Si conclude oggi l’ottava di Pasqua, celebrazione del mistero di morte e risurrezione di Gesù vissuta come un unico giorno di festa, memoriale che ricorda gli eventi di Gesù, li rende presenti, li celebra come attuali nei giorni dell’uomo di oggi, e li vive come anticipazione del destino glorioso che attende tutti i credenti in Cristo.
La seconda domenica di Pasqua, da alcuni anni denominata anche “domenica della Misericordia”, è da sempre la domenica in Albis, giorno in cui i neobattezzati deponevano la veste bianca, segno della loro nuova condizione, per riprendere gli indumenti abituali della vita quotidiana. La Pasqua va vissuta nella vita, fecondandola e trasformandola dall’interno.
Atti degli Apostoli
Nel periodo pasquale la prima lettura della celebrazione eucaristica non è tratta dall’Antico Testamento, ma dal libro degli Atti degli Apostoli. Attraverso diverse “scene drammatiche”, l’autore del libro, che chiameremo Luca per comodità, descrive la “corsa della Parola” da Gerusalemme a Roma, capitale dell’impero romano che giunge sino ai confini della terra. Si realizza in tal modo, almeno inizialmente, il comando di Gesù agli apostoli (cf. At 1,8). A Roma, Paolo annuncia il regno di Dio e insegna le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo, con piena libertà di espressione e con coraggio, senza alcun impedimento (cf. At 28,31), pur essendo agli arresti domiciliari, in custodia militaris.
La parola è annunciata, comunità di discepoli fioriscono nelle piccole e grandi città dell’impero romano, le capitali delle province sono evangelizzate e, con loro, tutto il territorio circostante. Il movimento dei discepoli di Gesù Cristo non è un pericolo per l’impero, anzi è leale e concorre al benessere delle comunità civili con l’opera di soccorso verso le fasce più deboli della società.
Dopo il Prologo, che fa transitare dal Vangelo di Luca agli Atti (1,1-14), secondo D. Marguerat, un grande studioso di questo testo biblico, seguono cinque grandi scene in cui si struttura il libro: 1,15–8,3 Gerusalemme. La comunità con i dodici apostoli; 8,4–12,25 Da Gerusalemme ad Antiochia. L’apertura; 13,1–15,35 Primo viaggio missionario presso le nazioni. L’accordo di Gerusalemme; 15,36–21,14 Paolo missionario; 21,15–28,31 Da Gerusalemme a Roma. Paolo, un testimone in processo.
Nella sezione 3,1–5,42, dopo aver narrato la guarigione di uno storpio al tempio e il discorso di Pietro (3,1-26), l’autore riporta l’arresto e la comparizione di fronte al sinedrio (34,1-31), un secondo sommario e la morte tragica dei coniugi Anania e Saffira (4,32–5,11). Un terzo sommario (5,12-16) è seguito, infine, da nuove minacce e dalla liberazione degli apostoli (5,17-42).
La quiete dopo la tempesta
Nel terzo sommario lucano (5,12-16), generalizzante e leggermente idilliaco come i due precedenti (2,42-47; 4,32-37), viene dipinta la vita della prima comunità dei discepoli di Gesù a Gerusalemme dopo la Pasqua. La perseveranza compatta e concorde negli elementi di comunione, condivisione, solidarietà fraterna, sollecitudine per i poveri, preghiera costante nel tempio, celebrazione dell’eucaristia nelle case private, annuncio e ascolto dell’insegnamento apostolico non può nascondere anche le difficoltà e le fragilità del corpo ecclesiale, testimoniate dal tragico episodio della morte di Anania e Saffira (At 5,1-11).
L’aver tenuto per sé una parte del ricavato dalla vendita di un loro podere già destinato liberamente a essere posto ai piedi degli apostoli per il soccorso ai poveri è un inganno fatto contro lo Spirito Santo, autore della comunione ecclesiale e sorgente infuocata della vita cristiana. Se si inganna la fonte della vita, non si può che andare incontro al buio della morte. Un “giudizio di Dio” compiuto dai ministri apostolici. “Inflessibile”, perché pronunciato contro una colpa che colpisce al cuore il nucleo vitale della Chiesa della Pentecoste.
