È probabile che il titolo di “re” non susciti oggi grandi emozioni né evochi immagini di grandezza e maestà come poteva capitare in tempi lontani.
Già nel passato, per il vero, non è che ci fosse una comune percezione positiva. Ricordo, in proposito, di aver visto in una voluminosa opera storica, credo sul Settecento, una serie di tre vignette che presentava così la figura del re: una prima immagine raffigurava un uomo ordinario, calvo, in pantaloni e camicia; una seconda mostrava un manichino dal quale pendevano una veste sfarzosa e un manto splendido, sopra il quale si vedeva una maestosa parrucca; la terza raffigurava l’uomo della prima rivestito degli ornamenti della seconda. Le didascalie indicavano nelle tre figure rispettivamente: Luigi, il re, Luigi XIV!
Credo non ci sia bisogno di commenti. Ridurre il Re sole al suo vestito la dice lunga su quale potesse essere la stima per un re tra i più famosi. Mi chiedo, stante il contesto contemporaneo che circonda questa figura, dove si possa cercare il senso di una festa come quella di Cristo re, creata da Pio XI nel 1925 per reagire, mettendo al centro l’unico vero re, al «laicismo» dilagante in «stati atei e secolarizzati», e forse anche con un occhio ai totalitarismi nascenti in Europa, che il papa avrebbe successivamente condannato.
La festa fu collocata dalla riforma conciliare nell’ultima domenica dell’anno liturgico per indicare l’orizzonte e il traguardo del cammino di fede.
La risposta è chiara e immediata: quella di Cristo è una regalità che mette radicalmente in crisi tutte le altre, perché manda all’aria e rende un mucchio di futilità e paccottiglia lo sfarzo di vesti e manti, parrucche e corone oltre ai riti che le accompagnano. Perché Gesù è dichiarato “re” sulla croce, nel punto più basso della sua umiliazione, come proclama l’inno antico di Venanzio Fortunato (VI secolo): Regnavit a ligno Deus! Quando si pensa che il trono è un patibolo, e la veste di porpora è il sangue che scorre sul suo corpo, e che la corona che sormonta il capo è fatta di spine, si è costretti a rivedere alla radice cosa fa “grande” una persona e la rende tale da meritare il titolo di re. A questo ci guida magistralmente la liturgia odierna.
L’immagine del pastore
Diversamente dagli anni della mia infanzia, quando d’inverno vedevo passare dalle vie del mio villaggio interi greggi in transumanza che venivano a svernare nei nostri campi, da tempo la figura del pastore ha cessato di essere un elemento noto del paesaggio. Ma ciò non impedisce di farsene un’immagine concreta solo che si consideri il capitolo 34 di Ezechiele, di cui ascoltiamo oggi alcuni versetti (Ez 34,11-12.15-17), che ne esalta e ne descrive minutamente la figura, sia in positivo che in negativo. Su questo capitolo sant’Agostino ha composto un mirabile discorso, il 46, che l’Ufficio delle letture propone integralmente nelle settimane XIV e XV del Tempo ordinario.
Quale immagine ricaviamo dai versetti di Ezechiele che sono stati selezionati?
Una prima serie di affermazioni (vv. 11-12) mostra che il pastore è anzitutto preoccupato di “radunare” le pecore disperse, perché ha con esse un rapporto personale, le passa in rassegna una ad una, e non si quieta fino a che non ha ricomposto l’unità del gregge.
Un secondo gruppo (vv. 15-17) elenca alcune azioni che traducono la sollecitudine che diremmo materna con cui il pastore governa le sue pecore: le nutre conducendole al pascolo, le fa riposare, va in cerca di quella che si è perduta, fascia quella ferita, cura quella malata, ha pure cura della grassa e della forte, riassumendo questa serie di attenzioni nella formula: «le pascerò con giustizia».
Infine, appare anche nel pastore una aspettativa che riguarda le pecore stesse e la risposta che viene loro chiesta alla sollecitudine del pastore: «Io giudicherò tra pecora e pecora, fra montoni e capri». Sono affermazioni che trovano un’eco precisa in quello che dice Gesù quando si descrive come pastore buono (Gv 10,1-16), inclusa la funzione di giudizio che discrimina tra pecore e capri, come si ascolterà nel vangelo di oggi. Un quadro del genere trova un completamento naturale nel Salmo 22 che lo segue.
