La festa dell’Assunta interrompe quest’anno la lettura del discorso sul “pane di vita” nel sesto capitolo di Giovanni. A ben guardare, però, si può fare un collegamento tra il discorso e le letture della festa.
Si è detto che la struttura tematica e organizzativa del quarto vangelo è fondamentalmente basata sul contrasto, sarebbe meglio dire sulla lotta tra la luce e le tenebre. Ora, la scena illustrata nella prima lettura (Ap 11,19a; 12,1-6a.10,a-b) descrive con il tipico linguaggio apocalittico lo stesso dramma, la stessa guerra. Il parallelismo ha una sua evidenza, ed è difficile negarlo.
Nella scena che fa come da contrappunto nel brano evangelico (Lc 1,39-56), invece, sembra regnare un’atmosfera decisamente opposta: due donne si incontrano per celebrare nella gioia le loro maternità insperate.
A complemento, la seconda lettura (1Cor 15,20-27a) celebra la vittoria sull’ultima nemica, la morte, di cui l’Assunzione di Maria è segno e promessa. Il tragitto che ci si presenta è esaltante e carica la nostra fede di speranza.
Due forze contrapposte
Il brano dell’Apocalisse vede due forze antitetiche in lotta. Lo sfondo è il “cielo”, in che sta a dire che quanto avviene ha una dimensione cosmica.
Per cominciare, in esso appare «nel tempio l’arca della sua alleanza», quella “nuova” e definitiva, e già questo significa che il tempio sulla terra è superato, che Gesù è il nuovo tempio (cf. Gv 2,19) il quale riprende e porta a compimento la figura del primo.
Appaiono poi, di seguito, i due protagonisti della lotta che seguirà: il primo è descritto come un segno grandioso, «una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul capo una corona di dodici stelle». Tutto qui ha un senso, a partire dal fatto di avere la luna sotto i piedi; essendo la luna per antonomasia il simbolo della mutabilità, questo significa che questa figura si trova nella stabilità del paradiso, il regno delle “stelle” che le fanno corona in numero simbolico.
A questa si contrappone una figura di segno totalmente opposto, quella di un «enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi: la sua coda trascinava un terzo del cielo e la precipitava sulla terra».
Tanto è sobria la donna vestita di sole, altrettanto è farraginoso, goffo e confuso il drago rosso. Anche qui tornano numeri simbolici: sette, dieci, ancora sette, una mostruosità che però e ridotta dall’effetto parziale della “coda”, che trascina solo “un terzo” delle stelle del cielo: sono forse gli angeli ribelli?
Va da sé che questa, come altre descrizioni, abbiano fatto la gioia dei miniaturisti delle tante splendide “Apocalissi” che proliferarono nei secoli medievali.
Dalla descrizione dei due protagonisti si passa poi al racconto del loro scontro. La donna sta per partorire, il che la mette in una condizione di debolezza, e questo perché il drago che le si contrappone sia in grado di divorare il bambino non appena venga alla luce.
Ma qui c’è la sorpresa: il suo figlio maschio, «destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro», viene «rapito verso Dio e verso il suo trono»; la donna, invece, fugge verso il deserto, «dove Dio le aveva preparato un rifugio».
Sono indicati qui da subito il destino glorioso di quel maschio partorito dalla donna, fino alla sua ascensione al cielo, mentre alla donna viene offerto un rifugio dove trascorrere il tempo sulla terra, lottando per difendersi dal drago fino ad essere assunta essa stessa alla vita celeste.
Si sarà già capito che, dietro questo linguaggio metaforico, sono da intendere sia Maria che la Chiesa, sia colei che ha generato Gesù, sia quel “corpo” che continua a generarlo.
L’Apocalisse supera i confini della storia e, per dire la certezza che questo avverrà, ne parla usando il passato come di cosa già avvenuta, secondo un principio ben noto usato nel linguaggio profetico e apocalittico.
Un grido di trionfo
Morte e risurrezione sono il grido di trionfo che risuona in 1Cor 15. Si può partire dalla fine, dove è detto che «l’ultimo nemico a essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi». In questa luce assume pieno significato la raffigurazione che presenta l’Immacolata e l’Assunta “sopra” la luna, calpestando il “serpente” e la morte da lui introdotta nel mondo.
Il resto non ha bisogno di grandi commenti talmente è chiaro nelle sue affermazioni: se «in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita». In questa folla ci auguriamo di trovarci anche noi, con e dietro al Risorto che è la «primizia di coloro che sono morti».
La sintesi si trova tutta nell’aggressività di quel grido di trionfo di 1Cor 15, 55: «Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?».
1Cor 15 è stato letteralmente saccheggiato da Händel per comporre il suo Messia: ne ha tratto ben quattordici numeri tra arie, duetti e cori! L’ha usato pure Brahms nel Requiem tedesco, che se ne serve per il n. 6 (1Cor 15,51-52.54-55).
