Sofonia
Il nome del profeta Sofonia ha due significati, corrispondenti alle diciture ebraica e greca: TM ebr. ṣepanyāh/sepanyāhû = “YHWH protegge”; LXX gr. Sophonias = “Il Saphon è YHWH”, identificando la montagna sacra del Saphon con Sion (Sal 48,3).
Sofonia profetizzò in Giuda sotto il regno di Giosia (640-609 a.C.), specialmente dal 640 al 630. Promosse con forza la riforma religiosa attuata dal pio re, combattendo l’idolatria proliferata sotto il regno dell’empio re Manasse (687-642 a.C.).
Quando, nel 622, fu scoperto nel tempio un rotolo – probabilmente il nucleo del libro del Deuteronomio –, lo si portò dalla profetessa Hulda, segno che Sofonia probabilmente era già morto.
Nella successione dei libri del canone ebraico, il libro di Sofonia occupa il posto che segue ai libri di Michea, Nahum, Abacuc. Secondo l’esegeta Donatella Scaiola, in un contesto di lettura canonica del “Libro dei Dodici (Profeti minori)/Dodekapropheton”, che, nella traduzione greca dei LXX, era considerato un libro solo, Sofonia sembra quasi sintetizzare il messaggio teologico dei tre libri precedenti.
Come i grandi profeti del VII secolo a.C., anche Sofonia attaccò l’idolatria cultuale, le ingiustizie, il materialismo, la trascuratezza religiosa, gli abusi delle autorità, le offese recate dagli stranieri al popolo di Dio. Una situazione insostenibile che avrebbe provocato il castigo di YHWH. Il “giorno del Signore” annunciato non sarà, però, solo di distruzione e di annientamento. Ci sarà una salvezza. Dalla città di Gerusalemme, contaminata e oppressiva, uscirà un resto che YHWH si sceglierà (Sof 3,13).
Le minacce pronunciate dal profeta intendono indurre un cambiamento profondo. Egli promuoverà con forza la riforma religiosa di Giosia, con la rinnovata celebrazione della Pasqua e la centralizzazione del culto a Gerusalemme.
Le proposte di individuazione della struttura letteraria sono varie. Seguiamo i suggerimenti di Scaiola (2016), specialista del “Libro dei Dodici/Dodekapropheton”.
La studiosa propone la seguente strutturazione:
1,1 Il titolo;
1,2-18 Il giorno del Signore: 1,2-6 Annuncio del giudizio (Contro la terra, Contro Giuda e Gerusalemme); 1,7-13 Contro i capi; 1,14-18 Il “giorno del Signore”;
2,1-15 Oracoli di giudizio: 2,1-4 Invito alla conversione; 2,5-15 Gli oracoli contro le nazioni (2,5-7 Contro i filistei; 2,8-11 Contro Moab e Ammon; 2,12 Contro Kush; 2,13-15 Contro l’Assiria);
3,1-20 Giudizio e promesse finali: 3,1-8 Giudizio su Gerusalemme (3,1-5 Denuncia del peccato di Gerusalemme; 3,6-8 La storia e le sue lezioni); 3,9-13 Dio purificherà il suo resto; 3,14-20 Promesse finali (3,14-17 L’inno alla gioia; 3,18-20 il ritorno finale).
Rallegrati, figlia di Sion!
Con un accorato lamento profetico, “Guai/Hôy”, all’inizio del capitolo (3,1), Gerusalemme era stata bollata come città «ribelle, contaminata e vessatrice», perché non ha obbedito a YHWH, non ha accettato la correzione, non ha confidato in YHWH, né si è avvicinata al suo Dio. Per questo i suoi principi sono dei leoni ruggenti, i suoi giudici dei lupi della sera che non lasciano niente per il mattino, i suoi profeti sono arroganti e uomini bugiardi, i suoi sacerdoti hanno profanato ciò che è santo, hanno fatto violenza alla Legge.
