La seconda domenica di Avvento quest’anno è l’8 dicembre; per questo motivo è stato concesso alle diocesi italiane di poter utilizzare nelle celebrazioni eucaristiche i testi liturgici della solennità dell’Immacolata Concezione. Questo dogma, strettamente legato alla dottrina agostiniana del peccato originale, non ha fondamenti espliciti nei brani evangelici, sempre essenziali nel menzionare Maria, della cui infanzia tutto si tace.
In questa solennità si legge il vangelo dell’annunciazione dell’angelo a Maria, narrato solamente da Luca. Nel passo che precede quello odierno si raccontava la straordinaria annunciazione dell’angelo Gabriele a Zaccaria sino alla nascita di Giovanni, il futuro Battezzatore; Zaccaria viene invitato a «non temere» (me phobou, Lc 1,13) e lui esplicita la sua perplessità dovuta all’età avanzata sua e della moglie Elisabetta.
Per una persona eccezionale, un’annunciazione eccezionale
Con un abile parallelismo, l’evangelista costruisce la narrazione teologica dell’annunciazione a Maria, mostrandone un’eccezionalità ancora maggiore rispetto a quanto avvenuto con gli anziani Zaccaria ed Elisabetta, quest’ultima menzionata al termine per imparentare le due scene.
Per entrambe le occasioni, Luca dice che l’angelo Gabriele – quello del «tempo della fine» (Dn 8,17), cioè della pienezza della storia – non semplicemente “appare” ma viene precisamente inviato (apostellō) da Dio.
Nel vangelo di oggi, però, è direttamente Maria, la vergine, a ricevere nella «città» di Nazareth – un piccolo villaggio di un centinaio di abitanti, mai menzionato prima nella Bibbia – la lieta notizia della propria gravidanza non solo di un uomo «grande davanti al Signore» (Lc 1,15), ma proprio del «Figlio dell’Altissimo» (Lc 1,32).
Il saluto che l’angelo riserva a Maria è maggiore di quello che era stato rivolto a Zaccaria: Zaccaria rimase chiuso in sé stesso e incapace di comunicare perché, nonostante la rassicurazione, non credette all’angelo; non ne fece direttamente esperienza sino all’approvazione del nome “inedito” Giovanni, scelto da Elisabetta sulla base dell’annuncio dell’angelo. Maria invece, vivendo il suo stupore – si precisa per le “parole” dell’angelo, e non tanto per l’angelo in sé – con lo Spirito che era in lei, decide di mettersi in cammino, di aprirsi, di comunicare.
Le tinte sfumate sono caratteristiche dello stile lucano, che nondimeno attinge al repertorio del Primo Testamento; come, ad esempio, il riferimento al “fare ombra” (episkiazó) dell’Altissimo, in Lc 1,35, che rievoca Es 40,35 («la nube dimorava su di essa [la tenda del convegno]») e i Sal 90,4 («ti coprirà con le sue penne») e 139,8 («proteggi il mio capo»).
Così come tutto sembra compimento anche delle profezie di Natan sul re Davide, dove si parla della stabilità eterna del suo «trono» (2Sam 7,13.15-16) e del fatto che Dio assicura: «Io gli sarò padre ed egli mi sarà figlio» (2Sam 7,14), rendendo quell’uomo «grande, poiché una casa farà a te il Signore» (2Sam 7,9).
Il compimento implica un certo rovesciamento: se Davide ha il titolo onorifico di “figlio di Dio” in quanto re di Israele, Gesù ha un ruolo messianico in quanto Figlio di Dio, ma in un’accezione ancora più forte rispetto a quello riservato al suo predecessore, concepito più ordinariamente da un uomo e da una donna. In questo modo, seguendo la creatività dello Spirito, anche lo stesso evangelista fonde in questo dialogo speciale il tema messianico e l’eccezionale novità che si sprigiona dall’interezza dell’evento cristiano, superando addirittura la grandezza del profeta Giovanni Battista e quella del re Davide.
Dio fa il primo passo
L’uditorio ellenistico di Luca conosceva i semidei della mitologia greca, nati da donne o ninfe messe incinte dagli dèi dell’Olimpo; per evitare fraintendimenti, pertanto, come abbiamo visto, la teologia dell’incarnazione dell’evangelista preferisce ricollegarsi e confrontarsi con i modelli biblici.
Se già Paolo scriveva ai Romani che Gesù è discendente di Davide e dichiarato Figlio di Dio per mezzo dello Spirito Santo (Rm 1,3-4), Luca – seguendo la tradizione della verginità di Maria – permette di precisare che Gesù è Figlio di Dio da sempre, e non da un momento della sua vita, sia esso la risurrezione o il battesimo, come avrebbero sostenuto i cosiddetti “adozionisti”.
Il centro di tutto ciò è pertanto cristologico, nel senso che si sottolinea che Gesù scaturisce proprio dall’Eterno Dio, la cui Potenza è pienamente all’opera nella storia di Israele, rappresentata anche come “figura corporativa” da Maria; nome tra l’altro piuttosto diffuso all’epoca, dal momento che era portato da ben due delle mogli di Erode Antipa.
In quella scena non erano presenti testimoni e tutto si svolge nell’intimità del dialogo tra Maria e l’inviato di Dio: in quell’incontro la donna acquista consapevolezza che il primo passo nella sua storia lo ha già compiuto Dio, lui solo è all’origine, lui solo ha scelto di visitarla, prima che lei potesse visitare Elisabetta. È tuttavia un passo indietro, un ritirarsi, un farci spazio perché noi possiamo fargli spazio nella gratitudine. A Maria infatti spetta la libertà di rispondere con la sua vita che accoglie la vita stessa, dono libero dell’Altissimo.