Dopo il racconto della tragedia di Anania e Saffira, il tono degli Atti si rialza immediatamente con un sommario (5,12-16), che riassume il tenore complessivo della vita della comunità dei discepoli del Risorto. Il sommario ce la presenta come una comunità che guarisce.
Gesù guarisce, perdona, vivifica
I gesti di misericordia e di guarigione avevano costellato tutto il Vangelo di Luca. Gesù aveva guarito il corpo, l’anima e la psiche di tante persone. Aveva guarito fisicamente, perdonato i peccati, incoraggiato nella vita fraterna contro la tentazione di una vita vissuta all’insegna dell’egoismo imperante.
Nel Vangelo, Gesù guarisce un indemoniato, la suocera di Simone e molti malati (Lc 4,31-41). Purifica un lebbroso/“morto che cammina” (5,12-15), perdona e guarisce un paralitico (5,17-26). Guarisce nella sinagoga un uomo dalla mano destra “seccata” (6,6-11) e, a distanza, il servo di un centurione pagano (7,1-6). Rivivifica il figlio unico di una vedova disperata di Nain (7,11-18) e, in terra pagana, cura nel profondo psichico e salva da una vita da disperato un indemoniato geraseno (8,26-39). In terra di Israele, Gesù si prende cura di due simboli del popolo: guarisce una donna anziana che continua a perdere sangue “inutilmente” e rivivifica una giovane ragazza che invece deve andare incontro alla vita e al matrimonio («aveva dodici anni») (8,40-56). Gesù moltiplica i pani e guarisce un ragazzo epilettico (9,12-17.37-43). È davvero il buon samaritano del mondo (cf. 10,29-37)…
Una comunità che guarisce
La comunità dei discepoli del Risorto si pone sulle tracce del proprio Signore, con la forza ricevuta dallo Spirito Santo nel giorno di Pentecoste. La forza dall’alto la abilita alla testimonianza coraggiosa e alla missione, ma rende possibile anche il fatto che la Chiesa delle origini, nella sua “primavera” irripetibile, goda in modo eclatante della capacità di guarire gli uomini nel profondo, riportandoli alla bellezza di una vita piena e significativa.
Molti segni e prodigi avvengono fra il popolo, cioè nella comunità dei credenti e anche fra coloro che si aprono anche con fiducia iniziale alla parola apostolica e alla vita nuova testimoniata dalla comunità del Risorto. I segni prodigiosi provengono da Dio Padre e dal Risorto, nella potenza dello Spirito, “tramite/per mezzo delle mani/dia tōn cheirōn” degli apostoli. Nel libro degli Atti, lo Spirito Santo è strettamente unito alla figura e all’opera degli apostoli. Sembra che senza di loro egli non possa agire…
Guarisce perché prega ed è unita
L’azione “prodigiosa” e “significativa” di una vita rinnovata operata dalla Chiesa è fatta derivare, implicitamente, nella sequenza delle frasi, dalla presenza di tutta la comunità stretta in una piena comunione concorde (“un solo soffio/homothymadon”) nel Portico di Salomone.
I portici che circondavano la spianata templare (hieron) erano larghi circa 25 m. e lunghi complessivamente sei stadi, cioè circa 1100 m. Nel lungo portico di quasi 400 m. di lunghezza che delimitava il lato est della spianata templare, denominato “Portico di Salomone”, era possibile pregare comunitariamente, ascoltare gli insegnamenti degli scribi e dei farisei, e cercare di pregare privatamente isolandosi dal trambusto causato dalle persone che cambiavano le loro monete e offrivano i loro animali per i loro sacrifici.
La presenza compatta di tutti i credenti (homothymadon apantes) suscita un timore reverenziale fra gli astanti, che non si azzardano a “unirsi/incollarsi/kollasthai” a loro (se non chiamati e invitati, ma da chi?). In ogni caso, la comunità è “magnificata/emegaloun autous”, perché si percepisce il bene e la serenità che ne promana, oltre ad una “presenza di regia” che la guida e anima dall’interno con una qualità “sovrumana”.
