Dire pasqua equivale ad aprire il cuore alla gioia: una gioia speciale, però, perché essa sgorga non solo dal sepolcro vuoto di Gesù ma anche dal suo costato ferito. Quella ferita allora diventa una feritoia, attraverso la quale ci è dato di intravedere qualcosa dell’amore infinito di Dio verso l’intera umanità, verso ciascuno di noi.
Le letture di questa domenica, se debitamente interpretate e accolte dal seno della Chiesa madre e maestra, ci aiuteranno a scoprire questo tesoro misterioso: la gioia vera, quella che solo Gesù offre ai suoi discepoli, proprio per il suo carattere pasquale, può venire anche dall’esperienza del dolore e della morte.
1. In questa pagina degli Atti degli apostoli Luca riferisce circa un interrogatorio con il quale il sommo sacerdote del tempio intende appurare il comportamento degli apostoli, ai quali era stato espressamente proibito di parlare nel nome di Gesù. Una proibizione assurda, ma è di questo che si avvalgono coloro che esercitano il loro potere con la sola arma della forza.
Non c’è alcun dubbio che qui Luca intende sottolineare la grande differenza tra il comportamento degli apostoli prima della pasqua e il loro comportamento dopo la pasqua di Gesù. Essi, ormai, hanno superato ogni tentazione di arrivismo, ogni residuo di paura; anzi si ritengono onorati di poter soffrire a causa del nome di Gesù: «Essi allora se ne andarono via dal sinedrio, lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù» (At 5,41).
In modo speciale, merita attenzione la figura di Pietro, che rappresenta e parla a nome anche degli altri apostoli. Proprio lui, che prima aveva ampiamente dimostrato alcuni aspetti negativi della sua personalità, ora manifesta un coraggio da leone e non si lascia intimidire dalle minacce che gli vengono rivolte. Veramente in Pietro la grazia ha superato la natura: inaspettatamente, Gesù lo ha scelto come capo del collegio apostolico.
«Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini»: in questa espressione possiamo riconoscere il criterio di valutazione alla luce del quale Pietro, e con lui tutti gli apostoli, intendono procedere nel rendere testimonianza del risorto Signore. Quello che segue non è altro che una sintesi della loro fede pasquale.
2. Il salmo responsoriale corrisponde a un inno di lode a Dio liberatore. Lo dice chiaramente anche il ritornello: «Ti esalterò, Signore, perché mi hai risollevato». Ma di quale liberazione si tratta e, soprattutto, come si comporta l’orante dinanzi al Signore che lo ha visitato nella sua miseria?
Il salmista sembra essere quella una persona che, forse a causa di una malattia o di un grave pericolo, era arrivata sulla soglia della morte: «Hai fatto risalire la mia vita dagli inferi… Hai mutato il mio lamento in danza». Una situazione nella quale può trovarsi ogni uomo e ogni donna che vivono sotto il sole e dalla quale ognuno di noi desidererebbe essere liberato.
In questa luce, la malattia è interpretata come una prova che Dio manda a coloro che egli ama, dai quali si aspetta una dimostrazione di totale abbandono alla sua volontà, talvolta misteriosa ma sempre paterna. Ci vuole certo una grande fede per arrivare a tanto, ma essa anima e sostiene la vita di tante persone.
Ancor più profondamente la malattia ha offerto all’orante l’opportunità di maturare nella sua fede. Egli infatti afferma: «… perché la sua collera dura un istante, la sua bontà per tutta la vita». Perciò il salmista esclama: «Signore, mio Dio, ti renderò grazie per sempre».
L’inno di lode si trasforma poi in una supplica filiale: «Ascolta, Signore, abbi pietà di me; Signore, vieni in mio aiuto!». In questo salmo si intrecciano motivi di fede, di lode e di supplica: una preghiera degna di essere valorizzata da ciascuno di noi.
3. Del libro dell’Apocalisse questa domenica ci presenta un’altra pagina nella quale Giovanni, il veggente, parla in prima persona: «Io, Giovanni, vidi, e udii voci di molti angeli attorno al trono». Abbiamo così la possibilità di immaginare la scena, dentro la quale avviene questa quasi liturgia celeste.
Ciò che Giovanni vede e attesta corrisponde esattamente alla fede della comunità cristiana, alla quale l’evangelista rivolge il suo scritto: è la fede nella pasqua di Gesù, cioè la certezza della sua vittoria sulla morte e sulle forze del Male.
L’Agnello immolato e degno di ricevere onore e gloria è icona di Gesù. In lui, infatti, si identificano l’immagine del pastore e dell’agnello, come, del resto, si identificano le immagini del servo e del Signore. L’icona dell’agnello ci rimanda a Isacco, che è stato legato per essere condotto al sacrificio. In questo modo è stato trattato Gesù nel corso della sua passione; ma ora egli vive nella gloria, alla destra del Padre, per intercedere per noi.
All’Agnello tutte le creature del cielo e della terra elevano il loro canto di lode: «A Colui che siede sul trono e all’Agnello lode, onore, gloria e potenza, nei secoli dei secoli». Il clima pasquale che stiamo vivendo ci aiuta ad entrare in questo coro di voci che acclamano a colui che ha vinto, la cui vittoria è pegno e caparra della nostra vittoria sul peccato.
4. Sempre dal vangelo di Giovanni, questa liturgia ci presenta una pagina assai complessa che, tuttavia, non è difficile interpretare secondo alcune scansioni. Avremo così l’opportunità di rilevare i tratti pedagogici di Gesù nei confronti dei suoi discepoli, verso i quali si sente in dovere di completare quell’opera di formazione che aveva iniziato qualche anno prima.
Gesù risorto si manifesta, anzitutto, ai discepoli sul mare di Tiberiade in un modo del tutto naturale, così che gli apostoli abbiano una prima esperienza del Risorto e quindi si convincano della realtà della sua presenza tra di loro. Una presenza “nuova”, ma non tale da rendere impossibile l’identificazione con il rabbino di Nazaret. È esattamente ciò cui arriva l’apostolo Giovanni quando esclama: «È il Signore!». Un riconoscimento che suona come un atto di fede e che induce Pietro a gettarsi nelle acque per raggiungere il suo Maestro.
È della massima importanza questo dettaglio, e l’evangelista insiste nel sottolinearlo, perché esso costituisce uno dei trait-d’union tra il ministero prepasquale e quello postpasquale di Gesù e, quindi, la legittimità e la fondatezza della missione della Chiesa. Questa nota l’evangelista Giovanni la condivide manifestamente con Luca (cf. la narrazione dei discepoli di Emmaus) e si ricollega, in qualche modo, con l’affermazione iniziale del suo vangelo: «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (1,14).
In un secondo momento, il Risorto si rivolge all’apostolo Pietro e gli chiede se lo ama. Lo fa per tre volte, quasi per riscattarlo dal triplice rinnegamento nel quale era caduto. Non possiamo non dare grande rilievo a questa nota pedagogica di Gesù: il rinnegamento lo si può riscattare solo con l’amore!
Ma lo fa anche per prepararlo al suo speciale ministero nella Chiesa a favore di tutti i suoi fratelli e sorelle nella fede. Lo si evince dalle parole con le quali il risorto Signore suggella il dialogo con Pietro. Infatti, prima afferma: «Pasci le mie pecore», affidandogli il ministero, e poi gli dirà: «Seguimi», per fargli intendere che, come si è messo al seguito di Gesù prima della pasqua, così dovrà continuare a camminare dietro a Gesù anche nel suo futuro servizio alla Chiesa e al mondo.