La festa dell’Immacolata, fissata all’8 dicembre in considerazione della festa più antica della Natività di Maria (8 settembre), viene a trovarsi nel cuore dell’Avvento, e non può prescindere dal riferimento all’attesa e alla preparazione del Natale.
Celebriamo, come dovrebbe essere noto, la speciale grazia di Dio per cui Maria fu preservata dal peccato originale fin dall’inizio del suo concepimento. Penso che questa sia un’occasione d’oro per parlare non tanto e non solo delle glorie della Vergine, quanto piuttosto per fare un discorso più generale su cosa ci dica la fede cattolica anzitutto circa il guasto che ha rovinato e rovina l’umanità, per poi fare il confronto con quello che potremmo chiamare il progetto o il disegno di Dio nel creare l’uomo e, in terzo luogo, cantare la gloriosa riparazione del guasto che comincia già in Maria e che avrà il suo compimento glorioso e grandioso in Gesù.
Mi pare che le tre letture possano essere viste come le tre tappe di questo percorso, che, nonostante le apparenze dovute alla sistemazione teologica, non ha niente di astratto o di teorico ma, a ben guardare, ha tutto il realismo di quelle domande che accade ogni tanto di farsi: da dove viene il male che c’è nel mondo? È sempre stato così, ed era poi questa l’umanità che voleva Dio? E come si fa ora a riparare il disastro, e/o da dove può venire un messaggio di speranza?
A proposito di parole, ho usato il termine guasto invece che peccato, perché mi sembra che abbia uno spazio di significato più largo e meno a rischio di lettura moralistica. Come scrive Giuliana di Norwich: «In questa semplice parola peccato nostro Signore ricordò alla mia mente tutto ciò che non è buono, e il vergognoso disprezzo, e l’orrenda tribolazione che egli sopportò per noi in questa vita, e la sua morte e le sue pene, e la passione di tutte le creature nello spirito e nel corpo» (Rivelazioni, cap. 27, p. 166).
“Adamo, dove sei?”
L’origine di tale guasto è descritta in forma di racconto nelle prime pagine della Bibbia, con il rischio – ahimè – di farne una lettura puerile. La Lettura (Gen 3,9-15.20), che riporta quel racconto, contiene un primo dato notevole: dopo il peccato che ha fatto sì che l’uomo si ritrovasse “nudo”, e preso da paura sia andato a “nascondersi”, rivela che Dio non lo caccia via, ma, dopo il guasto, Dio chiama l’uomo: lo cerca, desidera parlargli. Gli dice: «Adamo, dove sei?», e proprio in questo dove sta tutto il dramma.
Un grande cistercense del XII secolo, Isacco della Stella, in un bel sermone per la festa dell’Assunta, parafrasa così la domanda di Dio: «Adamo, da lui posto prima del peccato nella chiarità e nella luce del paradiso, egli andò a cercarlo dopo il peccato nello stesso luogo. E non avendolo per niente trovato lì – era infatti fuggito a nascondersi a causa del peccato – lo inseguì gridando: Adamo, dove sei? Come se dicesse: Non ti trovo dove ti ho posto; e dove sei non ti ho posto io. Non ti seguo nelle tenebre, non ti seguo fino all’ombra, te che avevo lasciato nella luce e nella chiarità» (Sermone 51,17).
Il disegno risulta scomposto, come se le due parti del quadro, Dio e l’uomo, che prima si intersecavano in armonia nel luogo della beatitudine originaria, ora si fossero sconnesse: non combaciano più, c’è stato uno slittamento che le ha rese dissestate, scomposte, una da una parte e una dall’altra. Come è potuto accadere? La risposta molto plastica è che l’uomo, istigato dalla donna, e questa dal serpente, hanno “mangiato” ciò che non dovevano. Rimaniamo pure nella metafora, che non ha bisogno di una mela che neanche esiste nel testo, dove si parla genericamente di un “frutto”. Il peccato che provoca il guasto è l’ingordigia, a sua volta stimolata dall’orgoglio, il desiderio di essere come Dio.
Non c’è da leggere un trattato teologico per rendersi conto di quanto l’avidità e il delirio di onnipotenza siano all’origine di molti guasti, tra gli uomini e finanche nel creato. Come ha scritto con grande intelligenza Maurice Bellet: «Se volete capire cosa è il peccato originale, potete rileggere la Genesi o la lettera ai Romani. Se non è abbastanza chiaro, aprite il giornale» (Minuscule traité acide de spiritualité, Paris 2010, p. 92).
Ma si osservi che, pur annunciando strascichi sgradevoli per l’uomo e la donna, la punizione più dura dopo la colpa è per il serpente, quello che in tante raffigurazioni ben note rimane schiacciato sotto il piede dell’Immacolata.
Questa vittoria fa di Maria la santa città di Dio, in cui tutti i popoli trovano le loro sorgenti vitali (Salmo 86). All’uomo, infatti, e alla sua discendenza, è promessa una redenzione.