L’élite direttiva della comunità è andata incontro al fallimento totale: interessi privati in atti d’ufficio, corruzione, concussione, peculato, appropriazione indebita, malversazione, abuso di autorità e della credulità popolare, disastro ambientale intenzionale, manipolazione dei mass-media, hackeraggio e produzione sistematica di fake news…
Solo YHWH è “giusto/ṣaddîq” in mezzo a Gerusalemme (beqirbāh). Verrà l’ardore dell’ira di YHWH, il fuoco del suo zelo consumerà i criminali che non riconoscono la propria colpa (cf. v. 5) e tutta la terra (v. 8). Resterà un piccolo resto umile e povero, fiducioso in YHWH e sincero nei pensieri e nelle opere.
Dal lamento addolorato all’inno alla gioia, uno scoppio di quattro imperativi che invitano all’euforia liberatoria: “Rallegrati/Prorompi in grida di gioia/Esulta/ronnî” figlia di Sion – grida il profeta –, “acclama/rallegrati/hārî‘û”, Israele, “festeggia esultante/rallegrati e gioisci/śimḥî we‘olzî” “figlia di Gerusalemme/capitale/bêt Yerûšālām”. Quasi tutto il campo semantico della gioia è sfruttato a fondo nelle sue potenzialità espressive. Nel v. 17 si aggiungeranno altri due verbi, che descrivono l’esultanza di YHWH stesso: “esulterà/yāśîś” e “gioirà/yāgîl” a causa di Gerusalemme.
Sono sentimenti di gioia che si esprimono anche esternamente (rānan; ‘ālaz; rû‘) e altri che rimangono più contenuti nell’intimo della persona (śāmaḥ; gîl; śûś). Questi versetti fanno la pariglia con Os 2; Is 49.54.62.
Giustizia restitutiva
Il passaggio dal lamento (3,1) alla gioia incontenibile (3,14ss) è dovuto all’opera di YHWH. La gioia è dovuta a lui, a YHWH in persona.
Dapprima egli ha compiuto un’azione negativa di rimozione in due tempi.
In un primo tempo ha “allontanato/sûr” da Gerusalemme i “giudizi/tiranni/avversari/mišpātaiyk”. Dopo la prima fase dell’inchiesta preliminare, YHWH “ha allontanato, ha tolto completamente, ha modificato” le proprie conclusioni.
Gerusalemme era stata rinviata a giudizio con accuse molto gravi a proprio carico. In sede di giudizio però YHWH ha ribaltato completamente le conclusioni alle quali era arrivato il GIP (che era sempre Lui!). Il giudice monocratico non ha voluto confermare automaticamente le richieste del GIP. Esse avrebbero previsto inevitabilmente una sentenza di condanna molto pesante.
A guardar bene, sarebbe stata pienamente giustificata. Ineccepibile, grazie all’accurata inchiesta preliminare. La “giustizia” di Dio però non è di tipo forense, puramente distributiva. Non è una giustizia “umana” («sono Dio e non uomo», Os 11,9), ma una giustizia divina, salvifica, restitutiva, riabilitante il reo.
In un secondo tempo, dopo aver rinfacciato con severità all’imputata i propri addebiti, YHWH l’ha condannata… al perdono! Che le accuse, motivate e infamanti, bastino a farle provare vergogna, a riconoscere i propri errori e responsabilità, e a decidere di cambiar vita.
YHWH “ha cacciato via/pinnāh” i nemici di Gerusalemme. Nemici esterni certamente, ma soprattutto quelli interni. Un quinta colonna che svuota dall’interno le energie spirituali vive e feconde, per avvelenarle con la corruzione e l’autoreferenzialità onnivora. Traditori che pugnalano alle spalle, furtivi, e consegnano la città dell’uomo al suo nemico. Idolatria spirituale e sapienziale che chiude un cielo plumbeo di acciaio sopra le teste, di modo che l’umanità possa vivere solo guardando in basso, alle proprie vie strette e alle rotte di piccolo cabotaggio, monche di prospettiva e di una strategia umanizzante. Si salvi chi può e vinca il più forte!