Guarisce e cresce grazie alla fede nel Signore risorto
Il v. 14 chiarisce la fonte nascosta della crescita della comunità. Non si tratta di un fattore “umano”. Essa si ingrandiva perché “venivano aggiunti/prosetithento” in continuità (da Dio Padre, passivum divinum) quanti credevano nel Signore (Gesù risorto)/Kyriōi. La crescita numerica della comunità è opera divina, azione del Padre che, tramite lo Spirito, suscita nelle persone – una folla di uomini e di donne, nota l’autore – la fede in Gesù risorto e la forza per corrispondervi in libertà. La fede è opera teandrica. La Chiesa è teandrica, opera di Dio e dell’uomo…
L’ombra (e i fazzoletti)
La folla porta pubblicamente nelle piazze della città i propri malati gravi perché Pietro, anche con la sua sola “ombra/skia”, li “ombreggiasse/episkiasēi” e potesse guarirli.
“Ombreggiando Maria/episkiasei soi” (Lc 1,35), lo Spirito Santo opererà l’incarnazione del Figlio di Dio nel suo seno. Da lei nascerà perciò un Uomo Nuovo, che darà inizio a un’umanità rinnovata radicalmente nella sua unione con Dio e nella fraternità ecclesiale e umana. Nascerà un popolo nuovo, rinnovato, messianico, il compimento di quello che era uscito dalla schiavitù dell’Egitto all’ombra della nube della Gloria di YHWH: la nube copriva la tenda (ebr. waykas/gr ekalypsen) e Mosè non poteva entrare nella tenda del convegno perché la nube “dimorava/ebr. šākan; gr. epeskiazen/ombreggiava”) su di essa (cf. Es 40,34). Quando la nube si alzava sopra la tenda, dopo averla ricoperta (ebr. waykas, v. 34) e “riempita/mālē’” (v. 35) con la sua “presenza abitativa” (ebr. TM)/”ombreggiamento” (gr. della LXX), il popolo partiva, diventando sempre più popolo della libertà, popolo “figlio primogenito” di YHWH (cf. Es 4,22).
Con la potenza di Dio Padre e di Gesù risorto, tramite lo Spirito Santo (“ombra”…), Pietro guarisce ogni tipo di male, anche quello psichico-morale-spirituale che colloca le persone nel campo avverso a quello di Dio (“spiriti impuri”).
I due “campioni”
Paolo, il secondo grande “eroe” degli Atti degli Apostoli (da qualcuno chiamato Atti dei due Apostoli), opererà le stesse guarigioni compiute da Pietro. Pietro guarisce un paralitico a Gerusalemme (At 3,1-10) e uno di nome Enea a Lida (9,32-33). Paolo guarisce il paralitico di Listra (At 14,8-12) e uomini con “spiriti cattivi” a Efeso, anche solo per contatto tramite fazzoletti (At 19,12). A Giaffa, Pietro rivivifica l’anziana Tabità/“Gazzella” (9,36-42). A Tròade, nella notte del primo giorno della settimana – la domenica, il giorno del Signore e della celebrazione dell’eucaristia – Paolo rivivifica il ragazzo morto dopo essere caduto per il sonno dal terzo piano della casa (At 20,7-12). Una bella fortuna. Non per niente si chiamava “Èutico/Eutychos”… (20,9).
Negli Atti degli Apostoli, Pietro e Paolo sono i due “campioni” della Chiesa, proveniente sia dal giudaismo che dalle genti. Lo Spirito di Gesù risorto si servirà di loro per far crescere la comunità dei credenti, comunità unita e serena che, nonostante le proprie fragilità (cf. Anania e Saffira, At 5,1-11), è resa capace di guarire e di rivivificare l’umanità segnata dalla malattia e dalla morte.
