È accanto ad ogni uomo, per sempre
Con l’entrata di Gesù nella gloria del Padre è cambiato qualcosa sulla terra?
Esteriormente nulla. La vita degli uomini ha continuato ad essere quella di prima: seminare e mietere, commerciare, costruire case, viaggiare, piangere e fare festa, tutto come prima. Anche gli apostoli non hanno ricevuto alcuno sconto sui drammi e le angosce sperimentati dagli altri uomini. Tuttavia qualcosa di incredibilmente nuovo è accaduto: sull’esistenza dell’uomo è stata proiettata una luce nuova.
In un giorno di nebbia, improvvisamente compare il sole. Le montagne, il mare, i campi, gli alberi del bosco, i profumi dei fiori, il canto degli uccelli rimangono gli stessi, ma diverso è il modo di vederli e di percepirli.
Accade anche a chi è illuminato dalla fede in Gesù asceso al cielo: vede il mondo con occhi rinnovati. Tutto acquista un senso, nulla rattrista, nulla più spaventa.
Oltre le sventure, le fatalità, le miserie, gli errori dell’uomo s’intravede sempre il Signore che costruisce il suo regno.
Un esempio di questa prospettiva completamente nuova potrebbe essere il modo di considerare gli anni della vita. Tutti conosciamo, e forse sorridiamo, degli ottantenni che invidiano chi ha meno anni di loro, si vergognano della loro età… insomma, volgono lo sguardo al passato, non al futuro. La certezza dell’Ascensione capovolge questa prospettiva. Mentre trascorrono gli anni, il cristiano è soddisfatto perché vede avvicinarsi il giorno dell’incontro definitivo con Cristo; è lieto di essere vissuto, non invidia i più giovani, li guarda con tenerezza.
Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi”.
Prima Lettura (At 1,1-11)
1 Nel mio primo libro ho già trattato, o Teòfilo, di tutto quello che Gesù fece e insegnò dal principio 2 fino al giorno in cui, dopo aver dato istruzioni agli apostoli che si era scelti nello Spirito Santo, egli fu assunto in cielo. 3 Egli si mostrò ad essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, apparendo loro per quaranta giorni e parlando del regno di Dio. 4 Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere che si adempisse la promessa del Padre “quella, disse, che voi avete udito da me: 5 Giovanni ha battezzato con acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo, fra non molti giorni”.
6 Così venutisi a trovare insieme gli domandarono: “Signore, è questo il tempo in cui ricostituirai il regno di Israele?”. 7 Ma egli rispose: “Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta, 8 ma avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra”.
9 Detto questo, fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo. 10 E poiché essi stavano fissando il cielo mentre egli se n’andava, ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: 11 “Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo”.
Sul monte degli Ulivi è stato costruito dai crociati un piccolo santuario ottagonale, trasformato poi in moschea dai musulmani nel 1200. Spiegavo a dei pellegrini che quest’edicoletta oggi ha un tetto, ma originariamente era scoperta per ricordare l’Ascensione di Gesù al cielo. Uno scanzonato del gruppo ha commentato: “Non aveva il tetto perché altrimenti, salendo, Gesù avrebbe battuto la testa”. Qualcuno non ha gradito la battuta dissacrante, ma qualche altro l’ha considerata una provocazione ad approfondire il significato del testo degli Atti.
A prima vista, il racconto dell’Ascensione scorre fluido, ma quando si considerano tutti i particolari si comincia a provare un certo imbarazzo: sembra piuttosto inverosimile che Gesù si sia comportato come un astronauta che si stacca dal suolo, s’innalza verso il cielo e scompare oltre le nubi; ci sono inoltre alcune incongruenze difficili da spiegare.
Alla fine del suo Vangelo, Luca – lo stesso autore degli Atti – afferma che il Risorto condusse i suoi discepoli verso Betania e “mentre li benediceva si staccò da loro e fu portato verso il cielo. Ed essi, dopo averlo adorato, tornarono a Gerusalemme con grande gioia” (Lc 24,50-53). Lasciamo perdere la strana annotazione sulla “grande gioia” (chi di noi è felice quando un amico parte?) e il disaccordo sulla località (Betania è un po’ fuori mano rispetto al monte degli Ulivi). Ciò che sorprende è la palese divergenza sulla data: secondo Lc 24 l’Ascensione avviene nello stesso giorno di Pasqua, mentre negli Atti è collocata quaranta giorni dopo (At 1,3). Stupisce che lo stesso autore fornisca due informazioni contrastanti.