YHWH re in mezzo a te!
Si “ribaltano” le conclusioni del GIP: via i nemici! Con una potente azione positiva, YHWH si insedia come re in città, “in mezzo a te/beqirbēk”. Sarà lui stesso in persona a governarla direttamente (cf. 1Sam 12,12). I suoi intermediari l’hanno tradito, hanno stravolto la sua volontà di salvezza e di vita piena.
YHWH porterà serenità alla gente. La città non avrà più da temere per l’angoscia del domani, per la ferocia subdola dei “nemici”. “Non temere/’al tîrā’î”, “non cadano le tue braccia/non scoraggiarti/’al yirpû yādāyik”, sarà il messaggio chiaro fatto girare per le vie di Gerusalemme.
YHWH è un “soldato vittorioso/potente salvatore/prode che salva/gibbôr yôšîa‘”. «Esulterà di gioia per te, “farà silenzio nel suo amore/yaḥarîš be’ahăbātô”, gioirà per causa tua con grida di gioia» (Scaiola).
La radice ebraica ḥrš significa “tacere, fare silenzio”. Non vedendo il nesso col contesto, la LXX ha tradotto col greco “kainiei se/ti rinnoverà” (lectio facilior seguita anche della CEI 2008). Anche Alonso Schökel-Sicre traducono con “rinnovando”, leggendo yḥdš al piel invece della lezione yḥrš del TM. Ipotizzano quindi il classico errore scribale di scambio di lettura fra la lettera resh r e la lettera dalet d, molto simili nella grafia ebraica (errore “corretto” dalla traduzione greca della LXX). Scaiola mantiene la lectio difficilior del TM («farà silenzio nel suo amore») e la spiega così: «non continuerà ad accusare Gerusalemme per i suoi misfatti».
YHWH è re in mezzo alla città, alla città-madre delle città-figlie – o città sorelle minori, cf. Ez 23,4 Oolà è Samaria e Oolibà è Gerusalemme, sua sorella – che la circondano. Si deve tradurre bene Is 40,9: «Sul monte alto, salitene (‘ălî-lāk, imperativo femminile più la preposizione “le/per” con suffisso di seconda persona singolare femminile = dativo etico); “Sion che sei aralda di buone notizie/mebaśśeret Ṣiyyôn” (participio piel singolare femminile; Sion è soggetto, non oggetto!), alza (imperativo seconda persona singolare femminile) con forza “la tua voce/qōlēk” (sostantivo più suffisso di seconda persona singolare femminile), Gerusalemme (che sei) aralda di buone notizie, alza (imperativo seconda persona singolare femminile) (la voce), non avere paura (imperativo seconda persona singolare femminile) di’ (imperativo seconda persona singolare femminile) “alle città di Giuda/le‘ārê Yeûdāh”: Ecco il vostro Dio».
In Is 40,9 – a differenza della traduzione CEI 2008 – Gerusalemme è vista aralda di buone notizie per le città di Giuda che la circondano.
Sofonia proclama quindi: Gioisci, Gerusalemme, perché il tuo re è in mezzo a te, e gioisce con te e per te!
Che cosa dobbiamo fare?
Giovanni predicava la necessità di un’immersione/battesimo rituale (unica) che fosse segno esterno della volontà di cambiamento di mentalità e potesse ottenere il perdono dei peccati (da parte di Dio). Egli fonda un movimento ascetico, con uno stile di vita profetico spartano nel vestito e nel cibo. Opera nel deserto e non vive più in comunità come probabilmente aveva fatto in precedenza per un certo tempo a Qumran.
La sua accoglienza delle persone era rude, al limite dell’offesa personale: “razza di vipere”, rinfacciava alle folle che venivano a lui, uscendo dalle loro città e villaggi (ek-poreuomenois, v. 6). Egli metteva a nudo una possibile falsa coscienza: non pensassero di cavarsela nella vita spirituale con un atto religioso privo di frutti concreti, idonei, qualificati, giuridicamente e religiosamente all’altezza (karpous axious) della conversione mentale (metanoias) professata a parole. Nessun presunto automatismo salvifico da rivendicare a causa della pura e semplice discendenza carnale da Abramo. Un giudizio severo e tagliente aspetta coloro che non fanno “un frutto buono (e bello)/karpon kalon”. Una scure è pronta alle radici dei loro alberi, destinati ad alimentare il fuoco (della Geenna).
