Alcune cose riusciamo a vederle, altre ci sfuggono. Crescono a ritmo vertiginoso le cognizioni scientifiche che ci permettono di esaminare, controllare, quantificare tutto ciò che è materiale. C’incuriosiscono e ci appassionano, ci fanno sentire orgogliosi al punto da indurre alcuni a credere che sia vero ed esista solo ciò che può essere visto con gli occhi, constatato con i sensi, verificato con gli strumenti di laboratorio.
Ma la presunzione di avere il controllo su tutta la realtà deriva da un difetto di vista, dall’offuscamento di quello sguardo interiore e spirituale che solo ci permette di intravedere qualcosa nei misteri di Dio, nel senso della vita e della morte e nel destino ultimo della storia dell’uomo.
Esiste anche un’altra cecità, quella di chi è convinto di possedere la luce e di saper dare il giusto valore ad ogni cosa: al denaro, al successo, alla carriera, alla sessualità, alla salute e alla malattia, alla giovinezza e alla vecchiaia, alla famiglia, ai figli… ma ha attinto le sue certezze dalla scala di valori di questo mondo; le ha dedotte – forse senza rendersene conto – dalle pulsioni e dalle emozioni del momento, dai calcoli interessati, dalle ideologie e dai sistemi economici contaminati dal peccato, dalle chiacchiere salottiere: false luci, sfavillii inaffidabili, fuochi fatui, bagliori ingannevoli!
“Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (Gv 1,9): Cristo venuto a dissipare le nostre tenebre, a rischiarare le nostre notti, a introdurci nella famiglia dei “figli della luce e figli del giorno” (1 Ts 5,5).
Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Tu sei la luce del mondo. Chi ti segue ha la luce della vita”.
Prima Lettura (1 Sm 16,1b.4a.6-7.10-13a)
1 E il Signore disse a Samuele: “Riempi di olio il tuo corno e parti. Ti ordino di andare da Iesse il Betlemmita, perché tra i suoi figli mi sono scelto un re”.
4 Samuele fece quello che il Signore gli aveva comandato e venne a Betlemme; gli anziani della città gli vennero incontro trepidanti e gli chiesero: “ È di buon augurio la tua venuta?”.
6 Quando Iesse e i suoi figli gli furono davanti, egli osservò Eliab e chiese: “ È forse davanti al Signore il suo consacrato?”. 7 Il Signore rispose a Samuele: “Non guardare al suo aspetto né all’imponenza della sua statura. Io l’ho scartato, perché io non guardo ciò che guarda l’uomo. L’uomo guarda l’apparenza, il Signore guarda il cuore”.
10 Iesse presentò a Samuele i suoi sette figli e Samuele ripetè a Iesse: “Il Signore non ha scelto nessuno di questi”. 11 Samuele chiese a Iesse: “Sono qui tutti i giovani?”. Rispose Iesse: “Rimane ancora il più piccolo che ora sta a pascolare il gregge”. Samuele ordinò a Iesse: “Manda a prenderlo, perché non ci metteremo a tavola prima che egli sia venuto qui”. 12 Quegli mandò a chiamarlo e lo fece venire. Era fulvo, con begli occhi e gentile di aspetto. Disse il Signore: “Alzati e ungilo: è lui!”. 13 Samuele prese il corno dell’olio e lo consacrò con l’unzione in mezzo ai suoi fratelli, e lo spirito del Signore si posò su Davide da quel giorno in poi.
“I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni, perché un corpo corruttibile appesantisce l’anima”. Così l’autore del libro della Sapienza mette in guardia contro il pericolo di accordare un’eccessiva, ingenua fiducia ai criteri di giudizio dell’uomo (Sap 9,14).
Il profeta, colui al quale il Signore affida i propri progetti e rivela i propri misteri, sarà al riparo da meschini condizionamenti? Affatto; rimane un uomo, anche per lui è difficile sintonizzare i propri pensieri con quelli di Dio, anch’egli ha bisogno di purificare lo sguardo se vuole contemplare la realtà con gli occhi del Signore. È quanto è accaduto a Samuele, l’uomo di Dio inviato a Betlemme per consacrare colui che il Signore aveva scelto come re.