Su due piedi
La Pasqua è il giorno “uno”. La sera dello stesso giorno, giorno di risurrezione e di vita nuova, debordante la scansione temporale settimanale, Gesù risorto prende l’iniziativa, “viene/ēlthen” e si fa trovare “ritto in piedi/estē” in mezzo ai discepoli. Per paura che le forze ostili a Gesù (“i giudei”) facciano fare anche a loro la stessa fine riservata al loro Maestro, si sono riparati nella sala alta dell’ultimo pasto solenne, cena pasquale di addio. La paura li rinserra dietro a porte sbarrate con pesanti chiavistelli, gli antichi portoncini blindati dei nostri tristi condomini moderni.
Gesù non viene a “mani vuote”, ma mostra subito ai discepoli le mani che hanno compiuto tanto del bene, accarezzando bambini e adulti, spezzando il pane e guarendo corpi malati nel fisico e nello spirito. Mani aperte che donano anche da Risorto, come sempre hanno donato in vita fra gli uomini. Mani trapassate dai chiodi dell’odio trasfigurato in perdono e in riconciliazione. «E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32).
Il Risorto mostra anche “il costato/tēn pleuran” (trafitto, cf. 19,34). Caverna dei tesori, sorgente di donazione perfetta, anche post mortem. Non siamo di fronte ad un’apparizione, ma ad una cristofania, un “incontro pasquale”. Incontro di dialogo e di scambio di doni.
I doni del Risorto
Il primo dono del Risorto è la pace: «Pace a voi». Pace messianica, pienezza di benessere olistico, complessivo, integrale; non solo sconfitta del male, ma vittoria completa del bene.
Alla “paura/phobos” dei discepoli subentra il secondo dono del Risorto, “la gioia/echarēsan”. Una felicità fondata, sicura e non incertamente ridanciana, nervosa, incredula e artificiale. La radice è chiara: “vedono” il “Signore/Kyrios”. È Lui e non è Lui. È lo stesso della sua vita con gli uomini e, nello stesso tempo, è “diverso”, “trasfigurato”, “realizzato”, “arrivato”.
La pace, lo shalom messianico, è riaffermata come dono dall’alto. E su di essa si fonda lo slancio impresso dal terzo dono: la missione. La missione non è prima di tutto un compito (Aufgabe), ma un dono (Gabe) del Risorto. Un dono che fa essere la comunità dei discepoli quello che deve essere, realizzando la propria natura profonda. La comunità non vive per se stessa. Morirebbe di entropia. La vita cresce donandola.
La missione è dono trinitario, prolungamento dell’invio che il Padre fa del proprio Figlio, nell’amore dello Spirito. La missione della comunità non è solo esemplata su quella del Figlio – “come/hōs”, di paragone. La missione ecclesiale è fondata su quella del Figlio che la precede e l’accompagna – “hōs/sul fondamento”, fondativo.
Inviato dal Padre, il Figlio è venuto nel mondo ed è tornato al Padre (cf. Gv 1,1-18; 13,1-3). Ha portato agli uomini la rivelazione del volto e della volontà del Padre. Ha mostrato la sua gloria di amore totale, espressa nel volto, nel cuore, nelle parole e nel nome del Figlio (cf. Gv 1,6-8). Egli è venuto non per condannare gli uomini, ma per salvarli, per amarli (cf. Gv 3,17). E l’appuntamento finale è stabilito là, nel cuore del Padre. Siano tutti uno, come noi (cf. Gv 17,20-21.24)…
Il quarto dono del Risorto è il suo stesso “Spirito/pneuma”. Gesù lo “espira” dal suo interno di vita e di coscienza filiale e lo “ispira/insuffla/enephysen” sui suoi discepoli. È lo Spirito del Figlio, lo Spirito Santo, Spirito di santità e di grazia. Spirito “altro” dall’aria mefitica che pesa come una cappa maleodorante sui rapporti interumani e degli uomini con Dio. Sull’esempio di YHWH degli “inizi” (cf. Gen 2,7, enephysen), col suo soffio Gesù crea un’umanità nuova, esseri umani animati dallo Spirito del Figlio, dotati di un’altissima qualità di vita, irraggiungibile con accorgimenti terreni.