Chiamati ad essere “santi e immacolati”
La gravità della rovina è ancor meglio messa in risalto dalla bellezza del disegno, quello che, a grandi tratti, è presentato nella seconda Lettura (Ef 1,3-6.11-12). Ogni parola di questo cantico grandioso meriterebbe un commento, e sarà anche da fare, nella pace e nella quiete della meditazione privata. In chiesa il testo andrebbe cantato, perché non si possono udire simili parole senza essere travolti da un’onda emotiva che ne riverbera la sublime magnificenza.
La creazione, in questa prospettiva, ricupera la musica della Genesi: è una cascata di benedizioni, che trova il suo vertice e la sua sintesi in Cristo, luminoso paradigma di ciò che siamo chiamati a diventare, perché «in lui» siamo stati scelti prima ancora che esistesse il mondo, per vivere nella carità: l’amore che Dio ha per noi, e il nostro che accoglie il suo e vi risponde.
Qui l’uomo non è solo “chiamato” come Adamo nell’Eden, ma addirittura è “scelto e voluto” dall’eternità: è come se Dio non sopportasse di rimanere solo e, come diceva il greco Platone, volentieri citato dai filosofi medievali: «Quando il Padre Creatore vide muoversi e vivere il creato provò gioia». Sembra proprio che Dio abbia creato il mondo per avere qualcuno con cui relazionarsi, e trarne soddisfazione, come esprime il ritornello della Genesi: «e vide che era cosa buona».
Nel caso dell’uomo, però, la relazione non è con un partner qualsiasi, ma va ben oltre: per lui infatti siamo dei “figli”, e questo «mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà». Un abisso d’amore, perché niente di questo ci era dovuto, in nessun modo e per nessuna ragione: tutto è gratuito, e tutto straripa dalla sua grazia.
La Lettera agli Efesini è un testo che canta e incanta, e quelli di oggi sono solo alcuni accordi meravigliosi di un grande preludio che si sviluppa in una fantastica sinfonia. Quando si leggono pagine come questa, sembra davvero che il male e la bruttezza del mondo vengano inghiottiti da una profusione di bene e di bellezza che è come un’onda benefica che ci travolge. Ed è il canto che alla fine riprende e riassume tutto, perché siamo predestinati ad essere «a lode della sua gloria», a cantare con la nostra vita le sue meraviglie.
Come non comprendere che Dio aveva fretta, che Dio non ne poteva più di restaurare tale magnifico disegno? L’ha fatto con quella creatura di grazia predestinata ad essere sua madre, un segno tangibile del mondo rifatto e riportato allo splendore delle origini. Può darsi che qualcuno storca il naso a sentir parlare di passione in Dio, di un desiderio che si fa travolgente, qualcuno per cui la mistica coincide con la filosofia, dove non c’è posto per le emozioni, e dove l’ideale resta il nulla di un pensiero puro. Non sembra questo il linguaggio della Bibbia.
“Ecco la serva del Signore”
Il Vangelo (Lc 1,26-38) lo riascolteremo tra pochi giorni nella 4ª d’Avvento e, riservando a quella domenica una riflessione più articolata, oggi possiamo soffermarci su qualche annotazione. Se partiamo dall’idea che, dalla sua concezione, Maria è una creatura perfetta, “senza macchia”, come dice il nome, il racconto del suo incontro con l’angelo potrebbe riservarci qualche sorpresa.
Anzitutto l’incipit non descrive un mondo celestiale, ma ci immerge, come ama fare Luca, nella concretezza e nella materialità della storia. La cosa avviene «in una città della Galilea» che non pare godesse di chissà quale fama: ricordiamo bene cosa disse Natanaele. Quando Filippo gli annunciò di aver trovato uno di cui avevano scritto Mosè e i Profeti, uno chiamato «Gesù, il figlio di Giuseppe, di Nazareth», la sua risposta fu: «Da Nazareth può venire qualcosa di buono?» (Gv 1,44-46).
Poi si nomina una ragazza, «promessa sposa ad un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe», di nome Maria. Un villaggio ordinario, una ragazza ordinaria, un uomo ordinario, di cui si ricorda che era «della casa di Davide», una casa di cui rimanevano solo poveri resti.
Ma l’immacolatezza di Maria esplode alla fine di un racconto durante il quale essa “ascolta”, si limita a esprimere una perplessità del tutto naturale, ma poi, quando crede di aver capito, la sua risposta è: «Ecco la serva del Signore; avvenga per me secondo la tua parola».
Il racconto compatta in un dialogo, potenzialmente di due o tre minuti, un percorso interiore che probabilmente è durato una vita. Quello che Luca ci presenta non è la registrazione di un dialogo reale, ma un paradigma che mostra come Maria è diventata la «serva del Signore», muovendosi tra “annunci” sorprendenti venuti dall’alto, fatti che parevano contraddire ciò che le era stato promesso, lunghe pause di silenzio, per finire davanti al doloroso fallimento della croce, di fronte alla quale ella «stava», in piedi, pronta a ripetere la sua disponibilità quando tutto sembrava crollare.
Molte annunciazioni nella storia dell’arte mostrano Maria, seduta o in ginocchio, con davanti un “libro”. Da lì erano venuti, e continuavano a venire gli “annunci”. Lei ha saputo ascoltare e offrirsi, ed è questo che la fa “santa e immacolata nella carità” (Ef 1,4).