Se prendiamo per buona la seconda versione (quella dei quaranta giorni) viene spontaneo chiedersi: cosa ha fatto Gesù durante questo tempo? Sul Calvario non aveva promesso al ladrone: Oggi sarai con me in paradiso? Perché non è vi andato subito?
Le difficoltà elencate sono sufficienti per metterci in guardia: forse l’intenzione di Luca non è quella di informarci su dove, come e quando Gesù è salito al cielo. Forse (anzi, senza forse!) la sua preoccupazione è un’altra: vuole rispondere a problemi e sciogliere dubbi che sono sorti nelle sue comunità, vuole illuminare i cristiani del suo tempo sul mistero ineffabile della Pasqua. Per questo, da artista della penna qual è, compone una pagina di teologia utilizzando un genere letterario e delle immagini ben comprensibili ai suoi contemporanei. Il primo passo da compiere dunque è quello di comprendere il linguaggio impiegato.
Al tempo di Gesù l’attesa del regno di Dio è vivissima e gli scrittori apocalittici la annunciano come imminente. Si attendono: un diluvio di fuoco purificatore dal cielo, la risurrezione dei giusti e l’inizio di un mondo nuovo. Anche nella mente di alcuni discepoli si crea un clima di esaltazione, alimentata da alcune espressioni di Gesù che possono facilmente essere fraintese: “Non avrete finito di percorrere le città di Israele, prima che venga il Figlio dell’uomo” (Mt 10,23); “Vi sono alcuni tra i presenti che non morranno finché non vedranno il Figlio dell’uomo venire nel suo regno” (Mt 16,28).
Con la morte del Maestro, però, tutte le speranze vengono deluse: “Noi speravamo che egli sarebbe stato quello che avrebbe liberato Israele” – diranno i due di Emmaus (Lc 24,21).
La risurrezione risveglia le attese: si diffonde fra i discepoli la convinzione di un immediato ritorno di Cristo. Alcuni fanatici, basandosi su presunte rivelazioni, cominciano addirittura ad annunciarne la data. In tutte le comunità si ripete l’invocazione: “Marana tha”, vieni Signore!
Gli anni passano, ma il Signore non viene. Molti cominciano ad ironizzare: “Dov’è la promessa della sua venuta? Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi, tutto rimane come al principio della creazione” (2 Pt 3,4).
Luca scrive in questa situazione di crisi. Si rende conto che un equivoco sta all’origine della cocente delusione dei cristiani: la risurrezione di Gesù ha segnato sì l’inizio del regno di Dio, ma non la conclusione della storia.
La costruzione del mondo nuovo è soltanto iniziata, richiederà tempi lunghi e tanto impegno da parte dei discepoli.
Come correggere le false attese? Luca introduce nella prima pagina del libro degli Atti un dialogo fra Gesù e gli apostoli.
Consideriamo la domanda che questi pongono: quando giungerà il regno di Dio? (v. 6). E’ la stessa che, alla fine del secolo I, tutti i cristiani vorrebbero rivolgere al Maestro. La risposta del Risorto, più che ai Dodici, è diretta ai membri delle comunità di Luca: smettetela di disquisire sui tempi e sui momenti della fine del mondo, questi sono conosciuti solo dal Padre. Impegnatevi piuttosto a portare a compimento la missione che vi è stata affidata: essere miei testimoni “a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra” (vv. 7-8)!
A questo dialogo segue la scena dell’Ascensione (vv. 9-11).
Gesù e i discepoli sono seduti a mensa (At 1,4), in casa dunque. Perché non si sono salutati lì, dopo aver cenato? Che bisogno c’era di andare verso il monte degli Ulivi? E gli altri particolari: la nube, gli sguardi rivolti verso il cielo, i due uomini in bianche vesti sono annotazioni di cronaca o artifici letterari?
Nell’AT c’è un racconto che assomiglia molto al nostro, si tratta del “rapimento” di Elia (2 Re 2,9-15).
