Di una persona abitualmente distratta si usa dire che ha la testa tra le nuvole: così, chi si trova di frequente a vivere in questo stato è invitato a tenere realisticamente i piedi per terra.
Dis-trarre significa “strappare via” da qualcosa a cui si dovrebbe rimanere attaccati per non perdere il contatto con la realtà: ma è poi vero? Si dà il caso, infatti, che alcune distrazioni siano salutari, e persino necessarie, proprio per valutare meglio cose, eventi e persone, come un prendere le distanze per avere una visione più completa e più articolata di ciò che ci sta davanti.
Sappiamo, del resto – e su questo c’è una secolare tradizione cristiana alle spalle – che quella “distrazione” che si chiama vita contemplativa è condizione necessaria perché la vita attiva acquisti chiarezza di obiettivi ed efficacia di realizzazioni.
E, per il vero, nella liturgia dell’Assunta, una festa entrata in Occidente nel VII secolo, fino al 1950 quando fu proclamato il dogma e si creò un nuovo formulario liturgico, la lettura evangelica era quella dell’episodio in cui Gesù è accolto in casa da Marta e Maria (Lc 10,38-42), icone tradizionali della vita attiva e contemplativa, o, diremmo noi, dell’azione e della distrazione, due modi del vivere che si illuminano e si integrano reciprocamente. Mi pare, allora, di poter sintetizzare il percorso proposto dalle letture di oggi come un avere contemporaneamente la testa tra le nuvole e i piedi ben fissi per terra.
Questo è quanto suggeriscono, da una parte, la visione dell’Apocalisse (le nuvole) e, dall’altra, l’incontro di due donne sulle montagne di Giudea (la terra), con in mezzo, a fare da collegamento, la riflessione paolina su come ci è dato di vincere la morte. Perché di questo poi, sostanzialmente, si tratta in questa festa, di una vittoria che è una sorta di Pasqua applicata a una creatura “tutta” umana qual è Maria, la madre di Gesù.
La donna e il drago
La Lettura (Ap 11,19a; 12,1-6a.10ab) presenta in una cornice gigantesca e terrificante (folgori, tuoni, terremoto e tempesta di grandine) una guerra che si combatte nel cielo, in cui si apre il tempio di Dio.
Contrariamente a quanto si può pensare, il cielo non indica uno spazio al di là e al di fuori dalla terra, ma esattamente il contrario: è il cosmo che in certo senso risucchia pure la terra, che comprende quindi l’intero universo, e quanto vi accade altro non è che un ingrandimento di eventi che si svolgono nel nostro mondo minuscolo.
Protagonisti di tale lotta due “segni” grandiosi: una donna e un drago.
La prima è tutta luce: vestita di sole, la luna sotto i piedi e, attorno al capo, una corona di stelle.
Il drago è un mostro di morte: sette teste e dieci corna, colto in un’azione che mira a sconvolgere il cielo privandolo di un terzo delle stelle che sta con la coda precipitando sulla terra. Si pone lì in agguato, «davanti alla donna che stava per partorire, in modo da divorare il bambino appena lo avesse partorito».
Il parto avviene, ma il drago non riesce nel suo intento, perché il bambino, «destinato a governare tutte le nazioni», viene «rapito verso Dio e verso il suo trono»; per la donna invece Dio provvede un «rifugio nel deserto».
Nella festa dell’Assunta è istintivo leggere in queste figure Maria, la donna vestita di sole, suo figlio Gesù, il bambino dal destino regale, e la potenza di Satana incarnata nel drago. Lettura indubbiamente corretta, ma che esige un’integrazione importante, decisiva al fine di sottrarre Maria da una posizione isolata che, se pure matrice di tante forme di devozione, finisce per renderla quasi insignificante.
Si sa, del resto, che certa “mariolatria” cattolica crea non poche difficoltà nei rapporti con i fratelli della Riforma, e bene ha fatto il Concilio a scegliere di trattare della Madonna dentro il documento sulla Chiesa, di cui è l’icona, il riassunto e il traguardo, giusto il tema di questa festa.
E dunque, in questa “donna” dell’Apocalisse occorre vedere anzitutto il popolo ebraico, che aveva il compito di generare il Messia da offrire come salvatore alle genti, e insieme la Chiesa di Gesù, che ne continua nel mondo la missione. Maria è la cerniera che unisce questi due popoli, e lo fa come vergine-madre del Cristo. Parlare di lei, allora, significa parlare di noi: abbiamo lo stesso compito.
È quanto ha espresso in modo mirabile Isacco della Stella in un suo sermone per l’Assunta, con una sintesi talmente chiara e folgorante che ha meritato la citazione nel documento conciliare sulla Chiesa, la Lumen gentium, al n. 64. Il Cristo unico – scrive Isacco – capo e corpo, un solo figlio e molti figli, è generato insieme da Maria e dalla Chiesa, ambedue madri e ambedue vergini in quanto la concezione è frutto combinato dell’azione dello Spirito Santo e della nostra collaborazione. Come avviene tale generazione? Se il peccato è morte, non c’è rigenerazione se non guarendo il peccato: questo è sconfiggere il drago! E continua:
«Ambedue senza peccato hanno dato una prole a Dio Padre. Maria, senza alcun peccato (cf. Eb 4,15), ha partorito per il corpo il capo; la Chiesa, nella remissione di tutti i peccati (cf. At 2,38), ha dato al capo un corpo. Tutte e due sono madre di Cristo, ma nessuna delle due senza l’altra lo partorisce tutto intero. Per questo nelle Scritture divinamente ispirate quello che si dice in senso universale della vergine madre Chiesa lo si intende correttamente come valido in senso singolare per la vergine madre Maria, e quello che vale in modo speciale per la vergine madre Maria, vale in senso generale per la vergine madre Chiesa. […] Allo stesso modo, ogni anima fedele può essere intesa, secondo il suo modo proprio, come sposa del Verbo di Dio, come madre e figlia e sorella di Cristo (cf. Mt 15,20), come al contempo vergine e feconda». (Sermone 51,7-8)
Questo lavoro di “generazione del Cristo”, questo farlo nascere nelle persone, vocazione di ogni discepolo, avviene nel “deserto”, immagine che in modo molto appropriato indica questo nostro mondo, con insieme un’allusione all’intera vita letta come traversata del deserto, al modo degli ebrei dell’Esodo, verso la patria del cielo, dove Maria è già arrivata in corpo e anima.
