C’è un aspetto “fisico” della fede? Non so se e quanto spesso ci facciamo qualche volta tale domanda, ma il titolo stesso di questa solennità porta a pensare il problema.
Si sa che la festa del Corpus Domini nacque nel medioevo per marcare la “realtà” della presenza di Cristo nell’eucaristia. La festa, dopo precedenti celebrazioni in Belgio, e precisamente a Liegi, fu estesa da Urbano IV a tutta la Chiesa nel 1264, anche a seguito del miracolo di Bolsena, dove un prete boemo in pellegrinaggio verso Roma, durante la celebrazione della messa, al momento della consacrazione fu preso dal dubbio sulla presenza reale del Signore nell’ostia, e in risposta vide gocce di sangue che uscivano da questa fino a macchiare il corporale. La reliquia è ora conservata nel duomo di Orvieto.
Là, nel convento domenicano, risiedeva Tommaso d’Aquino, che ricevette dal papa l’incarico di comporre l’ufficio per la solennità, cosa che il santo fece egregiamente, con testi come il Pange Lingua che, nell’originale latino, dominò per secoli fino a tempi recenti nella pietà cristiana.
La celebrazione assunse presto un aspetto “pubblico” dominante, come era richiesto dalla necessità di rispondere a un’eresia che rischiava di contagiare tutto il popolo cristiano. Come l’adorazione eucaristica divenne una devozione dominante nella Chiesa, così la solenne processione caratterizzò fino ai nostri giorni la festa, ed è tuttora in voga, per non parlare dei ricorrenti congressi eucaristici, diocesani, nazionali e internazionali che hanno ancora oggi una vasta eco.
Non mi sembra il caso di rimettere in discussione quello che, durante il Concilio, sembrò uno squilibrio per il quale passava in secondo piano il senso della messa, che era intesa come un “assistere” alla celebrazione (cosa incoraggiata anche dal perdurare del latino nella liturgia), e manteneva l’attenzione principale sul “tabernacolo”.
Tutti sanno che l’equilibrio, favorito anche dal passaggio all’uso delle lingue vive, consistette in un cambio verbale per cui alla messa si “partecipa”, non solo si ascolta e, in un mutamento logistico, per cui il centro della celebrazione diventa la “mensa”, riportata il più possibile alla nudità originaria.
Il sacrificio come linguaggio fisico dell’amore
Detto questo, sono stato colpito dal titolo stesso della solennità, dove si parla esplicitamente di “corpo” e di “sangue”.
Il problema mi si è presentato in maniera acuta davanti alla prima lettura (Es 24,3-8), dove si parla di olocausti, sacrifici di giovenchi che producono un tale straripare di “sangue” che Mosè ne raccoglie in catini, che si suppongono numerosi, per versarne una metà sull’altare, mentre usa l’altra metà per aspergere il popolo, che si pensa sia una folla non certo piccola.
Questa idea del “sacrificio” come un modo di offrire a Dio ciò che primariamente appartiene a lui, pare sia presente in tutte le religioni, e ha in sé un significato profondo, principalmente perché dire sangue significa dire vita: non per niente si dice che uno è morto “dissanguato”.
Il percorso che vorrei indicare segue proprio questa identificazione, che va nella direzione di una “spiritualizzazione” della realtà fisica, non nel senso di ridurla a vapore acqueo, come purtroppo capita ogni volta che si usa l’aggettivo “spirituale” ma, al contrario, per coglierne il significato vero e profondo, che esprimo in una felice forma scoperta nel titolo di un articolo di un teologo americano sul matrimonio, che recita: “Il sacrificio come linguaggio fisico dell’amore”.
Si sa che in tutte le antiche religioni questa prassi si è affermata mediante il sacrificio di ciò che nella vita è più prezioso: un bambino, un giovane, una vergine e, nel caso più alto, il proprio figlio.
Da qui parte il percorso e, non a caso, la Bibbia ci offre l’esempio di Abramo e Isacco (Gen 22,1-19). Quell’episodio, però, fa fare un primo passo avanti, che salva l’idea del sacrificio come offerta, ma suggerisce la possibilità di trasferire sugli animali la materia del medesimo. Ci si priva di qualche cosa, ma si sacrificano vite che sono meno importanti.
E qui siamo al caso di Mosè presentato nella prima lettura, dove il sacrificio di giovenchi porta già velatamente al dono di sé, perché esso è fatto in connessione con il rinnovo dell’alleanza, mediante la quale il popolo promette di ascoltare e di eseguire tutti i comandamenti di Dio. Purtroppo tale connessione non pare sia durata a lungo, essendo diventata (e il rischio c’era, e c’è) di diventare una formalità burocratica, dove il “rito”, meno impegnativo e più facilmente misurabile in termini di “esecuzione del comando”, esime dall’azione che ne dovrebbe tradurre il significato.