Siamo nel 1020 a.C. e il popolo di Israele sta attraversando un momento difficile a causa dei Filistei che lo pressano da ogni lato. Un uomo valoroso, abile, intelligente potrebbe forse riuscire a contenere la tracotanza di nemici tanto potenti, ma dove trovarlo?
Un giorno il Signore fa capire a Samuele di aver scelto l’uomo adatto: un giovane di Betlemme, un figlio di Iesse.
Il profeta si mette in cammino verso quella città, cerca la casa di Iesse, entra e racconta ciò che il Signore gli ha rivelato. Iesse s’illumina, è raggiante perché Dio ha scelto uno dei suoi figli come re d’Israele. Ma quale di loro? – si chiede – Ne ha molti. Dopo un attimo di esitazione, pensa: certamente il prescelto è Eliab, il primogenito, è alto, fiero, aitante, non può che essere lui! Anche Samuele è colpito dall’aspetto del giovane, dall’imponenza della statura, ma nell’intimo la voce del Signore gli suggerisce: “No, non è lui!”.
Un po’ deluso, Iesse presenta al profeta, uno dopo l’altro, i suoi sette figli, tutti belli, gagliardi, sagaci, eppure nessuno di loro è l’eletto. Anche Samuele sembra perplesso, disorientato. Chiede allora a Iesse: “Non hai altri figli?”. “Sì – risponde questi – ne avrei ancora uno, ma è un adolescente, è assurdo che Dio scelga lui per una missione così impegnativa quando può fare affidamento su persone ben più dotate”.
Il profeta – che ora comincia a vedere la realtà con occhi nuovi, quelli di Dio – risponde: “Vallo a prendere, perché è lui l’eletto!”.
Strana, persino illogica la scelta di Dio! Non è facile capire il suo comportamento e non è la prima volta che egli agisce in modo contrario ai criteri umani. Fin dall’inizio della Bibbia egli mostra di prediligere Abele rispetto a Caino e il testo sacro non ne spiega il motivo (non dice che Abele era buono e Caino cattivo). La ragione è un’altra: Hebel (Abele) in ebraico significa “vanità”, ciò che è senza consistenza, dunque, indica colui che non conta. Abele è hebel ed è anche il più debole e il più piccolo: ha tutto ciò che attira lo sguardo di Dio. È questa, nella Bibbia, la prima manifestazione delle preferenze del Signore per chi non ha valore.
In seguito egli sceglierà un popolo: osserverà gli egiziani, molto religiosi, costruttori di piramidi, conoscitori dei segreti della scienza; prenderà in considerazione i babilonesi, ricchi, potenti, progrediti in ogni campo del sapere, ma non sceglierà loro, preferirà Israele perché… era il più piccolo (Dt 7,7-8). Per liberare il suo popolo dai madianiti chiamerà Gedeone, che si schermirà dicendo: “Ah, mio Signore, come posso essere io a salvare Israele? Ecco, la mia famiglia è la più povera di tutta la tribù, ed io sono il più piccolo della mia famiglia” (Gd 6,15).
Gesù si comporterà allo stesso modo: privilegerà i piccoli, i peccatori, i poveri, i pastori, le persone disprezzate e farà di loro i primi invitati al banchetto del Regno.
Come si spiegano queste predilezioni di Dio? La risposta si trova nella parte centrale della lettura: egli non vede le persone come le vediamo noi; il nostro sguardo contempla l’esterno, non va oltre la superficie, si sofferma spesso sull’effimero, il suo giunge al cuore. Perfino Samuele, l’uomo di Dio, il profeta del Signore, per un momento ha esitato e si è lasciato abbagliare dalle apparenze. È dunque facile che questo accada. Senza che nemmeno ce ne rendiamo conto, eprimiamo sulle persone giudizi superficiali e ingiusti. La lettura invita a prenderne atto e a riconsiderarli alla luce dei giudizi e dello sguardo del Signore.