A differenza degli altri sinottici, l’evangelista Luca presenta Giovanni il Predicatore (e Battezzatore) non solo come ispido profeta ascetico che annuncia il severo giudizio imminente di Dio, che taglia e separa il bene dal male, i buoni dai cattivi. In questo modo si potrà andare a Dio per separazione. Prospettiva teologica e spirituale che attraversa tutto il Primo Testamento.
Luca presenta Giovanni anche nella veste di maestro attento ed equilibrato di vita spirituale e morale, che dispensa consigli mirati alla condizione sociale di ciascuno di coloro che lo ricercano per avere delle indicazioni su come poter cambiare la propria vita.
Le folle
La gente che interpella Giovanni – uscendo con un certo impegno dalle proprie città e villaggi – è mossa da sincera volontà e apertura di cuore a intraprendere una vita religiosa e morale rinnovata e concretamente impegnata nel bene. Chiedono come poter declinare concretamente l’appello generico di Giovanni a fare frutti “degni” di conversione, espressivi di un vero cambiamento di vita già manifestato con il sottoporsi al battesimo/immersione penitenziale proposta da lui in vista della remissione dei peccati.
Alle folle che chiedono indicazioni più precise consequenziali (oun) alla predicazione da lui impartita (ti oun poiēsōmen, congiuntivo deliberativo: «cosa dobbiamo fare dunque?», ripetuto altre due volte senza oun, vv. 12.14), Giovanni prospetta un cammino di solidarietà concreta ed esigente: il 50% (!) delle tuniche (chitōn), possedute non in abbondanza (una sulle due possedute!), “vanno spartite/metadodotō” in un dono distributivo (meta + didōmi) tendente a creare una situazione di parità e di uguaglianza nella dignità. Chi ha due tuniche e le “spartisce” donandone una a chi non ne ha neppure una, genera una situazione nuova di vita “alla pari”.
Il chitōn fa parte del vocabolario greco (lat. tunica; identico per contenuto all’ebraico kuttōnet) «indica la sottoveste (di lino o lana, lunga fino al malleolo o al ginocchio, con lunghe o mezze maniche), derivata dal semplice śaq (capo di vestiario a sacco), molto vario per foggia e confezione, che veniva portata sulla nuda pelle o sopra una camicia di lino ed era usata sia dai ricchi che dai poveri. Chitōn e himation (sottoveste e sopravveste) formavano insieme l’abito (cf. Mt 5,40; Lc 6,26; At 9,39)» (Dent, 1906-1907). Himation «significa o l’abito in genere, al plur. le vesti, o particolarmente la sopravveste, il mantello provvisto di aperture per le braccia: tunica o mantellina» (Dent, 1737). Mt 5,40 pensa a un processo con una sequenza che parte dalla veste che sta sopra a quella che sta sotto: chitōn → himation; il parallelo Lc 6,29, che parla di un’aggressione, segue invece un ordine inverso: himation → chitōn.
Lo stesso stile di comunione è richiesto per quanto riguarda il cibo, “i viveri/ta brōmata”. Non si indica una percentuale, ma una “somiglianza/homoiōs” di stile compartecipativo. In tal modo si realizzerà il comandamento/la constatazione che nessuno in Israele sia bisognoso (cf. Dt 15,4; At 4,34).
Cibo e vestiti sono beni essenziali per la sopravvivenza e per la dignità dell’uomo. Giovanni richiede una solidarietà, una compartecipazione concreta esigente, che tocca sul vivo, tocca la carne. Non è possibile voltarsi dall’altra parte, richiedere preventivamente a chi è in stato di necessità carte di identità e passaporti, chiudere cuori, frontiere e porti.
