Gesù aveva accuratamente evitato nel corso della sua attività profetica di pubblicizzare la propria identità di re messia.
Essa restava nascosta, rifiutata con la fuga (Gv 6,15) o con la consegna del silenzio (Mc 8,29; cf. 1,24-25; 3,11-12; 5,43; 7,36), per evitare fraintendimenti o strumentalizzazioni. Solo quando la sua estraneità alle logiche mondane è al di là di ogni dubbio, egli afferma la sua regalità messianica (Mc 11,2.7-10) e non minimizza la portata della sua rivendicazione (Mc 15,2): inerme nelle mani dei nemici, egli vive la propria libertà sovrana, nella forma della consegna al Padre e i fratelli.
Infatti, soprattutto nel racconto della passione, la regalità di Gesù emerge con forza e si configura come per antitesi, in opposizione al dispiego di violenza e di cinismo che porta alla sua condanna ingiusta.
Il potere di Pilato e la regalità di Gesù
Le accuse dei falsi testimoni davanti al sinedrio (cf. Mc 14,56-59) contestavano a Gesù la pretesa messianica di agire come riformatore del culto, superiore alla legge e al tempio (cf. Mc 2,18; 11,15-18.27-28; 13,2); il sommo sacerdote lo accusa della bestemmia per l’affermazione di Gesù sulla sua figliolanza divina e sulla sua rivendicazione della regalità escatologica (cf. Mc 12,37; 14,61-64). La decisione di metterlo a morte si scontra però con una limitazione di giurisdizione: «A noi non è consentito mettere a morte nessuno» (Gv 18,31).
La pretesa di difendere la regalità di YHWH, finisce per far loro invocare la regalità di Cesare al posto di quella di Gesù: non vogliono riconoscere la sua regalità sui cuori e sulla storia e finiscono per assoggettarsi a quel potere che pare garantire i loro privilegi e la loro ricchezza, e che invece li rende schiavi. Così finiscono per rinnegare il loro Dio, «l’unico Signore» (Dt 6,4), per appartenere invece a Cesare (cf. 19,16; Mt 22,21).
Pilato può interpretare l’accusa mossa a Gesù in senso unicamente politico: Gesù avrebbe provocato agitazioni e radunato dei partigiani per rovesciare i dirigenti giudei che sostenevano i Romani.
Pilato, che disprezza i giudei, finisce anch’egli per comportarsi come loro, schiavo della paura e della menzogna: «Se liberi costui, non sei amico di Cesare» (Gv 19,12). L’“amicizia” del re, nel mondo antico greco-romano (cf. 1Mc 8; e poi 2,18; 10,16-20.65; 11,27; 13,36; 2Mc 7,24; 8,9; 9,29; 11,14) è sempre un boccone avvelenato, che intossica e uccide chi lo addenta: la vicinanza al tiranno non è esattamente una condizione di sicurezza, subordinata com’è agli interessi del sovrano…
L’“amicizia” è una scelta di campo. Pilato, «amico di Cesare», irride le pretese regali di Gesù secondo il costume romano dei saturnali, praticato soprattutto dai militari delle province.
A Gesù viene riservato il trattamento simile a quello che, qualche tempo più tardi, sarà riservato al soldato cristiano Dasio, il cui sarcofago è ancora custodito ad Ancona. Un mese prima della festa, nell’anno 303 d.C., egli rifiutò di prestarsi al gioco del re, impersonando il dio pagano in ogni genere di licenza, per finire sacrificato allo scadere dei trenta giorni. A nulla valsero le preghiere e le minacce del suo comandante Basso, per convincerlo: Dasio finì decapitato a Durostorum, nell’odierna Bulgaria.
Questa beffa atroce dei militari romani, attuata con la tortura della corona di spine, la canna, la porpora, le percosse e gli insulti, si trasforma involontariamente nella proclamazione universale del regno messianico di Gesù, nella sua esemplarità di uomo vero, di uomo libero, della vera «immagine e somiglianza di Dio» (Gen 1,26): «Ecco l’uomo!» (Gv 19,5). Gesù è il vero re, «il più bello tra i figli dell’uomo» (Sal 45,3), «l’ultimo Adamo, divenuto spirito datore di vita» (1Cor 15,45), «creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità» (Ef 4,24).