Egli ora desidera farsi personalmente e compiutamente presente nella storia, nella piccolezza e nella gioia più grande condivisa tra il cielo e la terra. Così il dato fisiologico della verginità di Maria – tutta desiderosa di portare a compimento la vita propria e altrui – è per Luca il segno che rafforza la realtà fondamentale di Gesù che, da sempre, è in grembo all’eternità di Dio, prima di affidarsi alla custodia mariana. Essa può dare carne a questa grandezza che germoglia nella sua fecondità.
Maria la può rendere pienamente umana: per questo Dio scommette sulla sua libertà consapevole di fare un’esperienza tangibile di pienezza, perché tutta la sua Parola, nella sua interezza, possa essere connaturale a noi.
Dio si fida della capacità dell’uomo e della donna di amare concretamente: questa realtà, se accolta con tutto il nostro corpo, genera stupore, mette in cammino la nostra umanità e diffonde ovunque gioia, perché Dio desidera essere integralmente presente in mezzo a noi.
Nodi esegetici
Invito a soffermarsi su tre punti:
1. Come rendere il saluto dell’angelo? Se la Vulgata traduce «Ave, gratia plena», l’edizione precedente della CEI del 1974 recitava «Ti saluto, o piena di grazia»; ora invece troviamo «Rallègrati, piena di grazia» (Lc 1,28). Luca scrive chaire kecharitōmenē, con un’allitterazione molto elegante in lingua greca tra le due parole; anziché l’ebraico shalōm, l’evangelista sceglie il saluto greco più comune chaire, che ha una sfumatura gioiosa (chara significa appunto gioia).
Tra l’altro, nella traduzione del Primo Testamento della LXX, in lingua greca, è spesso associato alla “Figlia di Sion”, che rappresenta la comunità dei fedeli, invitata a fare festa proprio per il fatto che Dio è dalla sua parte, è presente in mezzo a lei e le manderà il re tanto atteso.
La seconda parte del saluto – kecharitōmenē, grammaticalmente un participio perfetto medio-passivo – ha una sfumatura di un qualcosa nel passato che ha dato vita a un cambiamento che perdura nel presente.
Charis è la grazia, nel senso di graziosità: bellezza, bontà, benevolenza, gentilezza, dono, benedizione, ma pure gratitudine; ecco allora che kecharitōmenē sottolinea che, nella gratuità, lo sguardo bello e buono di Dio ha investito Maria, l’ha riempita, l’ha trasformata.
Tutto l’amore di Dio ha reso quella donna una persona diversa: la madre di Dio stesso, cioè della Parola di Dio che porta nel suo ventre, che inizia a prendere le forme di quella nuova realtà – Gesù è propriamente la grazia – radicalmente altra eppure così intimamente legata a lei. L’esegeta Gérard Rossé traduce: «Rallegrati, trasformata dalla grazia».
2. Ci sono esegeti che speculano sulla differenza tra le reazioni di Zaccaria («come posso conoscere questo?», Lc 1,18) e Maria («com’è possibile?», Lc 1,34), sostenendo che, nella prima, vi sarebbe la pretesa di un segno, mentre, nella seconda, si tratterebbe solamente di curiosità. Ciò non significa affatto che Maria non sapesse che per avere figli è necessario unirsi al marito, né che avesse fatto chissà quale “voto di verginità” segreto, come ipotizzato dai testi apocrifi.
Queste battute devono essere intese come funzionali alla narrazione, con uno schema piuttosto diffuso in racconti veterotestamentari che iniziano con un’apparizione, proseguono con la reazione di paura umana (in questo caso viene detto anche a Maria di «non temere», benché non avesse timore), poi viene offerto un messaggio (annuncio di una nascita, nome e missione del figlio), l’uomo pone un’obiezione e, infine, il segno risponde alle perplessità.
Per un altro esempio, si pensi alla terra e alla discendenza promesse in Gn 15 ad Abramo, che domanda: «Signore mio Dio, come potrò sapere che ne avrò il possesso?».
Nel caso di Luca con Maria, esplicitare che non ha avuto rapporti sessuali – tradizione (forse di origine siriana) conosciuta anche da Matteo, ma non da Paolo, né da Marco né nell’ambiente giovanneo – dovrebbe riuscire a fare ancora più spazio all’intervento di Dio nella storia e a preparare la rivelazione dello Spirito (in ebraico la Ruah, di genere femminile) non tanto quale inseminatore biologico maschile, quanto potenza divina creativa che accompagna il Figlio dall’origine sino alla Chiesa.
3. «Ecco la Serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (Lc 1,38). Il titolo “servo del Signore” è attribuito ai grandi personaggi del Primo Testamento che hanno servito Dio nel suo Popolo. In questo modo l’evangelista Luca colloca Maria tra di essi, accanto ai profeti, al re Davide, a Mosè e ad Abramo. Insomma, non è una risposta di rassegnata remissività; tutt’altro: è la gioiosa consapevolezza della responsabilità della missione storica che è chiamata a portare a compimento. Insomma, per una traduzione dinamica in lingua corrente proporrei: «Che onore! Non vedo l’ora, lo desidero tanto e sono pronta!».