Nel cammino quaresimale la seconda tappa ci porta sul monte Tabor per invitarci, insieme ai tre discepoli, testimoni privilegiati dell’evento, a contemplare il mistero della Trasfigurazione. Cosa significhi tale collocazione si capisce subito una volta che si colga la posizione che esso occupa in tutti i tre i vangeli sinottici che ne parlano. In perfetta sintonia, Marco, Matteo e Luca pongono la narrazione immediatamente dopo il primo annuncio della passione, e le parole di Gesù rivolte ai «discepoli» (Matteo), alla «folla» (Marco) e a «tutti» (Luca), per invitare chiunque voglia seguirlo a prendere la propria croce per andare dietro a lui sullo stesso cammino se vuole salvare la sua vita.
Inevitabile pensare che, dopo tali parole, che oggi sono rivolte a noi che ci sentiamo suoi discepoli, ci colga un senso di inadeguatezza, di smarrimento, di vera e propria paura. Ed è facile, alla luce del discorso sulle “tentazioni”, il desiderio di tirarci indietro davanti alla durezza del percorso. Ecco perché il tema del sacrificio attraversa tutte le tre letture odierne.
Non il sacrificio, ma la fede
Il primo quadro ci presenta Abramo, al quale Dio chiede nientemeno di sacrificare Isacco, il «suo figlio», il suo «unico» figlio, il figlio «da lui amato» (Gen 22,1-2.9a.10-13.15-18). Questa progressione di tre qualifiche sembra fatta per esasperare la difficoltà della richiesta, per la quale si esige una fede che pare pura follia. C’è anche l’indicazione del «monte» come luogo nel quale consumare l’olocausto, probabile riferimento all’esistenza di un santuario cananeo dove venivano offerti sacrifici di vite umane.
Abramo sa che, per legge, i “primogeniti” devono essere offerti a Dio in riscatto (cf. Es 13,11), a indicare che è lui il padrone della vita, e anche per questo è disposto a obbedire a Dio, che gli chiede l’apparente assurdità di sacrificare l’unico figlio che gli era nato per la promessa fattagli dallo stesso Dio di garantirgli una discendenza, e per questo non esita a ubbidire.
Chissà quale dramma avrà sconvolto la sua anima, ma la sua risposta è la prova che, contro tutte le apparenze, egli non perde la fiducia in Dio. La risposta basta al Signore, che lo blocca non appena Abramo afferra il coltello per eseguire l’ordine, facendo dire a un angelo: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito».
Il racconto, che per il realismo della scena ha di che far paura, non ha lo scopo di esaltare i sacrifici umani, ma esattamente il contrario! Come nota la Bibbia di Gerusalemme, «all’origine può esservi un racconto di fondazione di un santuario israelita, dove, a differenza dei santuari cananei, non si offrivano vittime umane». Oltre all’esempio della fede di Abramo, «i Padri hanno visto nel sacrificio di Isacco la figura della passione di Gesù, il Figlio unico».
Gioverà ricordare che, per i musulmani, il Monte Moria sarebbe a Gerusalemme sulla grande spianata delle moschee; e che il sacrificio di Abramo è ricordato nella festa dell’Eid al-Adha, o festa del sacrificio.
Adamo e Cristo
Il sacrificio di Gesù è il tema della seconda lettura (Rm 8,31b-34), dove però qualche cosa cambia: è il Padre che dona il Figlio, ed è lui stesso che si offre “volontariamente” alla morte in riscatto per noi. La breve riflessione che fa san Paolo, estratta dallo splendido capitolo 8 della Lettera ai Romani, comincia infatti con una domanda retorica che canta l’immensità sconfinata dell’amore di Dio: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui?». Viene in mente l’Adeste fideles, notissimo canto natalizio, dove l’affermazione di Paolo diventa essa pure una domanda: Sic nos amantem, quis non redamaret? («Chi non riamerà uno che ci ha amato fino a questo punto?»).
Ed è un amore – questo sì – folle, che arriva a non prevedere né accuse né condanne. Penso di non trovare miglior commento a questa pagina grandiosa di quello che scrive Giuliana di Norwich nel capitolo 51 delle Rivelazioni, il più lungo e il più straordinariamente complesso della teologia della salvezza che se ne ricava. Il commento chiederebbe una lunga spiegazione che qui non è possibile. Il problema che la mistica si pone è come mai non riesce a vedere sul volto di Dio nessun segno di condanna per il peccato.
Dopo aver intrecciato nel racconto le due figure di Adamo e Cristo, mescolando ad arte ciò che riguarda il peccato di Adamo e la passione di Cristo, per cui a tratti non si capisce cosa sia detto dell’uno e cosa dell’altro, arriva alla conclusione che cito, ove lega le due persone sotto il segno della caduta: «Quando Adamo cadde, anche il Figlio di Dio cadde. Per la vera unione che fu fatta in cielo, il Figlio di Dio non può essere separato da Adamo, e con Adamo intendo ogni uomo. Adamo cadde dalla vita nella morte, nell’abisso di questo misero mondo e, dopo ciò, negli inferi. Il Figlio di Dio cadde con Adamo nell’abisso del ventre della Vergine, che era la più bella tra le figlie di Adamo, e questo per togliere da Adamo il biasimo sia in cielo che in terra; e con potenza lo strappò fuori dall’inferno» (Una rivelazione dell’amore, p. 249). L’incarnazione del Figlio ha avuto un effetto tale per cui «il nostro buon Signore Gesù ha preso su di sé tutto il nostro biasimo, e perciò il nostro Padre non può e non vuole attribuirci nessun biasimo come non farebbe con il suo amatissimo Figlio Gesù Cristo» (p. 250). Come dire: il Padre, quando guarda noi, vede suo Figlio.
