Donatella Scaiola, una studiosa specialista del libro dei Dodici Profeti, cosiddetti “minori”, accetta come ragionevoli le congetture che pongono il libretto di Sofonia nel tempo del re Giosia (640-609 a.C.) o addirittura a quello del re Yoyakim (609-598 a.C.), ma considera un’ipotesi molto interessante quella di vedere questo scritto come un riassunto delle idee espresse nei libri precedenti, sviluppando il concetto del “giorno del Signore” (Amos), il tema del “resto” (Michea), il rifiuto del sincretismo (Osea), la denuncia in ambito sociale (Isaia e Amos). Sofonia ha inoltre molti legami col libro della Genesi e del Deuteronomio.
Scaiola suggerisce l’idea che Sofonia sia uno scritto da intendere in senso più teologico che da collegare ad un preciso contesto storico. Secondo la studiosa, il tempo di Giosia potrebbe essere quello non tanto nel quale il libro fu scritto, ma quello in cui esso è stato collocato. Il tempo di Giosia è stato visto come un’età dell’oro, un momento di grande cambiamento e di fervore spirituale, oltre che di novità sul piano internazionale.
Un popolo umile e povero
Stava per cadere il primo grande impero della storia (quello assiro) e questo alimentava la speranza dei poveri e degli umili, che vedevano confermata la bontà della scelta da loro fatta di considerare Dio come re e salvatore. Sganciato da un contesto troppo preciso, Sofonia diventa così attuale in molti momenti storici diversi (cf. D. Scaiola, Naum, Abacuc, Sofonia. Introduzione, traduzione e commento, Cinisello Balsamo [MI] 2013, 118, ripreso quasi alla lettera in queste righe). “Sofonia” può rimandare a una radice che indica “nascondimento” oppure rimandare al fatto che “Ṣafon” [= Nord] – divinità cananea che diede il suo nome alla montagna mitica del Nord – non fosse il vero dio, che era invece YHWH: “Ṣafon è YHWH”.
Secondo Scaiola il libro può essere così articolato: 1,1 Titolo; 1,2-18 Il giorno del Signore; 2,1-15 Oracoli di giudizio; 3,1-20 Giudizio e promesse finali. Dopo il giudizio su Gerusalemme (3,1-8), e prima delle promesse finali (3,14-20), in 3,9-13 viene annunciato che Dio purificherà il suo resto. In 2,3 il popolo viene invitato a cercare intensamente (biqqeš) la giustizia, il buon rapporto con Dio e con i fratelli e l’umiltà (‘ănāwāh), l’essere curvi e sottomessi al Signore. In 3,12-13 viene invece fatta una promessa che sarà compiuta interamente dall’azione purificatrice di YHWH.
Per sua opera, e per sua grazia, non frutto del risultato di alcun sforzo umano, del popolo rimarrà solo un resto che sarà fedele alle proprie radici spirituali, nell’umiltà e nella povertà che si contrappongono all’orgoglio manifestato spudoratamente addirittura sul monte santo di Sion (v. 11).
Per grazia salvatrice di YHWH, il resto rimasto camminerà nella verità e nella rettitudine, senza più commettere iniquità che avvelenano ogni rapporto religioso e umano, né menzogna, che corrompe la veridicità dei discorsi e la fiducia sociale che tiene aggregato un popolo nella coesione necessaria a una vita e a una convivenza serena e felice.
La vita futura contemplerà la bellezza della complementarietà di lavoro e di riposo sereno e tranquillo, un’alternanza di beatitudine che risale alle prime pagine della Genesi. Una situazione di beatitudine e di felicità che ha dovuto essere preceduta da un deciso intervento purificatore di YHWH che, attraverso i meandri e le svolte della libertà spesso usata male dai suoi figli, ha fatto emergere nella società civile e religiosa un nucleo di popolo che sappia coltivare le sole virtù umane e religiose che possono far vivere serenamente un popolo, nel concerto con tutti gli altri.
YHWH non vuole certo dal suo popolo una sottomissione servile e la miseria socio-economica. Non era questo il suo sogno quando lo ha liberato dalla schiavitù dell’Egitto. L’umiltà di saper riconoscere i propri doni e compiti, i propri sogni ma anche i propri limiti rende l’uomo consapevole in modo realistico del suo status di creatura e della sua grande dignità di essere figlio di Dio. La povertà prevista da YHWH non sarà la miseria, ma la libertà del cuore dal demonio del possesso sfrenato e materialistico che passa sopra le persone e i popoli senza neanche vederli e prenderli in considerazione. Una povertà che libera spazi per il vero sé e la presenza provvidenziale e benefica degli altri, che rendono piena, vera e bella la propria stessa vita.
