«Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, Signore, che il Signore cammini in mezzo a noi» (Es 34,9): questa era la preghiera che Mosè fece al Signore dopo che gli era apparso, come si è ascoltato nella prima Lettura di domenica scorsa. Il Corpus Domini sembra tradurre alla lettera, nella processione che traversa città e villaggi, proprio la realizzazione di questa immagine: il sacramento è portato in strada!
La festa, nata in Belgio a metà Duecento, fu estesa a tutta la Chiesa nel 1264, ed è legata a un tempo in cui serpeggiavano idee eretiche circa la verità della presenza reale di Gesù nell’eucaristia. Proprio in quanto dispiegamento pubblico di una fede, vistosamente visualizzata nella processione, la festa ebbe anche ricadute non sempre positive, assumendo toni trionfali sia per la Chiesa sia per la città, che coglievano l’occasione per dispiegare in tutta la loro gloria i vari ordini, ruoli, aggregazioni che ne manifestano tutta la grandiosa organizzazione.
Quelli della mia generazione ricorderanno certo i congressi eucaristici diocesani e nazionali degli anni Quaranta e Cinquanta, con gli inni composti per l’occasione che rimanevano poi nel patrimonio liturgico per anni.
Alla fine si rischiava di dimenticare come tutto aveva avuto origine in quella che è nota come “ultima Cena”, celebrata in ben altra atmosfera! È ben vero che la processione seguiva la messa, ma è altrettanto vero che questa sembrava più un preludio, oscurata com’era dalla spettacolare “rappresentazione” successiva.
Non è mia intenzione criticare i secoli in cui la “pietà eucaristica” trovò un enorme sviluppo, con indubbi benefici, anche al di là e al di fuori della messa. Peraltro, il Vaticano II, con la riforma liturgica, non ha né soppresso la festa né cancellato la tradizione delle processioni e dei congressi eucaristici: solo ha inteso restaurare un equilibrio tra la “mensa” e la “strada”, rimettendo al centro la prima, come era necessario, in quanto fonte e modello del nostro stile di vita, ma affermando, nel contempo, la necessità di portare l’esperienza dell’eucaristia nella quotidianità della strada.
Questo non tanto, e certamente non solo, in un rito processionale, ma piuttosto in quello spazio che noi chiamiamo “mondo” e nel quale viviamo abitualmente, per essere lì quella “Chiesa del grembiule”, per usare una metafora ben nota, già preconizzata del resto nel “sacramento della lavanda dei piedi” (Gv 13,1-15). Come si usa dire: la messa comincia quando finisce!
Camminare nel deserto
La prima lettura (Dt 8,2-3.14b-16a) proietta il nostro sguardo su un paesaggio che è stato spesso letto nella teologia spirituale come immagine della condizione umana: il deserto! È vero, all’inizio Dio aveva creato un “giardino”, dove aveva posto l’uomo perché «lo coltivasse e lo custodisse» (Gen 2, 15), ma la colpa aveva trasformato l’Eden in un deserto, una «terra arida, assetata, senz’acqua» (Sal 62,2), e questo è il nostro mondo, almeno temporaneamente, perché questa non è la nostra patria vera, «non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura» (Eb 13,14).
Qui, il nostro percorso è un “camminare nel deserto”, e nel brano letto oggi, il Deuteronomio ci rimanda all’esperienza dell’Esodo, diventa, per Israele e per noi, l’eterno paradigma alla luce del quale leggere la nostra quotidianità. Perché l’immagine funzioni è necessario anzitutto “ricordare” e “non dimenticare”: fare memoria del passato è condizione imprescindibile per leggere e capire il presente, e muoversi di conseguenza.
La fede non cresce da sola, va educata e curata, e in questa operazione la memoria è cruciale: non so quanti ne sono consapevoli, non so quanti, quando si muovono per andare a messa, sono coscienti che lì si va anzitutto a rinfrescare la memoria!
Il messaggio di oggi ci dice con chiarezza che Dio non abbandona il suo popolo nel deserto, ma si preoccupa di nutrirlo e di dissetarlo. Ci dice anche – e la cosa non è di poco conto – che la fame e la sete, quella fisica e quella spirituale, sono esperienze che Dio ci lascia fare per «metterci alla prova, per sapere quello che abbiamo nel cuore, se avremmo osservato o no i suoi comandi».
È un luogo comune dire che ci si ricorda di Dio quando siamo nei guai; quando le cose vanno bene, è facile che il suo ricordo sparisca dalla nostra memoria. È per questo che fame e sete rimandano a un’altra esperienza, che si colloca a un livello più alto o più profondo. Sarà quello che Gesù ricorda nel cuore delle sue tentazioni: «non di solo pane vive l’uomo, ma di quanto esce dalla bocca del Signore», e che, come fa capire alla donna di Samaria, c’è un’altra sete che può essere dissetata soltanto da una «fonte di acqua viva» (Gv 4,13-14). La liturgia nutre quest’altra fame e quest’altra sete.
La “memoria della fede”
Questo sviluppo è il tema della seconda Lettura (1Cor 10, 16-17). Perché pane e acqua, diventati con la benedizione corpo e sangue di Cristo, ci fanno un tutt’uno con lui! Leone Magno lo dice con chiarezza e senza alcun ritegno: «Colui che venera nella verità la passione del Signore guardi con gli occhi del cuore Gesù crocifisso in modo da riconoscere in quel corpo la propria carne» (Sermone 15 sulla Passione, 3). E questo non basta. Perché nutrendoci di quell’unico pane, «noi siamo, benché molti, un solo corpo». Torna il richiamo alla dimensione “trinitaria” delle relazioni.