Seconda Lettura (Ef 5,8-14)
8 Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come i figli della luce; 9 il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità. 10 Cercate ciò che è gradito al Signore, 11 e non partecipate alle opere infruttuose delle tenebre, ma piuttosto condannatele apertamente, 12 poiché di quanto viene fatto da costoro in segreto è vergognoso perfino parlare. 13 Tutte queste cose che vengono apertamente condannate sono rivelate dalla luce, perché tutto quello che si manifesta è luce. 14 Per questo sta scritto: “Svègliati, o tu che dormi, dèstati dai morti e Cristo ti illuminerà”.
Nella Bibbia la lotta fra il bene ed il male è presentata spesso con l’immagine dell’antitesi fra luce e tenebre. “Non ci può essere comunione fra la luce e le tenebre” – dichiara Paolo ai corinti (2 Cor 6,14). Il dramma consiste nel fatto che l’uomo può scegliere le tenebre e allontanarsi da Dio che è luce (1 Gv 1,5.7).
Per i semiti – che avevano assimilato molti aspetti delle concezioni dualistiche persiane – l’oriente, dove sorge il sole, era il simbolo di Dio, mentre l’occidente richiamava il maligno. In una delle sue celebri catechesi battesimali, Cirillo di Gerusalemme (IV secolo) ricordava ai suoi fedeli: “Rivolti verso occidente, voi avete steso le mani e avete rinunciato a satana, perché l’occidente è il luogo della fitta tenebra e l’impero di satana è nell’oscurità”.
Le esortazioni contenute nella lettura vanno collocate nel contesto di questa mentalità.
Ai cristiani viene ricordato che, con il battesimo, sono passati dalle tenebre alla luce, per questo da loro ci si attende le opere della luce. Paolo le richiama e le riassume: ogni specie di bontà, di giustizia e verità. Quanto alle opere delle tenebre – continua – esse sono così vergognose che chi le compie si nasconde, teme la luce e cerca istintivamente l’oscurità.
L’Apostolo suggerisce, infine, il modo per contrastare le opere malvagie: la denuncia aperta e decisa (v. 13). Le azioni vergognose devono essere condannate con fermezza; non si può cercare di giustificarle, di scusarle, di renderle in qualche modo accettabili. Il semplice fatto di chiamarle con il loro nome e non con circonlocuzioni equivoche, significa metterle allo scoperto, è come proiettare su di loro un fascio di luce che le priva della loro più valida protezione. Quando non c’è oscurità, le opere malvagie vengono a trovarsi fuori dal loro ambiente vitale.
È un richiamo al dovere di ogni cristiano di denunciare con coraggio ciò che è disordine. Il pericolo di lasciarsi irretire in falsi ragionamenti, che portano a chiamare “bene il male e male il bene” (Is 5,20), incombe sempre, anche sui cristiani.
Vangelo (Gv 9,1-41)
1 Passando vide un uomo cieco dalla nascita 2 e i suoi discepoli lo interrogarono: “Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?”. 3 Rispose Gesù: “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio. 4 Dobbiamo compiere le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può più operare. 5 Finché sono nel mondo, sono la luce del mondo”.
6 Detto questo sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco 7 e gli disse: “Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe (che significa Inviato)”. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva.
8 Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, poiché era un mendicante, dicevano: “Non è egli quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?”. 9 Alcuni dicevano: “ È lui”; altri dicevano: “No, ma gli assomiglia”. Ed egli diceva: “Sono io!”. 10 Allora gli chiesero: “Come dunque ti furono aperti gli occhi?”. 11 Egli rispose: “Quell’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, mi ha spalmato gli occhi e mi ha detto: Va’ a Sìloe e lavati! Io sono andato e, dopo essermi lavato, ho acquistato la vista”. 12 Gli dissero: “Dov’è questo tale?”. Rispose: “Non lo so”.
13 Intanto condussero dai farisei quello che era stato cieco: 14 era infatti sabato il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. 15 Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come avesse acquistato la vista. Ed egli disse loro: “Mi ha posto del fango sopra gli occhi, mi sono lavato e ci vedo”. 16 Allora alcuni dei farisei dicevano: “Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato”. Altri dicevano: “Come può un peccatore compiere tali prodigi?”. E c’era dissenso tra di loro. 17 Allora dissero di nuovo al cieco: “Tu che dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?”. Egli rispose: “ È un profeta!”.
