Se nell’Epifania abbiamo celebrato la manifestazione di Gesù alle genti come “pastore del popolo di Israele”, potremmo dire che, nel battesimo, Gesù vive anzitutto una sua “epifania” personale: riceve dal cielo una dichiarazione che è insieme, e forse soprattutto, una “vocazione”. Prende coscienza di chi è e, insieme e di conseguenza, di cosa è chiamato a fare, o, se vogliamo, di quale deve essere la sua vita, la sua “missione”.
Questi temi sono sparsi in tutte e tre le letture, che espongono in sequenza, se vogliamo rispettare la cronologia, anzitutto la profezia dell’apparizione di un “servo di Dio” (prima lettura), poi la sua realizzazione che si rivela nel “battesimo/vocazione di Gesù” (vangelo) e, infine, illustrano come questo diventa una “missione” che si manifesta nel modo in cui Gesù interpreta la sua vita. In questa chiamata/missione ritroviamo lo schema di riferimento sul quale costruire la nostra vita di discepoli.
Il servo di Dio
Il testo di Isaia (42,1-4.6-7) è cruciale, e potrebbe bastare da solo a coprire il tempo di un’omelia. Tutto ciò che segue nelle altre due letture ne dipende e ne viene condizionato.
Le profezie lanciano il loro sguardo verso il futuro, sono “sogni” che proiettano una speranza annunciata spesso in situazioni di desolazione e di malessere. Questo futuro si fa presente quando accade che, almeno qualcuna delle promesse meravigliose destinate a ridare fiato a gente che rischia di perdere, per stanchezza, la speranza che li sosteneva, appare realizzarsi in un evento o, ancora meglio, in una persona concreta che le incarna. Questo dev’essere accaduto ai discepoli man mano che la loro vita insieme a Gesù rivelava loro chi davvero si nascondeva dietro e, meglio, “dentro” il rabbi che veniva da Nazaret.
Fu allora che, soprattutto dopo il fallimento rovinoso della passione, riscattato in seguito dalla grande luce della risurrezione, scoprirono in alcuni testi di Isaia le immagini adatte a dare alla figura di Gesù i tratti che le appartenevano in proprio.
Questi testi sono quattro, e vengono chiamati i “canti del servo”, perché è proprio questa figura, presentata oggi dal primo dei quattro, che li introduce e insieme li riassume tutti, fino all’ultimo e al più impressionante (Is 52,13-53,12), che ascolteremo nella Settimana Santa. Colui che dirà «il Figlio dell’uomo non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mt 20,28; Mc 10,45) è la perfetta risposta alla profezia che lo annunciava così: «Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio».
È probabile che, proprio nel momento del battesimo, Gesù abbia preso coscienza piena della sua vocazione, e forse anche che su questo si sia confidato con i discepoli. Comunque è chiaro che la fede dei discepoli, manifestatasi dapprima nella predicazione e fissata poi nella forma nei vangeli scritti, ha deciso che questo evento, così come quello delle tentazioni che lo segue, andava collocato al “principio” del racconto, perché da qui sarebbero partite le due traiettorie sui cui binari si sarebbe svolta tutta la vita di Gesù: la vocazione a vivere da “servo” e la tentazione di trasformarsi in “padrone”. Tutto comincia da lì, per Gesù e per noi.
Circa l’elenco di qualità che caratterizzano il servo, mi pare che possano essere concentrate in due atteggiamenti fondamentali: la mitezza e la fermezza.
A prima vista pare si tratti di una contrapposizione inconciliabile, in realtà sono due virtù che stanno, e devono stare, benissimo assieme. Non bisogna infatti confondere la mitezza con la rassegnazione bonacciona, e la fermezza non equivale affatto all’arroganza strafottente. Basta fare attenzione alle immagini che le descrivono.
Per la mitezza, «non griderà nelle piazze, non spezzerà la canna incrinata e non spegnerà lo stoppino dalla fiamma smorta», perfettamente riprese da Mt 12,18-21, che le applica a Gesù.
E, quanto alla fermezza, «proclamerà il diritto con verità; non verrà meno e non si abbatterà finché non avrà stabilito il diritto sulla terra»: operare con coraggio a servizio della verità e del diritto si chiama “determinazione”, che si rovescia in “ostinazione” quando si lavora per cause sbagliate, o per propagandare falsità.
È il Signore che chiama “per la giustizia”, ci “prende per mano e ci forma” (si ricordi la bella metafora delle mani del vasaio applicata a Dio, che fa pensare alla delicatezza di una mamma che ha cura di accarezzare, incoraggiare, sostenere e consolare il suo bambino).
Chi può si vada a leggere le belle pagine che ha scritto Giuliana di Norwich su questa figura di Gesù in Una rivelazione dell’amore, c. 63, p. 284, su Gesù nostra Madre, e c. 61, p. 280-281, sulla Chiesa che è nostra madre sulla falsariga di Cristo.
Una potenza risanatrice
La scelta di Gesù di farsi battezzare da Giovanni, pur non avendone bisogno, fa parte della sua collocazione nella logica della mitezza. Come è scritto: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio» (2Cor 5,21).