Un giorno questo grande profeta si trova presso il fiume Giordano con il suo discepolo Eliseo. Questi, saputo che il maestro sta per lasciarlo, osa chiedergli in eredità due terzi del suo spirito. Elia glieli promette, ma solo a una condizione: se mi vedrai quando sarò rapito lontano da te. All’improvviso, appare un carro con cavalli di fuoco e, mentre Eliseo guarda verso il cielo, Elia viene rapito in un turbine. Da quel momento Eliseo riceve lo spirito del maestro ed è abilitato a continuarne la missione in questo mondo. Il libro dei Re racconterà poi le opere di Eliseo: sono le stesse che ha compiuto Elia.
Facile rilevare gli elementi comuni con il racconto degli Atti ed allora la conclusione non può essere che questa: Luca si è servito della scenografia grandiosa e solenne del rapimento di Elia per esprimere una realtà che non può essere verificata con i sensi né descritta adeguatamente con parole: la Pasqua di Gesù, la sua Risurrezione e la sua entrata nella gloria del Padre.
La nube indica nell’AT la presenza di Dio in un certo luogo (Es 13,22). Luca la impiega per affermare che Gesù, lo sconfitto, la pietra scartata dai costruttori, colui che i nemici avrebbero voluto che rimanesse per sempre prigioniero della morte, è stato invece accolto da Dio e proclamato Signore. I due uomini vestiti di bianco sono gli stessi che compaiono presso il sepolcro nel giorno di Pasqua (Lc 24,4). Il colore bianco rappresenta, secondo la simbologia biblica, il mondo di Dio. Le parole poste sulla bocca dei due uomini sono la spiegazione data da Dio agli avvenimenti della Pasqua: Gesù, il Servo fedele, messo a morte dagli uomini, è stato glorificato. Le loro parole sono veritiere (essendo due, sono testimoni degni di fede).
Infine: lo sguardo rivolto al cielo. Come Eliseo, anche gli apostoli ed i cristiani del tempo di Luca rimangono a contemplare il Maestro che si allontana. Il loro sguardo indica la speranza di un suo immediato ritorno, il desiderio che, dopo un breve intervallo, egli riprenda l’opera interrotta. Ma la voce dal cielo chiarisce: non sarà lui a portarla a compimento, sarete voi. Lo farete, siete abilitati a farlo perché avete trascorso con lui quaranta giorni (nel linguaggio del giudaismo era il tempo necessario alla preparazione del discepolo) e ne avete ricevuto lo Spirito.
Per gli apostoli, come per Eliseo, l’immagine del “rapimento del maestro” indica il passaggio di consegne.
Già al tempo di Luca c’erano cristiani che “guardavano al cielo”, cioè, che consideravano la religione come un’evasione, non come uno stimolo ad impegnarsi concretamente per migliorare la vita degli uomini. Ad essi Dio dice “smettetela di guardare il cielo”, è sulla terra che dovete dar prova dell’autenticità della vostra fede. Gesù tornerà, sì, ma questa speranza non deve essere una ragione per estraniarvi dai problemi di questo mondo. Beati saranno infatti quei servi che il Signore, ritornando, troverà impegnati nel lavoro per i fratelli (Lc 12,37).
Gesù è dunque salito al cielo?
Certo che sì, ma dire che è asceso al cielo equivale a dire: è risorto, è stato glorificato, è entrato nella gloria di Dio. Il suo corpo, è vero, è stato posto nel sepolcro, ma Dio non ha avuto bisogno degli atomi del suo cadavere, per dargli quel “corpo da risorto” che Paolo chiama: “Corpo spirituale” (1 Cor 15,35-50).
Quaranta giorni dopo la Pasqua non si è verificato alcuno spostamento nello spazio, nessun “rapimento” dal monte degli Ulivi verso il cielo. L’Ascensione è avvenuta nell’istante stesso della morte, anche se i discepoli hanno cominciato a capire e a credere solo a partire dal “terzo giorno”.
Il racconto di Luca è una pagina di teologia, non il reportage di un cronista. In questa pagina egli vuole dirci che Gesù ha attraversato per primo il “velo del tempio” che separava il mondo degli uomini da quello di Dio e ha mostrato come tutto ciò che accade sulla terra: successi e disavventure, ingiustizie, sofferenze e persino i fatti più assurdi, come una morte ignominiosa, non sfuggono al progetto di Dio.
L’Ascensione di Gesù è tutto questo. Allora non ci si deve meravigliare che sia stata salutata dagli apostoli con gioia grande (Lc 24,52).