18 Ma i Giudei non vollero credere di lui che era stato cieco e aveva acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista. 19 E li interrogarono: “ È questo il vostro figlio, che voi dite esser nato cieco? Come mai ora ci vede?”. 20 I genitori risposero: “Sappiamo che questo è il nostro figlio e che è nato cieco; 21 come poi ora ci veda, non lo sappiamo, né sappiamo chi gli ha aperto gli occhi; chiedetelo a lui, ha l’età, parlerà lui di se stesso”. 22 Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga. 23 Per questo i suoi genitori dissero: “Ha l’età, chiedetelo a lui!”.
24 Allora chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero: “Da’ gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore”. 25 Quegli rispose: “Se sia un peccatore, non lo so; una cosa so: prima ero cieco e ora ci vedo”. 26 Allora gli dissero di nuovo: “Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?”. 27 Rispose loro: “Ve l’ho già detto e non mi avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?”. 28 Allora lo insultarono e gli dissero: “Tu sei suo discepolo, noi siamo discepoli di Mosè! 29 Noi sappiamo infatti che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia”. 30 Rispose loro quell’uomo: “Proprio questo è strano, che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. 31 Ora, noi sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma se uno è timorato di Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. 32 Da che mondo è mondo, non s’è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. 33 Se costui non fosse da Dio, non avrebbe potuto far nulla”. 34 Gli replicarono: “Sei nato tutto nei peccati e vuoi insegnare a noi?”. E lo cacciarono fuori.
35 Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori, e incontratolo gli disse: “Tu credi nel Figlio dell’uomo?”. 36 Egli rispose: “E chi è, Signore, perché io creda in lui?”. 37 Gli disse Gesù: “Tu l’hai visto: colui che parla con te è proprio lui”. 38 Ed egli disse: “Io credo, Signore!”. E gli si prostrò innanzi. 39 Gesù allora disse: “Io sono venuto in questo mondo per giudicare, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi”. 40 Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: “Siamo forse ciechi anche noi?”. 41 Gesù rispose loro: “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: Noi vediamo, il vostro peccato rimane”.
Fin dai primi tempi della Chiesa, il racconto del cieco nato viene proposto in Quaresima.
La ragione è facile da intuire: nella storia del cieco nato ogni cristiano può facilmente riconoscere la propria storia. Prima di incontrare Cristo era un cieco, poi il Maestro gli ha donato la vista, lo ha illuminato nell’acqua del fonte battesimale. Quando, dopo Costantino, si cominciarono a costruire i primi battisteri, si diede loro il nome di photistéria: luoghi dell’illuminazione.
Nel brano di oggi, Giovanni prende spunto da un episodio della vita di Gesù e se ne serve per sviluppare il tema centrale del messaggio cristiano: la salvezza donata da Cristo.
Il linguaggio che impiega è quello biblico: la contrapposizione tenebre-luce. Nella Bibbia le tenebre hanno sempre una connotazione negativa, sono il simbolo del potere oscuro del male, della morte, della perdizione; la luce invece rappresenta l’orientamento verso Dio, la scelta del bene e della vita.
La guarigione del cieco nato è collocata nel contesto della festa delle capanne (Gv 7,2), la più popolare di tutte le feste giudaiche, tanto da essere chiamata semplicemente “la festa”. Durava una settimana ed era caratterizzata da un’esplosione di gioia e dalle liturgie della luce e dell’acqua.
Sulla spianata del tempio, illuminata ogni notte da grandi fiaccole, c’era un pozzo cui si attingeva l’acqua per le libagioni. Ad esso veniva riferita la profezia di Isaia: “Attingerete con gioia alle sorgenti della salvezza” (Is 12,3). Nel secondo giorno della festa si celebrava il rito della “gioia del pozzo”, con danze e canti. Gesù attese “l’ultimo giorno, il più solenne della festa” per levarsi in piedi ed esclamare a gran voce: “Se qualcuno ha sete venga a me e beva chi crede in me” (Gv 7,37). Fu durante questa festa della luce che egli proclamò anche: “Io sono la luce del mondo; chi segue me non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (Gv 8,12).
Per cogliere la densità del messaggio del vangelo di oggi va tenuto presente questo contesto festivo e i riferimenti alla luce e all’acqua. Il cieco giungerà a vedere la luce soltanto dopo essersi lavato con l’acqua dell’Inviato.