Ma la versione più poderosa che mi viene alla mente è quella fornita dal poeta inglese John Donne (1572-1631) in uno dei suoi splendidi Sonetti sacri, in cui arringa la morte con tono di sfida: «O non vantarti, o morte, anche se sei chiamata / potente e spaventosa, perché non sei così. / Quelli che pensi di distruggere, / non muoiono, povera morte, e ora tu farmi morir non puoi». Elenca poi, giocando sul paradosso, tutti i casi in cui la morte è una liberazione, o è comunque schiava del fato, del caso, di potenti e di persone disperate. E conclude: «Incantesimi e droghe ci fanno pure dormir bene, / e anche meglio dei tuoi colpi, perché allora ti esalti? / Un breve sonno e poi, sarem svegli in eterno / e morte svanirà. Morte morrai».
Gioia e fede nell’incontro di due madri
Nel vangelo avviene un “tonfo retorico”: Dalle grandi visioni apocalittiche, e dalla proclamazione del kerygma della risurrezione, ci troviamo all’improvviso sulle montagne di Giuda, dove assistiamo all’incontro tra due donne, che hanno ricevuto il dono di una maternità insperata per l’una e imprevista per l’altra (Lc 1,39-56). La delicatezza dell’incontro, che avvolge il mistero della maternità, è suprema, e risplende soprattutto nelle parole di Elisabetta prima, e nel cantico di Maria poi.
Cominciamo col notare la “fretta” di Maria, segno della sua sollecitudine nell’andare ad aiutare la cugina; la stessa fretta che segnerà i pastori i quali vanno a constatare l’evento annunciato dagli angeli; la stessa fretta che prenderà Zaccheo, commosso dall’invito di Gesù.
Il resto del brano è un rintoccare di benedizioni in un’esplosione fluviale di straripante gratitudine. Elisabetta benedice Maria e il frutto del suo grembo, vede la visita della cugina come una benedizione, nella quale aggrega il figlio che porta in grembo, che sussulta di gioia quasi partecipando alla sua felicità. E, alla fine, la “beatitudine” è proclamata per colei che «ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto».
La risposta è il mirabile canto del Magnificat, in cui possiamo vedere tre momenti. Anzitutto la gratitudine per essere stata oggetto dello sguardo del Signore, per le grandi cose fatte da Dio per lei, e per tutte le generazioni. Bisognerebbe ascoltare cosa fa Bach nel suo Magnificat di questo versetto, dove la parola “omnes” (tutte) viene martellata e gioiosamente ripetuta fino a diventare un’onda irresistibile e travolgente di folle che non è difficile visualizzare.
Poi viene il corpo centrale che canta i paradossi del comportamento di Dio verso quelli che “lo temono”: i superbi vanno in confusione, i potenti vengono deposti dai troni, mentre gli umili sono esaltati; gli affamati sono ricolmati di beni, mentre i ricchi sono mandati via a mani vuote.
Un versetto conclusivo raccoglie tutti i temi sopra esposti, come l’ultimo tempo di certe sinfonie: la “misericordia”, anzitutto, che comprende anche i rovesciamenti di situazione appena visti, un sentimento così radicato in Dio che da Abramo si estende a tutta «la sua discendenza per sempre».
Dopo questo incontro tra le due donne, visto come una parentesi luminosa nelle vicende del mondo, come un preludio centrato sulla “donna vestita di sole”, con estrema naturalezza Luca ritorna all’ordinarietà da cui era partito.
Vorrei concludere questa riflessione con una poesia dell’inglese Elizabeth Jennings dedicata alla Visitazione che, in qualche modo, intreccia e riconcilia le due visioni della prima e della terza lettura. La poetessa cerca di immaginare cosa passasse nella testa di Maria mentre percorreva la strada che la stava portando da Nazaret al villaggio di Elisabetta, oscillando tra la gioia dell’annunciazione e il timore suscitato in lei dal pensiero di ciò che avrebbe potuto comportare il suo essersi affidata totalmente al Signore come sua “serva”.
Così inizia: «Non aveva trattenuto abbastanza il suo segreto / da ingolosirsene, ma voleva condividerlo come se / il dirlo avrebbe addomesticato il momento terrificante / quando lei, calmissima nel suo meriggio, sentì l’angelo intrepido, udì / il suo battito d’ali, e la voce di lui nella sua preghiera». Tutto è detto, con l’angelo che «portava pena mascherata di gioia», quella legata «a un bambino che era spuntato in lei come il primo dei semi». Nel “meriggio” è come se il tempo si fermasse, e lei «non sembrava una figura ansiosa, / solo un silenzio che si muoveva nella campagna».
Versi spettacolosi! Questa oscillazione tra una nascita che «mette in ombra l’ombra dell’angelo» si scioglie «vicino alla casa della cugina dove ella mantenne / solo il messaggio della sua felicità». E le due donne «nel loro rapido abbraccio / si fissavano l’una l’altra con sguardi non disturbati da uomini o miracoli. Fu il bambino a / proiettare la sua ombra sul loro meriggio con il suo muoversi improvviso, riportando / vasti echi di quel battere d’ali» (E. Jennings, La danza nel cuore delle cose, Àncora 2007, p. 51).
Quale bambino, Giovanni o Gesù? Penso ambedue, l’uno profezia dell’altro. La vittoria sul male ha richiesto il prezzo del martirio, ma la gioia è che alla fine “la morte sarà sconfitta”!