Seconda Lettura (Eb 9,24-28; 10,19-23)
9, 24 Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore, 25 e non per offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui. 26 In questo caso, infatti, avrebbe dovuto soffrire più volte dalla fondazione del mondo. Ora invece una volta sola, alla pienezza dei tempi, è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso. 27 E come è stabilito per gli uomini che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, 28 così Cristo, dopo essersi offerto una volta per tutte allo scopo di togliere i peccati di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione col peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza.
10, 19 Avendo dunque, fratelli, piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, 20 per questa via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne; 21 avendo noi un sacerdote grande sopra la casa di Dio, 22 accostiamoci con cuore sincero nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura. 23 Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è fedele colui che ha promesso.
Oggi si continua a parlare di sacerdoti per indicare i presbiteri, per riferirsi ai ministri dell’Eucaristia e della Riconciliazione; ma il Concilio Vaticano II ha accuratamente evitato di farlo e ha riservato il termine sacerdote – come fa del resto tutto il Nuovo Testamento – a Cristo e al popolo di Dio unito a Cristo nell’offerta di sacrifici spirituali graditi al Padre.
Il brano della Lettera agli ebrei che oggi ci viene proposto inizia indicando due ragioni per cui Gesù è l’unico vero sacerdote.
La prima è che i sacerdoti antichi offrivano olocausti in un tempio materiale, fatto di pietre, mentre Gesù svolge il suo ministero in cielo, in un santuario non costruito da mani d’uomo (Eb 9,24).
Poi, il sacerdozio dell’antica Alleanza aveva come obiettivo la purificazione del popolo dalle sue colpe. Per espiare i peccati, il sommo sacerdote entrava – da solo e con timore – nella parte più sacra del tempio, nel Santo dei Santi e versava il sangue degli animali sacrificati sulla pietra che si riteneva fosse stata collocata da Dio a fondamento del mondo. Si diceva anche che questa pietra costituisse il tappo che bloccava le acque dell’abisso. Se, nel giorno dello Yom Kippur, i peccati del popolo non fossero stati espiati, attraverso l’esecuzione accurata e minuziosa di tutti i riti purificatori, le acque infernali si sarebbero di nuovo riversate sul mondo.
Il sommo sacerdote ripeteva ogni anno questi gesti liturgici, ma non otteneva alcuna remissione del peccato. Gli uomini continuavano ad essere malvagi e ad avere bisogno di espiazione.
Il sacerdozio di Gesù è completamente diverso: egli ha offerto un unico e perfetto sacrificio e non ha versato sangue di animali, ma ha donato il proprio sangue e, con il suo gesto d’amore, ha rimosso per sempre il peccato (Eb 9,25-27).
Egli verrà di nuovo, non per ripetere i sacrifici, ma per prendere con sé gli uomini che il suo unico e perfetto sacrificio ha redento da ogni colpa (Eb 9,28).
Nella seconda parte della lettura (Eb 10,19-23) l’autore evidenzia il risultato del sacrificio offerto da Cristo e presenta con un linguaggio teologico l’ascensione al cielo che oggi festeggiamo.
Si rivolge ai destinatari della sua lettera chiamandoli fratelli e annuncia loro: il culto antico è finito, Cristo ha inaugurato quello nuovo.
Negli Atti degli Apostoli, Luca ha presentato questa verità servendosi di un’immagine spaziale, ha invitato a contemplare Gesù che sale al cielo.
L’autore della Lettera agli ebrei introduce lo stesso evento con un linguaggio teologico, richiamandosi alla liturgia del tempio di Gerusalemme: è Gesù il vero, unico Sommo Sacerdote che, attraversato il velo che separava il mondo degli uomini da quello di Dio, è entrato nel Santuario eterno del cielo. È entrato e ha presentato al Padre il suo sacrificio: non l’offerta di animali che a Dio non sono mai interessati, ma la propria vita donata agli uomini, per amore. Così ha spalancato per tutti l’ingresso nella casa del Padre.
L’esortazione finale al discepolo che ora ha il cuore purificato dal suo sangue e il corpo lavato dall’acqua del Battesimo è ad essere fedele, a non vacillare nella professione di questa speranza (vv. 21-23).
Vangelo (Lc 24,46-53)
In quel tempo, Gesù apparve agli Undici e disse loro: 46 “Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno 47 e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. 48 Di questo voi siete testimoni. 49 E io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto”.
50 Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. 51 Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo. 52 Ed essi, dopo averlo adorato, tornarono a Gerusalemme con grande gioia; 53 e stavano sempre nel tempio lodando Dio.
