensa”, già evocato nella storia dei due di Emmaus, e che potrebbe essere oggi ripreso per ricordare che chi partecipa alla messa si trova esattamente nella stessa situazione, attorno a Gesù che ci nutre con la memoria di “fatti”, cioè la sua morte e risurrezione che stanno al centro della preghiera eucaristica, e con quella delle sue “parole” che spiegano il senso dei fatti e chiedono di realizzarli per dimostrare che il vangelo è vero e praticabile.

Si veda, per esempio, cosa accade al cap. 14, dove, invitato a pranzo dai farisei Gesù guarisce un idropico in giorno di sabato, con il messaggio implicito che la mensa è una “festa”, e uno che è malato, se non viene guarito, si sente escluso, con tutto quello che succede dopo.

Ma anche la storia di Zaccheo (19 1,10), che risponde all’invito di Gesù correndo a casa per radunare i suoi amici attorno a una mensa, come è logico supporre, e lì cambia la sua vita, e si sente dire «Oggi la salvezza è entrata in questa casa», una casa ordinaria che viene per così dire a soppiantare il senso e la funzione del “tempio”!

Viene poi l’ultima cena, dove attorno a una mensa siede una comunità non certo perfetta, dove Gesù trova l’occasione di preannunciare il tradimento di Giuda e di Pietro, ma anche di esaltare la dimensione del “servizio”, come farà Giovanni con il racconto della lavanda dei piedi.

E, infine, la splendida storia dei due di Emmaus, dove a mensa avviene il riconoscimento decisivo, che porta i due, pronti ad andarsene, al ritorno alla comunità.

L’invito degli angeli ad abbandonare un’attesa inutile potrebbe almeno essere l’occasione per ricordare che l’amore per Gesù non può essere equiparato a una nostalgia inerte e paralizzante, il contatto con lui nella Parola e nell’eucaristia (Emmaus insegna) deve essere un propellente che ci spinge continuamente in avanti per realizzare il Regno, non quello antico di Israele, ma quello nuovo che è Gesù stesso.

Sette segni di unità

La seconda Lettura (Ef 4,1-13) è un brano spettacoloso che, anche dall’altare, andrebbe letto con quel tono grave e posato che non permette di perdere neanche una parola. L’esortazione è anzitutto di carattere morale: i discepoli sono invitati a comportarsi «con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandosi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace».

Mi chiedo se non sia il caso di sostare qualche volta a commentare queste virtù, che hanno nella “dolcezza” il loro cuore, e nella “unità dello spirito” la loro radice e la loro giustificazione. E proprio per questo i versetti che seguono meritano un’attenzione ancora maggiore, perché con grande forza viene segnalato il principio teologico che fa da fondamento all’esortazione: siamo in Cristo «un solo corpo e un solo spirito, avendo una sola speranza, un solo Signore, una sola fede e un solo battesimo, un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti»!

È un brano mozzafiato: sette segni di unità che si riassumono in quell’unico Dio che è come la fonte da cui scaturisce tutto quanto c’è di bello e di buono riassunti in tre verbi: un Dio che è, opera, è presente in tutti!

Il cuore di tutto ciò è l’Ascensione perché, salendo al Padre, Cristo ha portato con sé tutta l’umanità, liberandola dalla prigionia del peccato e «distribuendo doni agli uomini». Qui l’unità assume i vari colori della varietà: la “pienezza di tutte le cose”, che è Cristo glorioso, si distribuisce e fiorisce nei diversi ministeri: apostoli, profeti, evangelisti, pastori e maestri. Non si prendano questi carismi (un altro termine per dire “doni”) a un livello troppo solenne. Non è forse vero che il battesimo, inserendoci nel corpo di Cristo, ci rende tutti «sacerdoti, re e profeti»?

Queste tre qualifiche ci fanno mediatori e intercessori tra l’umanità e Dio, operatori e costruttori del regno di Dio, portatori e annunciatori della sua parola. Nessuno può sottrarsi a tali compiti, secondo la grazia e le capacità di ciascuno. Per questo dobbiamo spesso tenere vivo nella nostra mente il grandioso traguardo: «edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo». Spettacoloso, semplicemente!

Quando, a dodici o tredici anni, da pre-adolescente ero “aspirante” dell’Azione cattolica, il prete dell’oratorio mi mise tra le mani un libretto dal titolo La grande pagina, una raccolta di meditazioni sulla Lettera agli Efesini, che da allora ha marcato il mio percorso spirituale. E l’incanto davanti allo stile superbo di questo testo non ha fatto che crescere negli anni.

La speranza del corpo

Essendo l’anno di Marco, era in qualche modo obbligatorio utilizzare parte della finale del secondo vangelo (Mc 16,15-20), sicuramente un’aggiunta dovuta a qualcuno che può aver ritenuto troppo brusca la conclusione dell’originale che mostrava come le donne che erano andate al sepolcro, davanti alla visione e alle parole di un angelo, «fuggirono via dal sepolcro perché erano piene di spavento e di stupore. E non dissero niente a nessuno perché erano impaurite». Il carattere canonico del brano (vv. 9-20), comunque, è fuori discussione. Peraltro, quanto è scritto nel brano letto oggi trova corrispondenze precise negli altri tre evangelisti, ed è probabile che l’anonimo compilatore si sia proprio servito di loro per comporre la sua sintesi.

Il congedo di Gesù è riassunto in questi punti: l’invio in missione nella forma usata da Matteo; i “segni” miracolosi che seguono la predicazione, da leggere in chiave reale e insieme allegorica; l’ascensione riferita in una riga e mezza; la conclusione che mostra come i discepoli eseguirono i compiti loro affidati dal “Signore Gesù”, dove la frase più bella è: «il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano».

Nessuno meglio di Leone Magno ha saputo esprimere, con un linguaggio di un realismo fisico straordinario, la stretta unione così creata tra terra e cielo, identica a quella che esiste tra corpo e capo. Così suona la colletta odierna, che riporto qui in una traduzione “letterale” almeno della conclusione, molto più bella e concisa della “parafrasi” del Messale, che sfilaccia il testo con il rischio di rendere ancora più “volatile” l’attenzione a una preghiera che chiede alla fine il nostro Sì/Amen!

Perché invece non introdurre il testo, da far seguire con un breve silenzio, per assorbirne la densità prima che esso venga pronunciato come si deve? Traduco solo la parte finale che dà il senso del mistero che celebriamo: la nostra gioia e gratitudine è dovuta al fatto che «l’ascensione di Cristo tuo Figlio è anche la nostra elevazione, e là dove è arrivata la gloria del Capo è pure chiamata la speranza del corpo».

Ho parlato di “realismo fisico” perché l’ultima frase è letteralmente tolta dal Primo Sermone per l’Ascensione di Leone Magno, che nello stesso scrive che «la carne del battezzato diventa la carne del Crocifisso», cui fa eco Pietro Crisologo che fa dire a Gesù questo invito alla conversione: «Guardate in me il vostro corpo, le vostre membra, i vostri organi, le vostre ossa, il vostro sangue; non potete non amare ciò che è vostro. Dio può far paura, ma non chi vi ha generato»!

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