A partire dal III secolo d.C. (non prima) compare spesso nelle catacombe l’immagine del Cristo pastore con una pecora sulle spalle o attorniato dal gregge. È una scena che vuole raffigurare la fiducia e la serenità con cui il credente attraversa la valle oscura della morte, sorretto o guidato dal suo Signore.
Ma non è soltanto nel momento in cui lascia questo mondo che il discepolo si affida alle braccia del suo Pastore. Quello è soltanto l’ultimo, quando appare chiaro che tutti coloro che durante la vita si atteggiavano a pastori, ma predicavano dottrine opposte a quelle di Cristo, erano in realtà solo mercenari, spacciatori di illusioni. Nel momento decisivo sono costretti a dichiarare la loro incapacità a soccorrere.
Il discepolo accetta di farsi accompagnare dal buon Pastore in ogni istante della sua vita.
Lasciarsi trasportare è una scelta meno comoda di quanto sembri. Presuppone il coraggio di affidare la propria vita a Cristo, senza lasciarsi prendere dallo sgomento quando non si comprende dove egli stia andando e dove voglia condurre. Significa anche resistere alle lusinghe degli pseudo-pastori che in realtà sono ladri e predoni il cui unico obiettivo (spesso nemmeno cosciente) è l’affermazione di sé, è la ricerca del proprio tornaconto.
Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Se anche sarò condotto per valli oscure non temerò alcun male”.
Prima Lettura (At 13,14.43-52)
In quei giorni, 14 Paolo e Barnaba, proseguendo da Perge, arrivarono ad Antiochia di Pisidia ed entrati nella sinagoga nel giorno di sabato, si sedettero.
43 Molti giudei e proseliti credenti in Dio seguirono Paolo e Barnaba ed essi, intrattenendosi con loro, li esortavano a perseverare nella grazia di Dio.
44 Il sabato seguente quasi tutta la città si radunò per ascoltare la parola di Dio. 45 Quando videro quella moltitudine, i giudei furono pieni di gelosia e contraddicevano le affermazioni di Paolo, bestemmiando. 46 Allora Paolo e Barnaba con franchezza dichiararono: “Era necessario che fosse annunziata a voi per primi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco noi ci rivolgiamo ai pagani. 47 Così infatti ci ha ordinato il Signore: Io ti ho posto come luce per le genti, perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra”.
48 Nell’udir ciò, i pagani si rallegravano e glorificavano la parola di Dio e abbracciarono la fede tutti quelli che erano destinati alla vita eterna. 49 La parola di Dio si diffondeva per tutta la regione. 50 Ma i giudei sobillarono le donne pie di alto rango e i notabili della città e suscitarono una persecuzione contro Paolo e Barnaba e li scacciarono dal loro territorio. 51 Allora essi, scossa contro di loro la polvere dei piedi, andarono a Icònio, 52 mentre i discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo.
La liturgia della Parola di oggi si apre con un brano tratto dal racconto del primo viaggio missionario di Paolo e Barnaba. Questi due apostoli un sabato arrivano ad Antiochia di Pisidia e, come sono soliti fare, entrano nella sinagoga dei giudei e cominciano ad annunciare la Buona Novella di Gesù (v.14). Il loro messaggio impressiona, sorprende, o meglio, sconvolge letteralmente gli uditori, giudei ferventi, educati secondo le tradizioni dei loro padri, fedeli osservanti della legge. Costoro conoscono gli oracoli dei profeti e vivono in attesa del Messia, tuttavia rimangono sconcertati e sbalorditi quando, dalla bocca di Paolo e di Barnaba, odono un messaggio scandaloso: Gesù, condannato dalle autorità religiose e giustiziato con un supplizio infamante, è il salvatore del mondo. È inaudito! Non possono che pensare: forse abbiamo capito male. Per questo il sabato seguente accorrono ancora più numerosi (vv.14-44).
Lungo la settimana riflettono su quanto hanno ascoltato e giungono alla conclusione che ciò che Paolo e Barnaba hanno detto è blasfemo, è un insulto a Dio. Dopo aver dato tante prove di forza durante l’esodo, egli ora non può rendersi ridicolo e spregevole agli occhi dei popoli inviando un messia sconfitto e condannato. Si sentono in dovere di difendere la purezza della loro fede. Non sono persone cattive, malevole, disoneste, sono semplicemente condizionate dalla loro mentalità religiosa, non sono disposte a mettere in dubbio le loro certezze, non immaginano neppure lontanamente che il Signore possa avere in serbo qualche sorpresa o qualche novità (v.45).