La situazione concreta, che tocca spesso una moltitudine di gente, va gestita evidentemente a livello politico in modo equilibrato e attento ai diversi valori in campo. Lo stimolo evangelico (di un personaggio a cerniera fra AT e NT!) resta però pur sempre valido come indicazione profetica che detta la linea di fondo perché non si crei nelle persone un atteggiamento persistente di chiusura egoistica e di grettezza mentale, alla ricerca continua di improbabili capri espiatori.
«Siamo autorizzati a pensare», ha affermato l’arcivescovo di Milano Mario Delpini il 7 dicembre 2018 nel discorso alla città tenuto alla vigilia della festa di sant’Ambrogio. Il consenso costruito «con un’eccessiva stimolazione dell’emotività dove si ingigantiscano paure, pregiudizi, ingenuità, reazioni passionali», non giova, ha pure ricordato.
E non rallegra neppure il titolo del rapporto Censis 2018: “Sovranisti psichici”, è l’espressione coniata per delineare lo stato mentale degli italiani sempre più rinchiusi in se stessi, incattiviti e senza grandi prospettive per il lungo termine.
La solidarietà non impoverisce, ma fa arricchire in umanità, grandezza di cuore e gioia di vivere.
Peccatori pubblici
Come le folle, anche alcuni “pubblicani/telōneis”, venuti “per farsi battezzare/per essere immersi/baptisthēnai” chiedono a Giovanni che cosa debbano fare, rivolgendosi a lui con rispetto col titolo di “maestro/didaskalos”, maestro di sapienza.
Sono peccatori pubblici perché durante il giorno stanno seduti al telōnion, il banco del gabelliere, l’ufficio doganale o l’ufficio dell’esattore delle imposte. È interessante conoscere questa figura giuridico-economica, citata spesso nei Vangeli.
Il telōnēs è «una persona che acquista dallo stato l’esercizio di diritti statali di tassazione e d’imposta e riscuote le imposte di debitori» (Michel, cit. in Dent, 1604). «L’appalto annuale a privati di diritti statali di tassazione e d’imposta, già praticato nelle città-stato della Grecia, venne adottato dai regni ellenistici dei diadochi. L’appaltatore doveva raggiungere nel corso dell’anno la somma dell’appalto; l’eccedenza rimaneva a lui; di un disavanzo doveva rispondere l’appaltatore e i suoi garanti.
Anche nella repubblica romana si sviluppò il sistema dell’appalto delle imposte. A partire dalla fine del III sec. a.C. si formò una vera e propria classe di appaltatori, l’ordo publicanorum, che apparteneva all’ordine equestre.
Per poter acquistare l’appalto di dazi di un’intera provincia, erano necessari capitali giganteschi, che venivano raccolti grazie al costituirsi di società di appaltatori (societas publicanorum). La riscossione delle imposte avveniva per mezzo di impiegati (partitores).
La maggior parte degli storici suppone che i romani abbiano introdotto questo sistema fiscale nella Palestina occupata; il telōnēs dei sinottici sarebbe stato quindi l’impiegato di una società romana appaltatrice della riscossione dei tributi […]. Ma specialmente l’analogia con il vicino Egitto favorisce l’ipotesi che in Palestina – a prescindere dagli anni 63-44 a.C. – sia stato mantenuto il sistema ellenistico dei piccoli appalti fino alla fine del I sec. d.C. […].
Il telōnēs al tempo di Gesù era quindi un giudeo benestante che aveva avuto in appalto singole tasse (per posteggio al mercato, pedaggio) o imposte (sull’industria, sulla casa, imposte di consumo). La letteratura ellenistica giudica assai sfavorevolmente il telōnēs. La letteratura rabbinica lascia trasparire già per il I sec. d.C. un inconciliabile contrasto tra farisei e pubblicani […]. Un telōnēs che avesse voluto entrare in un’associazione di farisei doveva rinunciare alla sua professione e risarcire tutti coloro che erano stati da lui truffati» (Dent, pp. 1604-1605).