È vero che le grandi processioni del Corpus Domini dispiegavano in tutta la sua bellezza la variopinta articolazione del quel “corpo di Cristo” che è la Chiesa, ma resta la necessità di trasferire tale organizzazione nella molteplicità di “servizi” tutti tesi all’utilità comune.
La liturgia, fortunatamente, ha conservato una delle più belle sequenze nate attorno alla festa nelle sue origini, preziosa reliquia dell’Ufficio composto da Tommaso d’Aquino, il Lauda Sion, in quel latino chiaro, lineare, di una chiarezza cristallina, tipico della teologia del Dottore Angelico.
L’ho riascoltato nella versione magnifica di Felix Mendelssohn Bartholdy, ma poi ho anche voluto sentire la melodia popolare composta da Federico Caudana nel 1927, nota e cantata in tutte le parrocchie, che in un crescendo poderoso esplodeva nel Christus vincit, aggiunto dal musicista torinese, che dava davvero la sensazione di essere «benché molti, un solo corpo», grazie anche, credo, al contributo della banda, ingrediente imprescindibile della processione.
Mi sono commosso, riascoltando, grazie a Internet, queste musiche, che fanno ancora da sottofondo alle memorie della mia infanzia e adolescenza, della mia “esperienza” di Chiesa. Certo, la fede non può vivere di nostalgia, ma mi chiedo se la presente generazione troverà un suo “linguaggio” tale da costituire una “memoria della fede” capace di tenere vive emozioni buone, che non sono un dettaglio trascurabile.
Pane di risurrezione
Il vangelo (Gv 6,51-58) non è la registrazione di un “trionfo”, ma costituisce piuttosto un momento di grave crisi nel rapporto tra Gesù e la folla. Giovanni colloca l’incomprensione e la protesta in bocca ai “giudei”, che nel quarto vangelo rappresentano una categoria sistematicamente antagonista, quasi un emblema di quelle “tenebre” di cui parla il Prologo, che tentano di soffocare Gesù senza peraltro riuscirci (Gv 1,5).
Il punto in questione è l’affermazione di Gesù: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». Tutta la parte che segue serve a spiegare cosa significa “mangiare la carne e bere il sangue di Gesù”. Dopo la dichiarazione iniziale, quella che suscita la polemica, Gesù la ripete altre sei volte sia nella forma positiva che negativa!
- È condizione per “avere la vita”,
- quella “eterna grazie alla risurrezione”, perché è
- “vero cibo e vera bevanda”,
- modo per “rimanere in lui e lui in noi”, così che noi si possa
- “vivere per lui, come lui vive per il Padre”,
- è “pane celeste” che, per la sua origine, supera la mortalità, non come la manna del deserto che ne era solo la figura, e che non era in grado di vincere la morte.
Si noterà come tutte queste affermazioni, in un modo o in un altro, ruotano attorno all’immagine della vita. Il paradosso è che, per averla, bisogna nutrirla con la “carne”, termine che indica fragilità, debolezza, mortalità.
Ma ciò che fa la differenza è che quella carne destinata a nutrire la vita, è la carne di Gesù, che è certo nella sua origine una carne come la nostra, ma è anche quella dove è venuto ad abitare il Verbo, il Figlio di Dio, è la carne “risorta”, trasfigurata, gloriosa, che diventa per noi, se la “mangiamo”, una identica forza di risurrezione, una forza che non è solo di là da venire, ma che agisce già qui sulla terra, dove ci è chiesto di vivere “da risorti”.
Un brano del poeta Patrice de la Tour du Pin, autore di molti testi ispirati dalla liturgia, di cui alcuni utilizzati ora nella Liturgia delle Ore, esprime molto bene l’idea di come nella risurrezione il “tutto” della vita, quella della carne come quella dello spirito, è ricuperato e trasfigurato.
Ecco un estratto di una sua Azione di grazie: «Sì, Signore, noi possiamo ringraziarti / in nome dell’uomo tutto intero, per l’era nuova / che tu apri al corso dei secoli / grazie alla morte e alla risurrezione di Gesù. […] È in lui, nella sua viva energia, / che noi possiamo chiamarti nostro Padre, / benedirti per la tua opera / e tutti gli stadi in cui la crei, / ringraziarti per la nuova alleanza / che egli ci offre perché la estendiamo e la moltiplichiamo / con lui in tutto l’universo. /Perché egli ha fatto sgorgare fonti di vita per te / sul rovescio mortale dell’esistenza, / e ha dato alle gioie della terra / lo stesso estuario e lo stesso senso; / tutto ciò che tendeva a disunirsi, / egli l’ha riconcentrato in sé, / come era fin dagli inizi / colui nel quale tutto ha la sua nascita / e nel quale tutto sussiste nel fluire dei tempi» (Concert eucharistique, “Concert des fleuves”, IV, Desclée, Paris 1972, p. 76-78).
Mangiare il corpo e bere il sangue di Gesù, dunque, significa ricentrare la vita secondo Ef 1,10, così che i rivoli del quotidiano non si disperdano, ma confluiscano in un “estuario”!