I due apostoli, con franchezza, ripropongono il loro messaggio, senza lasciarsi scoraggiare dal rifiuto né intimidire dall’opposizione delle persone più devote. Anzi, vedono in questa mancata adesione alla fede da parte di alcuni un invito a rivolgersi anche ai pagani. Si realizza così la profezia di Isaia: la luce e la salvezza sono per tutti i popoli e devono giungere “fino alle estremità della terra” (vv.46-47).
Non tutti però chiudono la mente e il cuore. Molti, sia giudei che pagani, sentono la chiamata di Dio alla conversione e scelgono il cammino della salvezza. Così “abbracciarono la fede tutti coloro che erano destinati alla vita eterna” (v.48). Non si tratta della predestinazione al paradiso per alcuni e della dannazione eterna per altri. Nella vita eterna non si entra quando si muore, ma nel momento in cui si aderisce alla fede e si accetta il Messia di Dio. Alcuni, in piena buona fede, senza rendersi conto di ciò che perdono, ritengono assurda questa fede e la rifiutano. Coloro che l’accolgono invece, da subito, sono nella vita eterna. Alla fine nessuno verrà escluso. L’autore degli Atti degli Apostoli constata soltanto che, per i misteriosi meccanismi che regolano e condizionano la libertà dell’uomo, alcuni arrivano prima alla vita. Gli altri giungeranno certamente, anche se più tardi.
Il fatto che le promesse e le benedizioni di Dio vengano offerte anche ai pagani inquieta ancor più i giudei ligi alle loro tradizioni e, visto che le parole non bastano a bloccare gli eventi, ricorrono al sopruso. Fra i membri della loro comunità ci sono alcune donne della nobiltà che hanno mariti o figli impiegati in posti chiave dell’apparato amministrativo della città. Costoro ottengono che i due apostoli vengano allontanati (v.50).
L’episodio richiama un fatto identico accaduto a Gesù all’inizio della sua vita pubblica. Non appena cominciò a predicare a Nazareth, anch’egli venne scacciato dalla sinagoga e rischiò addirittura di essere linciato da coloro che si erano riuniti per la preghiera. I suoi compaesani ritenevano di essere religiosi esemplari, erano convinti di avere già capito tutto di Dio, non potevano accettare che Gesù mettesse in dubbio le loro sicurezze religiose e mostrasse loro che ben poco avevano capito delle sacre Scritture (Lc 4,16-29).
Se Gesù e gli apostoli sono stati perseguitati, non c’è da meravigliarsi che nessun predicatore autentico del Vangelo sia lasciato tranquillo e non incontri oppositori.
Dopo aver ricordato che Paolo e Barnaba furono costretti ad andare ad Iconio (v.51), il brano si conclude con un’annotazione curiosa: i discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo (v.52). È strano: i malvagi hanno avuto la meglio, i due apostoli devono andarsene sconfitti ed i cristiani di Antiochia di Pisidia, invece di rattristarsi, sono pieni di gioia!.
La gioia può coesistere anche con la lacrime, con le speranze deluse, con il dolore dell’ingiustizia subita. Non potranno sperimentare questa gioia sia i malvagi che si oppongono alla verità e lottano contro chi annuncia il Vangelo, sia i giusti, se non liberano il loro cuore dal risentimento contro chi li perseguita.
Seconda Lettura (Ap 7,9.14b-17)
Io Giovanni, 9 vidi una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e portavano palme nelle mani.
14 E uno degli anziani disse: “Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell’Agnello. 15 Per questo stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo santuario; e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro.
16 Non avranno più fame, né avranno più sete, né li colpirà il sole, né arsura di sorta, 17 perché l’Agnello che sta in mezzo al trono sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita. E Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi”.
Quanti dolori, quante tribolazioni, quante amarezze nella vita dell’uomo! Quando vediamo tanti innocenti soffrire, rimanere vittime di violenze, di tradimenti, di inganni cerchiamo disperatamente un perché, ma spesso non lo troviamo. Il libro dell’Apocalisse dedica quattro capitoli a questo angosciante problema (Ap 5-8). Dice che, nei cieli, si trova un libro in cui un angelo ha preso nota di tutte le sofferenze e di tutte le lacrime degli uomini. In questo libro viene detto anche il perché accadono tante cose incomprensibili e assurde. Purtroppo però il libro è chiuso con sette sigilli che nessun uomo è in grado di spezzare; ecco la ragione per cui gli uomini piangono: si sentono come in balia di un destino cieco e non trovano una spiegazione ai drammi che li affliggono.
Allora, non abbiamo alcuna speranza di trovare un senso alla storia del mondo? Il libro che contiene la risposta alle nostre angosce, ai nostri interrogativi più profondi rimarrà chiuso per sempre? Il Veggente dell’Apocalisse invita tutti a porre fine al pianto: l’Agnello – dice – aprirà il libro e spezzerà ad uno ad uno i suoi sigilli, cioè, svelerà tutti gli enigmi della nostra esistenza.