Nel mondo giudaico l’esattore delle tasse era ostracizzato dalla vita religiosa, considerato un impuro per il contatto continuo con il denaro e con gli odiati “pagani”, disprezzato ed emarginato a livello sociale per il suo collaborazionismo con il potere occupante romano e per le truffe, imbrogli e vessazioni varie connesse al suo lavoro e per il margine di profitto non determinato che ne poteva trarre. Tutto ciò lo spingeva a un condotta morale deprecabile e altamente mal vista dalla popolazione giudaica locale.
Giovanni non chiede loro di abbandonare il loro mestiere (come invece richiedevano i farisei), ma di comportarsi rettamente, non esigendo di più di quanto fissato loro (senza cercare “eccedenze” e “creste” varie). Egli segue una legge della gradualità e chiede il massimo di bene loro possibile in quel momento, nella tensione continua verso l’ottimo: il vero, il buono, il giusto, il bello.
Militari
Anche alcuni soldati (“strateuomenoi = militari, coloro che servono come soldato nell’esercito/strateia”, in servizio permanente (il participio presente del verbo deponente indica continuità; termine meno frequente di stratiōtēs, che ricorre invece 26 volte nel NT), chiedono che cosa debbano fare. Senza discutere dei massimi sistemi di pace e guerra, e senza inoltrarsi in affermazioni denigratorie verso un lavoro di salariati inquadrati con ogni probabilità in truppe ausiliarie locali al soldo dell’esercito romano, Giovanni indica tre atteggiamenti praticabili immediatamente per migliorare la loro vita e quella delle popolazioni locali.
Giovanni li invita prima di tutto a non a non “vessare/scuotere/maltrattare/diaseiō” la gente. Il verbo è un termine tecnico che si trova in vari papiri del tempo (Pap. Oxy. II 240,5 [37 d.C.!]; 248,5 [50 d.C.]. Pap. Tebt. 143.26 [118 a.C.]), e si riferisce per lo più all’uso della forza per estorcere denaro.
La seconda raccomandazione/comando è quella di non “incolpare falsamente/diffamare/sykophanteō” nessuno (cf. “estorcere” in Lc 19,8, in bocca a Zaccheo).
La terza è quella di contentarsi della propria paga, senza ribellarsi in modo violento e senza cercare compensazioni nella violenza inflitta alla popolazione civile.
Sono tre suggerimenti/comandi di interpretazione sapienziale della Legge, dettate da Giovanni che, oltre che come profeta che annuncia il giudizio con toni apocalittici, è presentato anche come maestro di sapienza. La “legge della gradualità” può far progredire tutti nel cammino morale e spirituale.
Il più forte
La gente è sulle spine e si domanda se Giovanni sia il Cristo, il Messia atteso. Da lui si aspetta il giudizio, la vittoria definitiva sul male e l’inaugurazione del regno di Dio. Giovanni riprende il suo aspetto di profeta apocalittico, dai toni severi e minacciosi, che annunciano soprattutto il giudizio di Dio. Egli relativizza la sua persona, rispetto a uno “più forte/hischyrotereros” che “viene” (quindi con probabilità il titolo di una figura messianica).
Giovanni riconosce che il suo è un battesimo che si limita a essere un rito penitenziale indicante una volontà di cambiare mentalità, di convertirsi e ottenere il perdono da Dio.
Colui che verrà, il più forte, immergerà le persone “nello Spirito Santo/en pneumati hagiōi” infuocato che scioglie e purifica, separando il materiale prezioso e “vero/buono” dalle scorie “false/inutili”. Un giudizio di “separazione” espresso anche con l’esempio simbolico della pala tenuta in mano dal contadino/giudice che, lanciando in aria le spighe di grano già pestato dalle zampe dell’asino che gira legato intorno al palo, le espone all’azione “giudicatrice/separatrice” del vento (pneuma). Il grano che ricade a terra verrà raccolto nel granaio del regno di Dio, la pula e la paglia saranno invece bruciate come scoria nel fuoco inestinguibile della Geenna, “luogo” situato all’opposto di dove si trova Dio.