Il sogno di Gesù
Dopo aver descritto nei cc 1 – 4 il fondale su cui comprendere già a una grande profondità teologica la figura di Gesù (così strutturato secondo Franco De Carlo, Vangelo secondo Matteo. Nuova versione, introduzione e commento, Milano 2016: Genesi e geografia dell’infanzia 1,1 – 2,23; Preparazione e avvio del ministero 3,1 – 4,25), l’evangelista Matteo riporta il primo dei cinque grandi discorsi tenuti da Gesù, il famoso “Discorso sul monte”, per alcuni meglio definibile come Insegnamento.
È evidentemente una composizione redazionale ben studiata, difficilmente catalogabile, ma senza dubbio una solenne ouverture, un prologo che annuncia programmaticamente l’“utopia” del Regno fattosi presente con Gesù (così la pensa Massimo Grilli, Il discorso della montagna. Utopia o prassi quotidiana?, Bologna 2016; cf. pp. 43-44). Mt 5-7 è stato giustamente definita la magna charta del cristianesimo.
Al momento di celebrare il perdono del Signore nel sacramento, tanti cristiani si confrontano però di fatto con il Decalogo, ma molto raramente con le Beatitudini, vera e propria carta di identità nuova, elettronica, plastificata, immarcescibile dei discepoli di Gesù: il sogno di Gesù.
Egli sale su “il monte” per eccellenza, là dove è a stretto contatto di cuore col Padre, e si mette a pronunciare una parola di rivelazione (“parlare”) e di insegnamento. Egli è seduto in posizione magisteriale, assimilabile a un suo possibile ruolo di nuovo Mosè. Ma Gesù non è un nuovo Mosè che dà una nuova Legge, che sostituisce quella del Primo Testamento. Egli è l’interprete definitivo, escatologico, autorevole dell’intenzione originaria del sogno del Padre nel momento in cui donò la Torah – il suo “insegnamento” – al suo popolo tramite Mosè.
Nel confronto stretto e orante con la storia del Padre col suo popolo (vedi il dialogo con Mosè ed Elia al momento della trasfigurazione) Gesù viene a “compiere” la Legge e i Profeti (Mt 5,17), “confermando” cioè le parole del Padre, riandando alla sorgente viva dell’intenzione originaria del Padre nel promulgarle. In modo simile il profeta Natan “completò”/confermò le parole di Betsabea dette in precedenza all’anziano re Davide a favore dell’incoronazione di Salomone e non di Adonia (cf. 1Re 1,14). Gesù non è un nuovo legislatore che si contrappone all’antico (“Ma” io vi dico, così come si traduce nelle cosiddette “antitesi” di Mt 5,21-48), ma l’interprete ufficiale della volontà originaria del Padre che interpreta, completa, approfondisce, revoca in parte la Torah che rimane sempre però al centro del suo cuore come guida sicura di vita. Con “Ebbene io vi dico” sembra di tradurre in modo migliore la posizione di Gesù nel dialogo profondo che da lui si protende verso l’AT e dall’AT riceve illuminazione e radici sicure ed ermeneuticamente indispensabili.
Con Gesù c’è una novità, certamente; qualcuno ha parlato di “continuità trasfigurata” tra AT e NT. E la novità è una persona, il Figlio di Dio, la persona descritta in profondità con i suoi titoli nel fondale d’ingresso di Mt 1 – 4. E Gesù ha un sogno: far venire il Regno, il regno di Dio, far toccare con mano da vicino l’avverarsi con lui – almeno in modo iniziale – della regalità salvifica del Padre nei cuori delle persone credenti, che poi avranno la forza divina di trasformare e trasfigurare il mondo intero alla luce del Discorso del monte.
Un popolo beato
Il sogno di Gesù è quello di creare un popolo nuovo, rinnovato, messianico. Non un nuovo popolo che sostituisca l’Israele antico. Gli uditori del suo insegnamento formano una fascia più larga, costituita dalle grandi folle/le folle (cf. Mt 4,25; 5,1) e una più ristretta, composta dai suoi discepoli. Ad essi è rivolto primariamente il suo insegnamento, che tendenzialmente dovrà e potrà espandersi a raggiungere tutte le folle del mondo “rese discepole” (cf. Mt 28,19).
Le beatitudini sono il solenne portale d’ingresso del Discorso del monte; sono l’annuncio gioioso di un capovolgimento della realtà mondana, dei valori dati per scontati, degli standard valutativi seguiti (e spesso imposti) dalle élites, i “valori” che vanno per la maggiore. Il mondo della sovranità di Dio, l’umanità sulla quale egli vuole “regnare”, è un mondo che porta beatitudine non in primo luogo perché approvazione di situazioni indegne dell’uomo che però si abbandona a Dio aspettando la ricompensa ultraterrena (il famoso “oppio dei popoli”).
Le beatitudini sono un’assicurazione di gioia intima, profonda, ma con riflessi sociali, collegate a una promessa certa e affidabile. Dal loro tenore (locutorio) appaiono solo delle affermazioni, ma dal contesto globale (illocutorio) si rivelano anche compito e impegno. La radice profonda della beatitudine del discepolo di Gesù non sta nella situazione oggettiva che sta vivendo, ma nel fatto che Gesù è venuto, e con lui il Regno che inizia a sviluppare la sua potenza di trasformazione della realtà umana deformata dalla lebbra dell’orgoglio umano, in vista del suo compimento ultimo nel mondo rinnovato totalmente.