Il brano di oggi narra ciò che avviene dopo la rottura del sesto sigillo: appare una moltitudine immensa che nessuno può contare, gente di ogni razza, lingua, popolo e nazione. Tutti stanno in piedi di fronte al trono dell’Agnello, indossano vesti bianche ed hanno palme nelle mani (v.9). Il vestito bianco è il simbolo della gioia e dell’innocenza, le palme sono il segno della vittoria.
Chi sono queste persone? Sono coloro che in questo mondo hanno sopportato tribolazioni e persecuzioni ed hanno donato la loro vita ai fratelli, come ha fatto l’Agnello. Gli uomini li hanno considerati dei falliti, ma per Dio sono dei vincitori (v.14). Essi “non avranno più fame, né avranno più sete, né li colpirà il sole, né arsura di sorta, perché l’Agnello… sarà il loro pastore… e Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi” (vv.16-17).
In questi ultimi versetti c’è un’immagine strana: “L’Agnello sarà il loro pastore”. Come può un agnello essere anche pastore? Eppure è proprio così: Gesù è divenuto pastore, guida, perché, come agnello, è stato immolato, ha donato la sua vita per amore.
Questa pagina è stata scritta per incoraggiare i cristiani perseguitati a perseverare con pazienza e fermezza. In loro sta realizzandosi ciò che è accaduto a Gesù, l’Agnello; se lo seguiranno come si segue un pastore, parteciperanno alla sua stessa vittoria.
Vangelo (Gv 10,27-30)
In quel tempo Gesù disse: 27 “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono.
28 Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano.
29 Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio. 30 Io e il Padre siamo una cosa sola”.
La terra d’Israele è in grande parte montuosa e adibita alla pastorizia. Custodi di greggi sono stati Abele, Abramo, Giacobbe, Mosè, Davide. Non deve dunque destare meraviglia che nella Bibbia ricorrano spesso immagini della vita pastorale. Dio è chiamato “pastore d’Israele”: conduce il suo popolo come un gregge, lo tratta con amore e sollecitudine, lo guida verso pascoli abbondanti e sorgenti d’acqua fresca (Sal 23,1; 80,2). Anche il Messia è annunciato dai profeti come un pastore che pascerà Israele: “Ecco, costituirò sopra di esse pastori che le faranno pascolare… susciterò a Davide un germoglio giusto, che regnerà da vero re, e sarà saggio ed eserciterà il diritto e la giustizia” (Ger 23,1-6; Ez 34).
Gesù si richiama a questa immagine quando un giorno, scendendo dalla barca, vede una grande folla accorsa a piedi per udire da lui una parola di speranza. Marco dice: “egli si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore” (Mc 6,33-34).
Nel Vangelo di Giovanni Gesù si presenta come l’atteso pastore (Gv 10,11.14), come colui che condurrà il popolo lungo il cammino della rettitudine e della fedeltà al Signore.
La quarta domenica di Pasqua è detta domenica del buon pastore perché in essa, ogni anno, la liturgia propone un brano del capitolo 10 di Giovanni nel quale Gesù si presenta come il vero pastore. I quattro versetti che leggiamo nel Vangelo oggi sono tratti dalla parte conclusiva del discorso di Gesù e vogliono aiutarci ad approfondire il significato di questa immagine biblica.
Iniziamo con una precisazione: quando parliamo di Gesù buon pastore la prima immagine che ci viene in mente è quella del Maestro che tiene sulle spalle o tra le braccia una pecorella. È vero: Gesù è buon pastore anche nel senso che va alla ricerca della pecorella smarrita, ma questa è la riproduzione della parabola che si trova nel Vangelo di Luca (Lc 15,4-8). Il buon pastore di cui si parla nel Vangelo di Giovanni non ha nulla a che vedere con questa immagine dolce e tenera. Gesù non si presenta come colui che accarezza affettuosamente la pecora ferita, ma come l’uomo duro, forte, deciso che si batte contro i banditi e contro gli animali feroci, come faceva Davide che inseguiva il leone e l’orso che gli portavano via una pecora del gregge, li abbatteva e strappava la preda dalla loro bocca (1Sam 17,34-35). Gesù è buon pastore perché non ha paura di lottare fino a dare la propria vita per il gregge che ama (Gv 10,11).