Non si deve attendere molto per trovare le violente denunce dei profeti contro una pratica tutta esteriore che suscita piuttosto indignazione. Ascoltiamo Isaia: «Perché mi offrite i vostri sacrifici senza numero? Sono sazio di olocausti di montoni e del grasso di pingui vitelli. Il sangue di tori e di agnelli e di capri io non lo gradisco» (Is 1,11). E senza ignorare altri passi, basta una citazione da Osea: «Voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti» (Os 6,6), un’affermazione talmente importante che è ripresa due volte da Gesù in Mt 9,13 e 12,7. Questo principio si fa preghiera nel Salmo 50(51),18-19: «Tu non gradisci il sacrificio; se offro olocausti, tu non li accetti. Uno spirito contrito è sacrificio a Dio; un cuore contrito e affranto tu o Dio non disprezzi».
L’unico sangue che redime
Il passo decisivo in questo percorso è il tema principale della Lettera agli Ebrei, un testo straordinario che temo non sia abbastanza conosciuto e frequentato.
Cristo diventa il perno della storia religiosa mostrando in se stesso il passaggio decisivo da culti, riti, sacerdozio e santuario per trasformarli in “modo di agire della persona”, interiorizzandone così il vero significato.
Come è scritto nella seconda Lettura (Eb 9,11-15), Cristo è il Figlio di Dio che si incarna attraverso «una tenda più grande e più perfetta, non costruita da mani d’uomo», cioè il suo “corpo” che nasconde la divinità. Per questa strada egli «entrò una volta per sempre nel santuario, non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue, ottenendo così una redenzione eterna».
Il significato del “sangue” è poi esplicitamente affermato quando si dice che l’effetto di vera purificazione di tale sacrificio significa che «Cristo offrì se stesso senza macchia a Dio». È la chiara eco a quanto è scritto nel salmo 40(39),7-9, che dice: «Sacrificio e offerta non gradisci, gli orecchi mi hai aperto, non hai chiesto olocausto né sacrificio per il peccato. Allora ho detto: Ecco, io vengo. Nel rotolo del libro su di me è scritto di fare la tua volontà: mio Dio, questo io desidero; la tua legge è nel mio intimo».
“Fate” questo in memoria di me
Quanto detto sin qui ci aiuta a capire il senso vero e totale delle parole che Gesù pronuncia nel cuore dell’Ultima Cena (Mc 14,12-16.22-26), che stanno al centro delle nostre eucaristie, parole pronunciate sul pane e sul vino, che diventano emblema del suo corpo e del suo sangue: «Prendete, questo è il mio corpo»; «Questo è il mio sangue dell’alleanza che è versato per molti».
Del pane ci si nutre, il vino lo si beve: pane e vino entrano in noi, e con essi entra in noi la vita. Totalmente superata risulta la logica degli antichi sacrifici, che al fondo era, o rischiava di essere, tutta esteriore e inefficace a produrre quella trasformazione del cuore e della vita che è il dono e il frutto più bello della fede. Luca esplicita lo scopo della consegna di mangiare e bere, aggiungendo che il pane è «dato» e il vino è «versato per voi» (Lc 22,19-20).
Il verbo decisivo che spiega il significato dinamico di quella trasformazione di pane e vino in corpo e sangue del Signore si trova in un testo che è ancora più antico dei sinottici, la prima Corinzi 11,23-25, la quale trasmette come documento prezioso la liturgia che le prime comunità cristiane avevano elaborato rispondendo al comando di Gesù: «Fate questo in memoria di me».
Credo non si insisterà mai a sufficienza, soprattutto se davanti ad assemblee vagamente annoiate e inerti, nel marcare il valore di quel verbo, che invita drasticamente a fare, non a recitare! Forse questo rischio era già presente in Giovanni, l’ultimo evangelista, il quale trova il coraggio di rimpiazzare il racconto della cena con quello della lavanda dei piedi.
Tra quelli che hanno capito alla perfezione il senso di questo gesto, c’è da annoverare san Bernardo che, nel sermone per il giovedì santo, dopo aver detto che «molti sono i sacramenti», «segni sacri» che servono a comunicare «la grazia invisibile attraverso un segno visibile», si propone di parlarne di tre: «la partecipazione all’eucaristia, la lavanda dei piedi e, infine, anche il battesimo, inizio di tutti i sacramenti» (Per la Cena del Signore, 2). Il santo legge poi tutta la sequenza come una serie di tappe che indicano la progressiva purificazione dal peccato, a cominciare dal battesimo.
Ma la grazia non agisce da sola. La nostra collaborazione va compresa nella logica del servizio e del dono, significati nel corpo e nel vino che sono “dati”. Alla grazia si risponde con la gratuità (Mt 10,8)!
Non è difficile passare alla concretezza di quelle che chiamiamo le opere di misericordia corporale e spirituale, un tragitto che va ben oltre le sette codificate. Paolo qualifica chi «non conosce Dio» come gente «senza cuore» (Rm 1,31), purché si ricordi che la frontiera non coincide con quella che separa i cattolici dagli altri!