C’è beatitudine perché c’è Gesù e il suo Regno, ed egli sta sempre dalla parte dei poveri e degli ultimi. Secondo i parametri valutativi scandalosi seguiti dal Padre nel suo Regno, sono beati coloro che, anche nella povertà della loro situazione, si affidano a Dio, traendo dallo spirito/Spirito la forza che trasforma l’esistenza umana, non facendola rassegnare all’esistente, ma “spingendola” ad osare situazioni nuove già messe in moto dal Regno incombente.
Le promesse legate alle beatitudini non sono da intendersi puramente in senso escatologico, riservate quindi alla vita ultraterrena. Sembrano più legate a un “futuro logico” che non a uno cronologico. Dal momento che il Regno inizia già qui sulla terra con la persona e l’opera di Gesù, dal momento che una persona si affida nella fede a lui e diventa suo discepolo, può gustare fin d’ora una realtà che non è un’utopia o un oppiaceo, ma una realtà sperimentabile da ogni persona che crede con gioia e tenacia e mette ogni giorno i propri passi in quelli di Gesù, perché si fida ciecamente del bene che vuole per lei.
Sono beati quelli che sono nell’afflizione, soprattutto perché il volto del Padre non è conosciuto e il vangelo non è accolto, e perché la salvezza di Dio sembra tardare a venire e Dio essere “assente”. La consolazione è già presente: il male e il dolore non hanno l’ultima parola sull’umanità, ma ricevono un senso dalla persona e dall’opera di Gesù.
Chi vive nella mitezza della nonviolenza attiva erediterà non tanto la terra promessa nel Sal 37, ma con la sottomissione serena alla volontà benefica del Padre vincono già fin d’ora la boria e la tracotanza, ed erediteranno fin d’ora – in modo certo iniziale – la terra che è Dio stesso, il bene definitivo per eccellenza.
Chi ha fame e sete della giustizia umana, primo gradino di realizzazione, ma soprattutto che si compia la volontà d’amore del Padre, sarà saziato fin d’ora. Tanti laici morti ammazzati per strada come cani solo per aver fatto il loro dovere a favore della comunità sono già martiri della beatitudine di chi cerca il bene, l’onestà, la rettitudine, di chi cerca – anche senza magari volendolo esplicitamente – Dio nell’uomo.
Chi è grande di cuore e con affetto fa spazio alla misericordia, al perdono, al recupero delle persone sperimenta già la beatitudine di aver vinto il male con il bene e di concorrere alla creazione di un mondo che non può vivere – a nessun livello – senza la misericordia.
La pura giustizia non basta a far vivere l’umanità. Chi è “puro” nel suo cuore – che per l’uomo della Bibbia è il centro decisionale dove operano la coscienza e la volontà – non è doppio, ma trasparente, coerente fra il pensiero e l’azione, anche e soprattutto nei rapporti sociali.
Chi opera fattivamente per la pace sa di operare in un campo dove la pace è sempre e solo dono di Dio.
Ma qui si rivela la forza anche illocutoria delle beatitudini. Esse sono un dono ma anche un compito, che vuole cambiare le persone. Chi agisce concretamente in vista del massimo concentrato dei beni di Dio e del suo messia, lo šālôm, sarà effettivamente e sarà riconosciuto anche esternamente come tale, figlio di Dio. Nella Bibbia il figlio è infatti colui che fa le stesse cose del padre. Non solo chi ha fame e sete della giustizia, ma anche chi è perseguitato per questo, avvertirà già fin d’ora la beatitudine di essere in piena linea d’onda col desiderio profondo di Dio Padre sull’umanità. La paradossalità scandalosa ma vera, difficilissima da assumere e da vivere senza essere discepoli di Gesù, è avvertire la beatitudine nel momento stesso della persecuzione, dell’ostracismo sociale, della calunnia e dell’azione della macchina del fango e del tritacarne mediatico nel suo operato infernale.
Le beatitudini. Un grande sogno. Un grande sogno di Gesù (e del Padre nello Spirito) che comincia a realizzarsi già con la sua entrata nel mondo. Un grande sogno che i discepoli di Gesù stanno già realizzando e paradossalmente “gustando” (si pensi al martirio dei cristiani in Siria, Iraq, Sud Sudan, India…), dando alla Chiesa e al mondo una testimonianza di estrema attualità delle beatitudini. Una grazia a caro prezzo. Una grazia “divina” da invocare come dono e come compito, perché sempre più persone (“le grandi folle” di Mt 4,25; cf. 5,1) progressivamente siano raggiunte e affascinate da questo sogno realizzabile e liberante, un sogno ad occhi ben aperti: «… ecco il regno di Dio è in mezzo a voi!» (Lc 17,21).