La prima affermazione che fa è fortissima: le mie pecore – dice – non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano (v.28). La loro salvezza è garantita non dalla loro docilità, dalla loro fedeltà, ma dalla sua iniziativa, dal suo coraggio, dal suo amore gratuito e incondizionato. Questo è il grande annuncio! Questa è la bella notizia che viene dalla Pasqua e che il cristiano deve comunicare ad ogni uomo. Anche a chi ha sbagliato tutto nella vita egli deve assicurare: le tue miserie, le tue manchevolezze, le tue scelte di morte non riusciranno a sconfiggere l’amore di Cristo.
La seconda immagine, quella delle pecore, va chiarita perché può suscitare un certo disagio. Da chi è costituito il gregge che segue il “buon pastore”? A qualcuno viene forse spontaneo rispondere: dai laici che accolgono docilmente e mettono in pratica tutte le disposizioni date dal clero. Pastori sarebbero dunque le gerarchie ecclesiali, mentre pecore sarebbero i semplici fedeli.
Chiariamo: l’unico pastore è Cristo e lo è perché – come abbiamo sottolineato nella seconda lettura – egli è l’Agnello che ha immolato la propria vita. Sue pecore sono tutti coloro che hanno il coraggio di seguirlo in questo dono della vita. Il pastore è dunque un Agnello che condivide in tutto la sorte del gregge.
C’è un altro equivoco che è opportuno sciogliere, quello di identificare se stessi con il gregge di Cristo. Esistono zone d’ombra nella chiesa che si autoescludono dal Regno di Dio perché in esse alligna il peccato, mentre ci sono margini enormi, al di là dei confini della Chiesa, che rientrano nel Regno di Dio perché vi è all’opera lo Spirito. L’azione dello Spirito si manifesta nell’impulso al dono della vita per il fratello: “Chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” (1 Gv 4,16).
Può essere discepolo del buon pastore anche chi, pur non conoscendo Cristo, si sacrifica per il povero, pratica la giustizia, la fraternità, la condivisione dei beni, l’ospitalità, la fedeltà, la sincerità, il rifiuto della violenza, il perdono dei nemici, l’impegno per la pace. Questo deve rendere attenti tanti cristiani che si cullano in autocompiacimenti che potrebbero rivelarsi alla fine tragiche illusioni. Il Pastore un giorno potrebbe, inaspettatamente, dire a più d’uno: “Non vi conosco, non so di dove siete” (Lc 13,25)
L’ostentazione di sicurezza, la diffidenza preconcetta nei confronti dei membri di altre religioni e i pregiudizi verso i non credenti sono ancor oggi tanto radicati e perniciosi quanto il falso irenismo.
Come si diviene membri del gregge che segue Gesù? Cosa accade alle pecore che sono fedeli a lui? Il Vangelo di oggi afferma che non siamo noi che prendiamo l’iniziativa di seguirlo, è lui che chiama: “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono” (v.27).
I discepoli di Gesù vivono in questo mondo, abitano fra gli uomini. Sentono tanti richiami e ricevono anche messaggi fuorvianti. Sono molti coloro che si atteggiano a pastori, che promettono vita, benessere, felicità ed invitano a seguirli. È facile rimanere ingannati da ciarlatani. Come riconoscere fra tante voci, quella del vero Pastore? È necessario abituarvi l’orecchio. Chi ascolta solo per cinque minuti una persona e poi per un anno non la sente più, ben difficilmente sarà in grado di distinguere la sua voce in mezzo alla folla. Chi ascolta il Vangelo solo una volta all’anno, non impara a riconoscere la voce del Signore che parla.
Non è facile fidarsi di Gesù perché egli non promette successi, trionfi, vittorie, come invece fanno tutti gli altri pastori. Chiede il dono di sé, esige la rinuncia alla ricerca del proprio tornaconto, domanda il sacrificio della vita. Eppure – assicura – questo è l’unico cammino che introduce nella vita eterna (vv.28-29). Non ci sono scorciatoie; chi indica altre strade sta barando e conduce alla morte.
Il brano si conclude con le parole di Gesù : “Io e il Padre siamo uno” (v.30). Questa frase un po’ astratta indica il cammino da seguire per giungere all’unità con Dio: è necessario diventare “uno” con Cristo. Questo significa che si deve raggiungere con lui un’unità di pensieri, di intenti e di azioni.
Questa affermazione ci fa riflettere sul ministero di coloro che sono chiamati a “pascere” il gregge di Cristo. A volte nella comunità cristiana si nota una certa tensione fra coloro che, con termini non molto esatti, sono chiamati: clero e laici. Qualcuno sostiene che questi ultimi devono stare uniti ai loro “pastori”; altri dicono che sono questi che devono stare uniti al popolo di Dio. Forse è più giusto pensare che tutto il popolo di Dio, laici e clero, deve seguire insieme l’unico pastore che è Gesù e diventare, con lui, “uno” con il Padre.
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