In modo paradossale, contrariamente alle attese dei capi del popolo, l’autorità più alta della terra, il magistrato che esercita il potere di Roma, dichiara la regalità effettiva di Gesù (cf. Gv 19,20), quale legittimo e vero «Re dei giudei», con una sentenza passata in giudicato (cf. Gv 19,22): «Ciò che ho scritto ho scritto».
Gesù denuncia il carattere subordinato e transitorio del potere di Pilato, smascherandone la millanteria, propria della caducità di questo mondo: «Tu non avresti alcun potere su di me, se ciò non ti fosse stato dato dall’alto» (Gv 19,11).
Invece, rivendica per sé una regalità che non è di quaggiù, perché nasce dalla verità, che è il suo rapporto con il Padre (cf. Gv 8,26-28.42), e si sostanzia della sua obbedienza alla sua volontà (cf. Gv 8,29), come del suo servizio di testimonianza al suo amore, a costo della vita (Gv 10,11; 13,1; 15,13).
Nella Scrittura si era già messo in evidenza il legame tra regalità e sapienza (cf. 2Sam 14,17-20; Pr 1,1; Qo 1,1; Ct 1,1; Sap (7,7-11; 9,7-8.12). La regalità escatologica, che Gesù in quest’ora inaugura nel mondo, è in funzione di questa istruzione definitiva, che con la vita annuncia e comunica la verità di Dio, il Padre.
Il re Gesù non ricorre agli strumenti della violenza; egli compie la volontà del Padre, che gli ha affidato questa missione, accettando che la verità di Dio si manifesti in lui, Verbo incarnato (cf. 14,6; 3,11.32; 8,13-14.46). Gesù è la verità, perché egli è, in quanto Figlio incarnato, l’espressione perfetta del Padre per gli uomini: «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,9). Gesù lo manifesta ai discepoli e a tutti gli uomini (1,18; 17,8,14) con le sue azioni e con le sue parole.
Il re Gesù non ha «servi», ma solo «amici»: non perché li asservisce al proprio dispotismo, ma perché comunica loro quanto ascolta e riceve dal Padre, introducendo i credenti nella sua comunione col Padre. Questa comunione costituisce la pienezza della vera vita (17,3; 1,4; 3,16; 6,40.47.63; 11,25).
La verità testimoniata da Gesù
La verità, che il re Gesù testimonia, è dunque l’espressione della volontà di Dio sull’uomo, così come egli la vive e la insegna (8,40.45; 17,17), vero «Signore e Maestro» che diviene modello di servizio e di amore (Gv 13,14-15).
La verità “dimora” nei discepoli (cf. 2Gv 1-2), come un principio di vita: essi possono oramai “camminare” secondo le sue direttive (3Gv 3-4; Sal 86,11), e “fare la verità” (Gv 3,21; 1Gv 1,6; cf. Tb 4,6), cioè agire in conformità con quello che essa esige da loro.
La verità, così, si oppone al «mondo» (cf. Gv 1,6-9) come una matrice di nuova realtà e di nuova azione: se quelli che sono «dal mondo» non possono che odiare (Gv 15,19; 17,14-16), quelli che sono «dalla verità» obbediscono al messaggio d’amore che Cristo ci ha trasmesso da parte di Dio (Gv 18,37; 1Gv 3,18-19). Essi sono santificati dalla verità così come dalla parola di Cristo (Gv 17,17; 15,3).
La domanda di Pilato rimasta sospesa (nel testo), riceve di fatto la sua risposta nella presenza e nell’azione di Gesù. Egli è il portatore personale di questa “verità”: egli stesso è la Verità che ci conduce al Padre (14,6).
In questa “verità” ci conduce, anzi ci “sospinge” (cf. Mc1,12), lo Spirito: «Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future» (Gv 16,13).