La nube e la voce
Dopo due messaggi di conforto, il terzo quadro presenta l’episodio della Trasfigurazione nella versione di Marco (Mc 9,2-10). Il confronto sinottico mostra interessanti differenze fra le tre versioni. Segnalo alcuni dettagli propri di Marco.
L’evangelista, per esempio, unico fra i tre, non menziona il volto di Gesù, ma proietta tutta la trasformazione sul bianco delle vesti, con l’annotazione curiosa che le rende splendenti «come nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche». Forse c’è in Marco una sorta di ritegno comprensibile: il confronto diretto con il volto di Dio è temibile, e il fenomeno della trasformazione va intuito, non direttamente dal corpo, ma dal vestito che lo avvolge.
Impossibile non ricordare la splendida versione che ne ha dato Giovanni Bellini nel quadro oggi a Napoli Capodimonte, dove la scena comprende solo i sei protagonisti, isolati sullo sfondo di un magnifico paesaggio che trasuda una calma celestiale, e dove il biancore della veste è la prima cosa che si nota.
Diversa la versione di Raffaello, ora nei musei vaticani, che, al contrario, dinamizza tutte le figure, e riempie la parte bassa con la folla che Gesù troverà scendendo dal monte: un altro modo di vedere l’evento.
Mosè ed Elia, in colloquio con Gesù, rappresentano la Legge e i Profeti, sintesi dell’Antico Testamento di cui Gesù è il riassunto e il compimento.
La reazione di Pietro, «Rabbì, è bello per noi essere qui», con la proposta di allungare il momento preparando tre capanne, è giustificata in modo originale da Marco: «Non sapeva che cosa dire, perché erano spaventati». Lo spavento c’è anche in Matteo, che però lo colloca dopo che essi hanno udito la “voce”.
La “nube”, così come il “monte”, lasciato senza indicazione di luogo, rappresentano, come spesso nella Scrittura, i modi e i luoghi che Dio sceglie per trasmettere una qualche rivelazione, che qui si materializza nella “voce” simile a quella udita al momento del battesimo: «Questi è il Figlio mio, l’amato, ascoltatelo!». La novità è l’aggiunta, che mostra come la voce non sia diretta a Gesù, ma ai discepoli; ad essa si potrebbe dare anche una maggiore forza rendendola con «Ascoltate lui!».
La “visione” si dissolve all’improvviso, e Pietro deve imparare che tali momenti non significano un mutamento stabile, ma sono solo una pausa, una parentesi, che serve a dare un senso di direzione al cammino, non a bloccarlo. Lo scopo è preparare i discepoli a fronteggiare con coraggio il fallimento del loro Maestro, la paura che in un primo momento li avrebbe fatti scappare tutti, o quasi.
L’ultima parola chiude l’episodio nel segreto del cuore dei discepoli, perché Gesù non vuole che la gente si faccia illusioni ingannevoli sul suo conto. Tra l’altro, anche la motivazione offerta, che cioè essi avrebbero potuto parlarne «solo dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti», non è da loro capita, e resta misterioso «cosa volesse dire risorgere dai morti». Il problema non era tanto la possibilità di una risurrezione generale alla fine del mondo, ma come uno potesse risorgere subito dopo la sua morte. Ma Pietro se ne ricorderà bene quando riferirà questa esperienza (cf. 2Pt 1,16-18).
In sintesi, quello che si vede in questo episodio è il trionfo della vita contro la morte, la gloria di una bellezza sfolgorante e radiosa. Ad una condizione però: che ci si ricordi che tale bellezza, presente in persone e cose, è prima e più morale che fisica, rivelazione prima e più di ciò che è buono rispetto a ciò che è bello, è un dono offerto a sprazzi, e non una nostra proprietà di cui possiamo godere a piacere e a comando.
Il poeta G.M. Hopkins, in anni di desolazione, se lo è chiesto in A cosa serve la bellezza mortale? Osserva anzitutto che essa «è rischiosa, perché fa danzare il cuore», e «caldo mantiene l’intuito sulle cose che sono, / su ciò che è buono, dove un’occhiata può dominare più che fissare». Che fare? Si richiede che lo sguardo non sia «possessivo», ma quello che produce ammirazione, rispetto, e desiderio di imitare. E dunque: «Come incontrare bellezza? / Incontrala e basta; riconosci, a casa nel cuore, il dolce dono del cielo; / poi parti, lasciala sola».
Alla fine, mettendoci nei panni dei discepoli in cammino su un percorso che passerà dalla croce, potremmo pregare così, come ho letto in un inno pensato per un ritiro che aveva a tema la bellezza, basato su un riferimento evidente all’evento della Trasfigurazione: «Tu ci chiami al monte santo per rivelare ancor / Lo splendore del tuo volto che ci conforta il cuor. / Ogni traccia di bellezza che illumina il cammin / Non ci arresti, ma sostenga la pena del salir. / E così, di passo in passo, in vetta arriverem, / e le terre della gioia per sempre abiterem».