Noi siamo in grado di studiare e conoscere le realtà materiali, basta riuscire ad applicare intelligenza e perspicacia.
I segreti di Dio invece ci sfuggono, sono imperscrutabili, egli soltanto può rivelarli.
Se ci accostiamo a Gesù, se ripercorriamo le tappe della sua vita guidati unicamente dalla sapienza umana ci troviamo di fronte a un fitto mistero, brancoliamo nel buio. Dall’inizio alla fine, ciò che gli accade rimane un enigma. La stessa madre, Maria, è sorpresa e stupita quando il progetto di Dio comincia ad attuarsi nel figlio (Lc 2,33.50). Nella fede, anche lei deve “mettere insieme”, come tasselli, i vari avvenimenti (Lc 2,19), per scoprirvi il puzzle del Signore. Come coglierne il senso?
A questa domanda risponde, nei primi versetti del Vangelo di oggi (vv. 46-47), il Risorto. Egli – riferisce Luca – aprì l’intelligenza dei discepoli alla comprensione delle Scritture: “Così sta scritto…”. Solo dalla parola di Dio annunciata dai profeti può venire la luce che rischiara gli avvenimenti della Pasqua. Nella Bibbia – dice Gesù – già era predetto che il Messia avrebbe sofferto, sarebbe morto e risorto.
Difficile trovare nell’AT affermazioni tanto esplicite. Tuttavia, non c’è dubbio che ciò che ha cambiato la mente dei discepoli e ha fatto loro comprendere che il Messia di Dio era molto diverso da quello che essi si attendevano, sono stati i testi del profeta Isaia che parlano del Servo del Signore “disprezzato, reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire… Ma che avrà una discendenza, vivrà a lungo e dopo il suo intimo tormento vedrà la luce” (Is 53).
Un altro avvenimento – dice il Risorto – è annunciato nelle Scritture: “Nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati” (v. 47).
Qui il richiamo al testo biblico è chiaro. Si allude alla missione del Servo del Signore: “Io ti ho posto come luce per le genti perché tu porti la salvezza sino alle estremità della terra” (Is 49,6).
Secondo il profeta, è compito del Messia portare la salvezza a tutte le genti. Come si realizzerà questa profezia se Gesù ha limitato la sua attività al suo popolo, se ha offerto la salvezza solo agli israeliti (Mt 15,24)?
Nella seconda parte del Vangelo di oggi (vv. 48-49) si risponde a questa domanda: Gesù diventerà “luce delle genti” attraverso la testimonianza dei suoi discepoli.
Si tratta di un incarico troppo superiore alle capacità umane. Per svolgere la missione di Cristo non bastano buona volontà e belle qualità, è necessario poter contare sulla sua stessa forza. Ecco la ragione della promessa: “Voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto” (v. 49).
E’ l’annuncio dell’invio dello Spirito, Colui che diventerà il protagonista del tempo della Chiesa. Negli Atti degli Apostoli verrà ricordata spesso la sua presenza nei momenti salienti e la sua assistenza nelle scelte decisive fatte dai discepoli.
Il Vangelo di Luca si conclude con il racconto dell’Ascensione (vv. 50-53).
Prima di entrare nella gloria del Padre, Gesù benedice i discepoli (v. 51).
Terminate le celebrazioni liturgiche nel tempio, il sacerdote usciva dal luogo santo e pronunciava una solenne benedizione sui fedeli radunati per la preghiera (Sir 50,20). Dopo la benedizione questi tornavano alle loro occupazioni, certi che il Signore avrebbe condotto a buon fine ogni loro sforzo ed ogni loro fatica. La benedizione di Gesù accompagna la comunità dei suoi discepoli ed è la promessa e la garanzia del successo pieno dell’opera alla quale stanno per dare inizio.
Il richiamo finale non poteva che essere alla gioia: i discepoli “tornarono a Gerusalemme con grande gioia” (v. 52).
Luca è l’evangelista della gioia. Già nella prima pagina del suo Vangelo si incontra l’angelo del Signore che dice a Zaccaria: “Avrai gioia ed esultanza e molti si rallegreranno della sua nascita” (Lc 1,14). Poco dopo, nel racconto della nascita di Gesù, di nuovo appare l’angelo che dice ai pastori: “Non temete, ecco vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo” (Lc 2,10).