Divideremo il brano in sette parti, come se si trattasse di sette scene di un’opera teatrale.
La prima scena (vv. 1-5) si apre con un dialogo fra Gesù e i discepoli. Il loro intervento è chiaramente un artificio letterario, mediante il quale si offre a Gesù l’opportunità di dare la chiave di lettura dell’episodio. Se si riduce il brano a un reportage giornalistico, se non si coglie il simbolismo della guarigione del cieco nato, si perde il messaggio centrale: Gesù “è la luce del mondo” (vv. 4-5).
La domanda dei discepoli è forse anche la nostra: “Come mai quest’uomo è nato cieco? Chi ha peccato: lui o i suoi genitori?” (v. 2).
Al tempo di Gesù si riteneva che, nella sua infinita giustizia, Dio premiasse i buoni e punisse i malvagi già in questo mondo, in proporzione alle loro opere. Le disgrazie, le malattie, le sofferenze erano ritenute un castigo per i peccati.
Questa teologia – dettata dalla logica e dai criteri umani – non è mai stata facile da difendere. Giobbe la irrideva: “I malvagi prosperano, invecchiano, anzi, sono potenti e gagliardi. La loro prole prospera insieme con loro… Finiscono nel benessere i loro giorni e muoiono tranquilli” (Gb 21,7-8.13) e a chi gli obiettava: “Dio serba per i loro figli il suo castigo”, rispondeva: “Ma la faccia pagare piuttosto a lui stesso, che sia lui a soffrire! Cosa glien’importa infatti della sua famiglia quando il numero dei suoi giorni è finito?” (Gb 21,19-21).
Malgrado queste inconfutabili ragioni, la teologia della “giusta retribuzione” era accettata da tutti e, per spiegare la nascita di una persona disabile, si giungeva addirittura a supporre che avesse peccato nel grembo materno.
La posizione che Gesù prende su questo argomento è chiara e illuminante: “Né il cieco, né il suoi genitori hanno peccato” (v. 3). È una bestemmia parlare di castighi di Dio, è un modo pagano di immaginarlo. Quando la Bibbia parla dei “castighi di Dio” impiega un linguaggio arcaico che non è più il nostro e con esso intende denunciare i disastri provocati dal peccato, non da Dio. Oggi è scorretto e deviante usare la metafora del “castigo di Dio”, senza chiarirne subito il significato.
Di fronte al male non ha senso chiedersi di chi è la colpa, l’unica cosa da fare è impegnarsi per eliminarlo, come Gesù ha fatto.
“È così – dice Gesù parlando del cieco – perché in lui possano manifestarsi le opere di Dio” (v. 3). Ogni evento è ambivalente. Siamo noi che abbiamo catalogato gli avvenimenti in buoni e cattivi, ma ognuno di loro può essere buono o cattivo. A seconda di come lo si vive, si tramuta in salvezza o segna una sconfitta.
Il cieco non ha colpa di essere nato così.
Qui fa la sua comparsa il simbolismo giovanneo: la cecità è la condizione nella quale l’uomo nasce. Non è colpa sua né degli altri. È cieco e non ha nemmeno l’idea di che cosa sia la luce, tanto è vero che non gli passa neppure per la mente di chiedere a Gesù di essere curato, è Gesù che prende l’iniziativa di guarirlo e, con il suo gesto, mostra che la sua salvezza (la sua luce) è un dono completamente gratuito.
Dove c’è lui, c’è la luce, è giorno. Dove lui è assente, è notte fonda (v. 5).
Nella seconda scena (vv. 6-7) viene riferita, in modo estremamente sintetico, la guarigione del cieco. Il metodo impiegato ci risulta piuttosto strano: il fango, la saliva… Gesù si adegua alla mentalità della gente del suo tempo che riteneva la saliva un concentrato dell’alito, dello spirito, della forza di una persona. In questo gesto – compiuto altre volte da Gesù (Mc 7,33; 8,23) – c’è forse un riferimento alla creazione dell’uomo raccontata nel libro della Genesi (Gn 2,7). L’evangelista vorrebbe cioè insinuare l’idea che dall’alito, dallo Spirito di Gesù nasce l’uomo nuovo, illuminato.