Il Signore della vita
Se la prima lettura e il salmo propongono una regalità tutta intrisa di affetto e di tenerezza, la seconda (1Cor 15,20-26.28) introduce un altro tema che completa le figura del re, questo sì chiaramente glorioso e trionfale: Cristo è re perché è Signore della vita, dato che la morte non ha avuto alcun potere su di lui che, dopo il fallimento e l’umiliazione della croce, è risorto, «primizia di coloro che sono morti».
E questo è una gioia per tutti noi, perché nell’iconografia della risurrezione non mostra, come l’arte occidentale alla quale siamo abituati, un Cristo che esce dal sepolcro e se ne va per conto suo in cielo, ma la discesa agli inferi, dopo che le porte di quel carcere sono state abbattute, e appaiono sotto i suoi piedi a formare una croce, e Cristo prende per mano Adamo ed Eva per portarli con sé nel regno della vita. È un ben noto ribaltamento totale di situazione: «Come in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita». Questa vita poi raggiungerà l’intero universo, perché vedremo «cieli nuovi e terra nuova» (2Pt 3,13), frutto della distruzione di «tutti i nemici», compresi i regni fasulli o perversi, compreso quello della «morte», che «sarà annientata come ultimo nemico». C’è di che esultare e respirare nella meditazione di questa prospettiva.
Dobbiamo essere tutti “pastori”
Resta un altro passo da fare, e non dei meno importanti. Ce lo descrive Matteo nell’ultimo brano che precede il racconto della passione, quello noto come giudizio finale (Mt 25,31-46).
Il termine “giudizio” fa sempre un po’ paura, e intendere Gesù come un “giustiziere” potrebbe sembrare in contrasto con quanto si è detto sin qui. Ma non c’è nessuna contraddizione. Intanto, il giudice non è il Padre, ma il Figlio dell’uomo, titolo più volte usato da Gesù, che era il modo per suggerire insieme la sua realtà di uomo dietro la quale si sarebbe dovuto intravedere il suo potere di giudizio (vedi Dn 7,13-14.26-27) indicato dal suo «apparire sulle nubi del cielo» (Mt 24,30; 26,64), cioè nell’area che è lo spazio di Dio.
Giudicare significa separare, innanzitutto i buoni dai cattivi, i giusti dagli ingiusti, o – come dice il vangelo – «le pecore dalle capre», il che ci riporta nell’iconografia del pastore, che nel testo di Ezechiele era già duplice, in quanto il profeta distingue tra pastori buoni e pastori cattivi, tra quelli che nutrono le pecore e quelli che le sfruttano.
L’elenco delle azioni in base alle quali i buoni sono selezionati è ben noto, anche perché è stato presto formalizzato a livello catechistico nella serie delle sette opere di misericordia corporale.
Vorrei fare solo due osservazioni. Per entrare tra le “pecore” non è necessario, e neanche lodevole, che tali opere vengano ostentate come mezzi di propaganda. Si ricordi quanto si è detto della folla di santi anonimi nell’omelia per la festa di Tutti i santi. Siccome Gesù si identifica con i suoi «fratelli più piccoli», che vivono varie situazioni di fragilità, quanto viene fatto per alleviare varie forme di povertà è già come fatto a lui, e viceversa.
La seconda annotazione riguarda il perché Gesù accoglie costoro alla sua destra e li considera come “suoi”, degni di essere «benedetti dal Padre» e di «entrare nel regno preparato per loro fin dalla creazione». Semplicemente perché, operando secondo il suo esempio, le pecore sono diventate esse stesse figure del Pastore buono alla cui scuola si sono messe.
Questo basti per capire che il ministero “pastorale” non è riservato ai ministri ordinati, cioè ai preti, ma è compito di tutto il gregge, di tutta la comunità cristiana, e riguarda tutte le aree della vita. Non si esige per questo alcuna licenza in teologia. Basta il battesimo. Su come l’abbiamo vissuto sarà fatto il giudizio.
Vorrei mandarlo il commento quotidiano via imail,grazie