La prima ragione per cui i discepoli gioiscono, pur non avendo più il Maestro visibilmente con loro, è il fatto di aver compreso che egli non è rimasto, come i suoi nemici pensavano, prigioniero della morte.
Hanno fatto l’esperienza della sua risurrezione, sono certi che egli ha attraversato per primo il “velo del tempio” che separava il mondo degli uomini da quello di Dio. Così ha mostrato che tutto ciò che avviene sulla terra: successi e disavventure, ingiustizie, sofferenze ed anche i fatti più assurdi, come quelli che sono accaduti a lui, non sfuggono al progetto di Dio. Se questo è il destino di ogni uomo, la morte non fa più paura, Gesù l’ha trasformata in una nascita alla vita con Dio. Questa è la prima ragione per affrontare con speranza anche le situazioni più drammatiche e complicate.
La luce delle Scritture ha fatto loro capire che Gesù non è andato in un altro luogo, non si è allontanato, ma è rimasto con gli uomini. Il suo modo di essere presente non è più lo stesso, ma non è meno reale. Prima della Pasqua egli era condizionato da tutte le limitazioni alle quali noi siamo soggetti. Ora non più e può stare accanto ad ogni uomo, sempre. Con l’Ascensione la sua presenza non è diminuita, si è moltiplicata! Ecco la seconda ragione della gioia dei discepoli e nostra.
La mia è una meditazione su Maria che trova riscontro teologico nella lezione di Padre Armellini.
Credo che Maria preferisca, più che nei cieli, lontano, stare su questa terra insieme agli altri uomini, in cui vive lo Spirito di Dio. Ecco perché le si riconosce, anche nella religione islamica, una funzione centrale. A tal proposito è significativa l’espressione che si trova nel’artistico tetto ligneo medievale (circa 1200) della chiesa di Santa Maria di Maluenda, in Spagna, in cui stanno insieme due iscrizioni inneggianti l’una alla Vergine e l’altra ad Allah.
Realmente la divinità aveva sembianze femminili ai primordi dell’umanità, dal seno e dal pancione prorompenti. Anche per Dio c’è bisogno di una madre. Si comprende allora il valore assoluto della maternità, in quanto capacità procreativa e apertura all’irruzione del mistero, all’alterità.
Dal Vangelo è possibile capire le qualità di Maria, riverberanti, come arcobaleno di titoli, le più vive esperienze dell’umanità: comunicazione e ascolto; mistero e dubbio; incontro dell’altro e familiarità con la propria interiorità; consapevolezza del valore del proprio servizio e magnificat di ringraziamento….
Maria realizza le varie dimensioni della vita, e, non potendo disporre di un Vangelo eleva la sua preghiera rivolgendosi a Dio dal nome impronunciabile, come comunicato a Mosè tramite il soffio di sole 4 consonanti, JHWH. Compila il suo Vangelo seguendo la voce che dal suo intimo la infervorava.
Ora l’umanità la interroga circa l’identità di quel figlio a cui lei insegna come agire da Dio, ascoltando il suo vero Padre. Solo lei può rispondere, in quanto donna generatrice di nuova umanità. Se un Dio è fra gli uomini, solo lei può saperlo, essendo madre di un uomo dalla natura enigmatica, che ha bisogno della sua vicinanza materna. L’umanità quindi la interroga sia per sapere cosa pensasse di quel bambino, sul cui volto lei intravedeva già il segno di una croce; sia per capire cosa la impensierisse della sua maternità, che non le avrebbe più permesso di disporre autonomamente di sé.
E Maria non si sottrae alla risposta mostrando come quel figlio continui a essere presente nella vita dell’uomo, che attratto dal suo futuro, si allontana da casa, dà vita a comunità iniziatiche, proprio come Gesù, fa esperienza di acclamazioni regali, si sottomette alla croce, quella che la vita sa approntare, e gioisce della risurrezione, perpetuando così il mistero del carisma del figlio.
Il valore profetico di questa donna si manifesta all’umanità come segnaletica, nel momento in cui è Maria a indicarle chi la sta cercando, dentro la sua stessa interiorità. Non consiste solo in questo la missione di Maria, perché di suo già libera una forza interattiva, che nasce dall’effettivo rapporto madre-figlio, quella che le consente di generare Dio, come canta Dante: “Vergine Madre … tu sei colei che l’umana natura nobilitasti, sì che il suo fattore non disdegnò di farsi sua creatura”.