Credo possa essere questo il senso della necessità di “adempiere ogni giustizia”. Il piano della salvezza voluto da Dio comprende il riconoscimento del proprio peccato e la necessità di passare dal “battesimo”, inteso come scrive Pietro, come «invocazione di salvezza rivolta a Dio da parte di una buona coscienza» (1Pt 3,21). Gesù vi si sottopone per essere anche in questo un modello per noi. Giovanni si trova in difficoltà davanti a questo “abbassamento”, così come rivelerà più avanti il brano di vangelo letto nella 3ª d’Avvento (Mt 11,2-11), in cui Gesù gli si presenta non come un giustiziere spietato, ma come medico compassionevole.
Il risultato del battesimo di Gesù è straordinario: si “aprono i cieli”, che il peccato dell’umanità aveva rinchiuso e che rinchiude ogni volta che un peccato viene commesso; lo Spirito (il fiato) di Dio torna a soffiare sulla terra; e torna ad abitare nei nostri spazi angusti la “colomba” che porta amore e pace, la stessa che, al tempo del diluvio, diede il segno che il tempo della punizione era terminato. È chiaro, dunque, che il battesimo di Gesù non riguarda solo lui, ma per l’unione che dalla sua nascita si è creata tra lui e noi («è venuto tra noi, con noi, per noi», scrive san Bernardo) diventa efficace per chiunque aderisce a lui e si mette alla sua scuola.
Questo è il messaggio che ci arriva dalla prima comunità cristiana, come sappiamo dalla seconda lettura della liturgia odierna (At 10,34-38). Pietro ha visto ripetersi nella casa di un pagano il miracolo della Pentecoste. Ha capito che «Dio non fa preferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga». E su questo fatto annuncia che, per mezzo di Cristo, che è «il Signore di tutti», è arrivata la pace.
In cosa consiste questa “pace” piena e offerta all’intera umanità? Consiste in ciò che si è visibilmente materializzato in Gesù a partire dal suo battesimo, quando «Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazaret, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui». Potenza risanatrice in Gesù contro il potere schiavizzante del diavolo; potenza liberante del “servizio” contro il potere dominante dell’egoismo diabolico: ecco il senso del battesimo, nel quale noi veniamo “immersi” in Gesù.
Anche se oggi il battesimo per immersione è praticamente scomparso, non dobbiamo mai dimenticare la forza dilagante dell’immagine molto nota dell’ichthús (pesce) che, nei primi tempi della Chiesa, era il segno distintivo dei cristiani, la più concisa confessione di fede, le cui lettere dell’alfabeto greco formavano l’anagramma che significava Iesus Christus Dei Filius salvator, “Gesù Cristo figlio di Dio salvatore”.
Ha scritto Tertulliano, riproponendo la metafora: «Noi siamo tutti pesciolini a imitazione del nostro pesce Gesù Cristo, e non possiamo essere salvi se non rimanendo nell’acqua» (Sul battesimo I,1).
Il segno della croce
La vita cristiana si gioca tutta in questo saper “rimanere” nell’acqua del battesimo che ci ha rigenerati come figli di Dio: fuori da lì, come pesci, siamo condannati a morte. Ricordiamo tutti come, nel discorso di Gesù nell’ultima cena, ricorre spesso proprio il verbo rimanere: nella sua parola, nel suo amore, in lui, perché è lui che si è descritto come «fonte di acqua viva».
Che peccato quando il battesimo viene ridotto a una “cerimonia” simile a un’iscrizione all’anagrafe cristiana, una formalità da sbrigare, un avvenimento che ritorna alla mente se e quando si ha bisogno di un certificato! Papa Francesco ama ricordare che ognuno dovrebbe conoscere e ricordare il giorno del suo battesimo, e far festa in quell’anniversario ancor più che al compleanno.
Qualcuno si chiederà “come?”. Il gesto più semplice è il segno della croce, perché, nel nome della Trinità e della morte e risurrezione di Cristo, siamo rinati a vita nuova.
A proposito, fa ancora più pena quando si vede che questo segno, per abitudine, per distrazione, per sbadataggine, si riduce a un gesto che sembra più un tentativo di cacciare una mosca fastidiosa. Il problema è sempre quello: ricordare che la liturgia, le sue parole, i suoi segni, sono sempre una scuola che educa e nutre la fede. Purché parole e segni vengano spiegati e se ne ricordi il significato di tanto in tanto, e si preghi o canti sopra.
Ricordo uno splendido inno di Patrice de la Tour du Pin che dice: «Amore che oggi discendi, / vieni e scuoti le acque sepolte / dei nostri battesimi, / che dalla morte di Gesù Cristo / ci fan risorgere nella sua vita: / Tutto è Amore in chi è Amore» (Internet: Amour qui planais sur les eaux).
Agitare le acque del battesimo significa risvegliare in noi la mitezza e la fermezza che ci ha insegnato Gesù con la sua vita. Questo è il “potere buono”, che permette a noi, come a Gesù, di «beneficare e risanare tutti coloro che stanno sotto il potere antagonista del diavolo».