Gesù risorto non toglie niente all’uomo, ma gli dona tutto. Il meglio che possa desiderare: poter vivere nell’amore di donazione come il suo. Trovarsi perfettamente coerenti con i desideri più profondi di felicità coltivati nel proprio animo.
Il quinto dono di Gesù risorto è la possibilità del “per-dono dei peccati/aphēte tas hamartias”. È un dono che si innesta sul dono precedente dello Spirito di santità. Non un dono “giuridico”, ma un dono “spirituale”. Un dono di vita, che riconcilia chi ha sbagliato bersaglio e si è allontanato dalla meta. Un dono che rivivifica e fa risorgere i morti “dentro”, nello spirito. Risorgeranno gli uomini che lo vorranno…
Tommaso, il “gemello”
Tommaso, detto “il Gemello/Didymos”, è assente proprio nella sera clou, quella decisiva. Non sappiamo perché. Chi si separa dalla comunità, dal “collegio” (“uno dei Dodici”), non sa quello che perde. Per dono di Gesù però questo non diventa una perdita irreparabile.
Lungo la settimana i “colleghi” annunciano a Tommaso la loro esperienza di vita: «Abbiamo visto (e resta fissato nella nostra retina) il Signore/heōrakamen ton Kyrion». Tommaso, il gemello di tutti noi, espone i suoi dubbi di fede e il suo desiderio di vedere e di toccare i segni del Crocifisso-Risorto per poter arrivare alla fede. È un desiderio giusto dell’Amante verso l’Amato, il desiderio di vedere, toccare, stringere, baciare l’Amore. Le stesse cose desiderate e probabilmente compiute anche dagli altri Dieci (e da chi era con loro). Non c’è solo dubbio, c’è anche desiderio. Desiderio di poter sperimentare le stesse esperienze fatte dagli altri discepoli. Desidero legittimo (ma incompleto).
Diventa credente!
Finita la prima settimana di Pasqua, nell’“ottavo giorno” debordante ancora ostinatamente la normale scansione temporale “umana” e che apre al tempo tutto di Dio, Gesù si ripresenta e offre a Tommaso il suo corpo trafitto da toccare (e da abbracciare, amare, baciare, odorare, “penetrare”…). «Smetti di essere incredulo – gli dice il Risorto – e diventa credente/ginou… pistos».
Tommaso non tocca Gesù risorto, ma esce ugualmente nella più bella professione di fede di tutto il Nuovo Testamento: «Mio Signore e mio Dio/ho Kyrios mou kai ho Theos mou». Sei il mio Signore risorto da morte, vittorioso sull’Ultimo Nemico e sulla violenza omicida degli uomini. Il tuo amore crocifisso e risorto è la tua signoria su di me. Sei il mio Dio. Questa è la tua “dignità”, la tua compartecipazione alla vita del Dio Santo, “Altro”, perché vince l’odio con l’amore, la vendetta col perdono, la morte con la vita.
Tommaso ha veduto e ha creduto. È senz’altro beato. Ma il Risorto gli annuncia una sua ulteriore e più grande beatitudine: “Beati quelli che, pur vivendo alla fine del I secolo, quando fu redatto nella sua forma definitiva il Vangelo di Giovanni – o in tutti i secoli a venire –, hanno già creduto in me pur senza avermi visto come hai potuto avere in dono tu”.
Nessun vantaggio per chi ha avuto la grazia primaverile di poter accompagnare Gesù nella sua vita terrena, godendo della sua vista, della sua parola, dei suoi “segni” e dei doni propri dell’“inizio/archē” (cf. Gv 1,1).
La felicità piena non sta nella visione, ma nella fede. Non sta nell’abbraccio fisico, ma nell’ascolto della parola apostolica, nell’ascolto amante del vangelo trasmesso con la parola e la vita dagli apostoli e dai loro successori. In questo, Tommaso è stato “difettoso”. È il difetto che può afferrare in tanti momenti il cuore dei credenti, specialmente quelli triturati dall’odio e dal male che li circonda.
Forte giunge oggi a tutti gli uomini la voce del Risorto: “Pace a voi”.
“Pace a te, e diventa credente!”.
Ascolta gli apostoli!
Nessun commento