Festa della vita
È lì che punta lo sguardo Paolo nell’Epistola (1Cor 15,20-27a), una pagina poderosa che è un canto di vittoria, anche se espresso in un linguaggio molto diverso da quello dell’Apocalisse. Di nuovo lo scontro è tra morte e vita, tra il primo Adamo, «nel quale tutti muoiono», e il secondo Adamo, Cristo, nel quale «tutti riceveranno la vita». Tutte le forze del male, incarnate nel drago della visione, saranno «ridotte al nulla», e «l’ultimo nemico ad essere annientato (cioè, ridotto a “niente”!) sarà la morte».
Mi chiedo se, invece di inventarne una allo scopo, non sia il caso di celebrare l’Assunta come “festa della vita”. A mettere insieme tutto questo discorso ci pensa Giuliana di Norwich in un passo mirabile in cui collega la caduta del primo Adamo con quella del secondo, Gesù, nel grembo di Maria. In una parabola dal fascino straordinario, in cui spiega come mai, nonostante il peccato, lei non abbia visto alcuna condanna sul volto con cui Dio ci guarda, scrive:
«Quando Adamo cadde anche il Figlio di Dio cadde. Per la vera unione che fu fatta in cielo, il Figlio di Dio non può essere separato da Adamo, e con Adamo intendo ogni uomo. Adamo cadde dalla vita nella morte, nell’abisso di questo misero mondo, e dopo ciò negli inferi. Il Figlio di Dio cadde con Adamo nell’abisso del ventre della Vergine, che era la più bella tra le figlie di Adamo, e questo per togliere da Adamo la condanna sia in cielo che in terra; e con potenza lo strappò fuori dall’inferno». (Una rivelazione dell’amore, cap. 51, p. 249)
Come canta la liturgia pasquale, per cui la morte di Gesù sconfigge la nostra, così qui la caduta dell’umanità nel peccato è riscattata dalla caduta del Figlio di Dio nella nostra carne (cf. Fil 2,7: Cristo «svuotò» se stesso). Il risultato è fantastico: per il miracolo dell’incarnazione, compiuto nel ventre di Maria, il volto di Adamo e quello di Cristo si intersecano e si sovrappongono, e Dio non può più condannarci, come canta ancora Paolo in Rm 8,31-34, e neanche può condannare il cosmo, poiché la “liberazione” dal nulla della morte riguarderà tutto il creato (Rm 8,21-22). L’Assunta ci apre lo sguardo su questa visione di speranza: oggi celebriamo la gioia della vita che vince.
Oltre il visibile
Il passaggio alle pagine del Vangelo (Lc 1,39-56) sembra, a prima vista, un rimpicciolirsi della visione. In fondo si tratta di due donne felici, che si esaltano a vicenda del fatto di diventare madri in modi straordinari e inaspettati. Ma il segreto sta nel riuscire a leggere il macro nel micro, che è la nostra misura reale, o, per rimanere nella metafora di cui si diceva all’inizio, nel guardare alle “nubi” per capire bene dove mettere i “piedi”, cercando di cogliere nel cielo quanto serve a illuminare la terra, e viceversa, naturalmente.
Ora, quanto avviene sui monti della Giudea, è in sé minuscolo, ma contiene una forza capace di trasformare il mondo, un potere in grado di contrastare le forze di morte che minacciano la nostra esistenza. Quello che le due donne celebrano è pure a nostra disposizione: credere alle promesse di Dio, vedere oltre il visibile (cf. Eb 11,27), sperare contro ogni speranza (cf. Rm 4,18) e, alla fine, cantare la misericordia del Signore che si estende «di generazione in generazione», da Abramo fino a tutta la sua discendenza, fino a ciascuno di noi. Qui si ricollega tutto.
Nel Magnificat, che cantiamo al termine di ogni giornata, c’è la sintesi della storia come la vede il Signore, come scorre nelle sue mani, una storia dove a vincere sono i piccoli e i deboli, mentre le forze dell’arroganza e del potere che opprime sono condannate a estinguersi. Non sempre è facile vedere che le cose stanno davvero così, ma che almeno nella preghiera e nella contemplazione riusciamo a trovare quegli spiragli di misericordia da dove ci sorride il volto di Dio.
R.S. Thomas ha paragonato i due momenti che possono indicare lo stato d’animo con cui ci rivolgiamo a Dio ai due moti della marea, e scrive: «La disperazione / sia la mia bassa marea; ma la preghiera / abbia pure le sue sorgenti, traboccanti, che lo disarmino; scoprendo da qualche parte / tra le sue fessure depositi di misericordia / dove la fiducia possa mettere radici e crescere». (Thomas, Il senso è nell’attesa, Àncora, Milano 2010, p. 143)