Il cieco non ricupera immediatamente la vista, deve andare a lavarsi all’acqua di Siloe e Giovanni rileva che questo nome significa Inviato. Il riferimento a Gesù – l’inviato del Padre – è esplicito: è la sua acqua, quella promessa alla samaritana, che cura la cecità dell’uomo.
La terza scena introduce il primo degli interrogatori fatti al cieco (vv. 8-12).
Illuminato da Gesù, è divenuto irriconoscibile, è cambiato completamente, tanto che i vicini, che per anni gli sono vissuti accanto, si chiedono: “Ma è lui o non è lui?”.
È l’immagine dell’uomo che, dal giorno in cui è divenuto discepolo, si è trasformato a tal punto da non sembrare più la stessa persona. Prima conduceva una vita corrotta, era intrattabile, egoista, avido, burbero, ora non più, è cambiato il suo modo di ragionare, di parlare, di giudicare, di valutare persone e avvenimenti, di affrontare i problemi, di reagire alle provocazioni. L’acqua che è la parola di Cristo gli ha aperto gli occhi, gli ha fatto scoprire com’era priva di senso la vita che conduceva. Ha creato un uomo nuovo, illuminato.
Il cammino del discepolo verso la luce piena è però lungo e faticoso. L’evangelista lo presenta con l’immagine del cieco che comincia il suo percorso nel momento in cui incontra l’uomo Gesù. “Quell’uomo che si chiama Gesù – dice – ha fatto del fango” e a chi gli chiede: “Dov’è questo tale?”, risponde: “Non lo so”. Confessa la propria ignoranza, riconosce di non sapere ancora nulla di lui.
Il punto di partenza del cammino spirituale del discepolo è la presa di coscienza di non conoscere Cristo e di sentire il bisogno di sapere qualcosa di più.
Nella quarta scena (vv. 13-17) intervengono le autorità religiose che sottopongono il cieco a un secondo interrogatorio. Non si preoccupano di verificare ciò che è accaduto. Hanno già deciso che devono condannare Gesù perché non corrisponde all’idea di uomo religioso che hanno in mente. Arrogandosi il diritto di parlare in nome di Dio, lo classificano fra i malvagi, fra i nemici del Signore in base a norme e a criteri da loro stabiliti.
Questa convinzione di essere nel giusto e di non aver bisogno di altra luce, il rifiuto di rimettere in causa le proprie certezze teologiche, li porta ad affermare altezzosi: “Noi sappiamo che quest’uomo non viene da Dio…” (v. 16). Sono ciechi, convinti di vederci.
La posizione assunta da questi farisei è un richiamo al pericolo che corre chiunque inizia a conoscere Cristo. Se rimane aggrappato alle proprie sicurezze e alle proprie convinzioni, se rifiuta caparbiamente ogni cambiamento, rimarrà schiavo della tenebra.
Il cieco, che è cosciente di “non sapere”, muove invece un secondo passo. Ai farisei che gli chiedono: “Tu cosa dici di lui?”, risponde: “È un profeta” (v. 17). Prima pensava che fosse un semplice uomo, ora ha capito che è qualcosa di più, che è un gradino sopra: è un profeta.
La quinta scena (vv. 18-23) racconta un nuovo interrogatorio. Questa volta le autorità chiamano in causa i genitori del cieco. Detengono il potere e non possono tollerare che qualcuno metta in causa le loro convinzioni e il loro prestigio. Chi osa opporsi deve essere tolto di mezzo. Sono così potenti che perfino i genitori hanno paura di prendere posizione in favore del figlio.
È la storia di chiunque viene illuminato da Cristo: non è più capito, viene abbandonato e a volte anche tradito dalle persone più care, da coloro da cui si sarebbe aspettato un incoraggiamento e un appoggio.
È sempre difficile e rischioso schierarsi dalla parte della verità: la paura di alienarsi l’amicizia della gente che conta o le simpatie di chi detiene il potere, induce spesso a omettere di intervenire quando si dovrebbe, provoca reticenze e silenzi colpevoli.
Nella sesta scena (vv. 24-34) le autorità religiose chiamano di nuovo in causa il cieco.