I lacci dello Sposo
Giovanni si dichiara non “hikanos” di slegare i lacci del più forte che “viene”. Non si tratta tanto dell’espressione di grande umiltà da parte di Giovanni, che si pone a un livello inferiore a quello già basso dello schiavo ebreo, che tuttavia non era tenuto a slegare i calzari del suo padrone. Questa immagine, riportata da tutti e tre i sinottici (Mt 3,11 [“portargli i sandali”]; Mc 1,7 [“sciogliergli il laccio”]; Lc 3,16 [“sciogliergli il laccio”]) e “svelata” nel suo significato profondo dall’evangelista Giovanni (3,29-30), rappresenta un “codice nuziale”, alludendo all’istituto giuridico del levirato (cf. Dt 25,9-10).
Un fratello (levir in latino) era tenuto a sposare la cognata che fosse rimasta vedova senza figli. I figli nati dal matrimonio leviratico entravano nella linea genealogica del fratello morto e avevano parte alla sua eredità. In tal modo si garantiva la sussistenza e la continuità della discendenza del fratello morto, ma questo costituiva un certo “peso” per il levir, che non “guadagnava” nulla dall’assolvimento del suo impegno.
Chi si fosse rifiutato sarebbe stato sostituito dal parente più prossimo disponibile. Questi avrebbe scalzato il fratello indegno e sarebbe diventato lo sposo della vedova. Il testo legislativo di Dt 25,9 descrive la scena drammatica della cognata rimasta vedova che toglie il sandalo dal piede del concognato e gli sputa in faccia dicendo: «Così si fa all’uomo che non vuole ricostruire la famiglia del fratello». Il testo prosegue annotando: «La sua sarà chiamata in Israele la famiglia dello scalzato» (Dt 25,10). Più tranquilla la scena nel testo narrativo di Rt 4,8, dove l’avente diritto-dovere del levirato rinuncia con semplicità al suo impegno, si toglie spontaneamente il sandalo e lo dà a Booz (Rt 4,8), che aveva ben tessuto la sua tela per arrivare al traguardo della bella moabita…
Giovanni riconosce con onestà di non avere la “capacitas” giuridica di “sciogliere/lysai” il laccio dei suoi [= del Più Forte] sandali”, e annuncia di non volersi arrogare il potere di sottrarre al legittimo sposo (sciogliere il legaccio dei suoi sandali) i suoi legittimi diritti sulla sposa.
Profeta apocalittico, maestro di sapienza morale, paraninfo dello Sposo (cf. chiaramente Gv 3,20-30).
Da profeta, Giovanni ammonisce a prendere sul serio il giudizio che la vita stessa emette sull’uomo, donandogli fin d’ora una vita buona nel caso scegliesse di seguire la parola di Dio.
In qualità di maestro di sapienza, egli insegna a tutti la possibilità di vivere serenamente la “legge della gradualità” anche rimanendo nella propria condizione di vita.
Quale «amico dello sposo» (Gv 3,29), Giovanni annuncia l’avvento de “Il Più Forte/ho ischyroteros”, l’Infuocato dallo Spirito, lo Sposo.
«Rallègrati, il Signore è re in mezzo a te».
«Una voce! L’amato mio!
Eccolo, viene
saltando per i monti,
balzando per le colline. […]
Ora l’amato mio prende a dirmi: “Àlzati, amica mia, mia bella,
e vieni presto!”» (Ct 2,8.10).
Questo piú che un commento é una richiesta per el Signore Roberto Mela. Sono incuriosito della applicazione (molto interesante al mio avviso) che lui fa della slegatura dei sandali col testo del Deut riguardante l’istituzione del levirato. Potrá lui indirizzarmi verso qualche riferimento bibliografico al riguardo? Tante grazie dell’attenzione. Dio vi benedica per il vostro servizio.