Nelle sue risposte, nel suo atteggiamento si possono cogliere le caratteristiche che contraddistinguono chi è illuminato da Cristo.
– È anzitutto libero: non vende la propria testa a nessuno, dice quello che pensa. “È un profeta” – afferma, riferendosi a Gesù – e quando gli obiettano: “Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore”, si permette addirittura di fare dell’ironia: “Se sia un peccatore non lo so; una cosa so: che prima ero cieco e ora ci vedo” e, subito dopo, ancor più graffiante, soggiunge: “È davvero strano che voi non sappiate di dove sia…”.
– È coraggioso:rifiuta ogni forma di servilismo, non si lascia intimidire da coloro che, abusando del loro potere, insultano, minacciano, ricorrono alla violenza (vv. 24ss.).
– È sincero: non rinuncia a dire la verità anche quando questa è scomoda o sgradita a chi sta in alto, a chi è abituato a ricevere solo approvazioni e applausi dagli adulatori.
– È semplice come una colomba, ma anche prudente.
Le autorità tentano di intrappolarlo, costringendolo ad ammettere che si è schierato dalla parte di chi “non osserva il sabato”, ma egli, con abilità, si sottrae alla trappola: “Ve l’ho già detto, perché volete udirlo di nuovo?” e assesta una nuova stoccata ironica: “Non è che per caso volete diventare suoi discepoli?” (v. 27).
– Si mantiene in un costante atteggiamento di ricerca: sa di avere intravisto qualcosa, di aver colto una parte della verità, ma è cosciente che molte cose ancora gli sfuggono. Le autorità sono invece convinte di vedere già chiaro, pensano di sapere tutto: “Noi sappiamo che quest’uomo non viene da Dio” (v. 16); “noi sappiamo che è un peccatore” (v. 24); “noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio” (v. 29).
Colui che era cieco ha invece sempre riconosciuto il proprio limite: “Di dove sia quest’uomo, non lo so” (v. 12); “se sia un peccatore, non lo so” (v. 25). Quando Gesù gli chiederà se crede nel Figlio dell’uomo, egli risponderà: “Chi è?”, riconoscendo, ancora una volta, la propria ignoranza (v. 36).
– Infine resiste alle pressioni e alla paura. Subisce violenza, ma non rinuncia alla luce ricevuta. Piuttosto che andare contro coscienza, preferisce essere cacciato fuori dell’istituzione (v. 34).
Nell’ultima scena (vv. 35-41) ricompare Gesù.
Tutto si è svolto come se egli non esistesse. Non è più intervenuto, ha lasciato che il cieco si destreggiasse da solo in mezzo alle difficoltà e ai conflitti.
Il discepolo illuminato non ha bisogno della presenza fisica del Maestro, gli basta la forza della sua luce per mantenersi saldo nella fede e fare scelte coerenti.
Alla fine Gesù interviene e pronuncia la sua sentenza, l’unica che conta quando si tratta di decidere sulla riuscita o sul fallimento della vita di uomo. Dice: all’inizio c’era un uomo cieco e molti che ci vedevano; ora la situazione è capovolta, coloro che erano convinti di vedere, in realtà sono ciechi incurabili; invece colui che era cosciente della propria cecità, ora ci vede.
Si noti come è stato chiamato Gesù lungo il racconto: per le autorità – per i “vedenti” – egli è “quel tale”, “quell’uomo”, “costui”; i capi non si degnano nemmeno di chiamarlo per nome; hanno occhi, ma non vogliono vedere chi egli sia.
Il cieco fa un percorso di fede che corrisponde a quello di ogni discepolo: all’inizio Gesù è per lui un semplice “uomo” (v. 11); poi diviene un “profeta” (v. 17); in seguito è un “uomo di Dio” (v. 32-33); alla fine è il “Signore” (v. 38). Quest’ultimo titolo è il più importante, è quello con cui i cristiani proclamavano la loro fede. Prima di venire immerso nell’acqua del photistérion, durante la solenne cerimonia della notte di Pasqua, ogni catecumeno dichiarava, davanti a tutta comunità: “Credo che Gesù è il Signore”. Da quel momento era accolto fra “gli illuminati”.