Questa è una celebrazione un po’ affollata: l’Ottava del Natale, il Capodanno, Maria Madre di Dio e la Giornata per la pace. Temo sia difficile cucinare un’omelia dando uno sviluppo congruo e tutti questi temi.
Provo, comunque, a trovare un filo che li colleghi, anche se ho memorie di messe di Capodanno con assemblee non particolarmente vivaci, ancora appesantite dal cenone, che pare sia la “liturgia” che conta di più in tale giorno.
Tutte le letture di oggi sono brevi: non è un motivo per accelerare i tempi della celebrazione, ma semmai l’occasione per sostare con più attenzione su quanto hanno da dirci.
La prima cosa che sottolineerei è la grande bellezza e il deciso rilievo che ha la prima lettura, e questo proprio perché ci si presenta come il migliore augurio che possiamo ricevere, e fare, per inaugurare un nuovo anno (Nm 6,22-27): che «il Signore ti benedica e ti custodisca, il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia, il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace».
L’augurio in tre parole
C’è in queste sei frasi, ritmate dalla triplice evocazione del protagonista, il condensato di tutto ciò che produce e dona pace, di ciò che la illustra e la materializza in immagini di una semplicità e di una ricchezza senza fondo.
Ecco un ottimo spunto per presentare il tema della giornata, che già offre l’opportunità di non girovagare su frasi fatte e richiami consueti, perché la benedizione, e la pace che ne consegue, si realizza in atteggiamenti e gesti che possiamo sperimentare e porre ogni giorno nell’ordinarietà delle nostre relazioni. Comincio della prima immagine, che – non a caso – è ripetuta due volte: è quella che mostra il Signore che si rivolge a noi con uno sguardo radioso e raggiante. Quanto contano nei rapporti con le persone gli occhi e tutto ciò che essi significano! Possono trasmettere accoglienza, affetto, simpatia, o al contrario fastidio, rimprovero, rifiuto.
Il volto è la persona, e gli occhi sono i suoi sentimenti, la sua interiorità che si rivela in una vera e propria epifania. L’ha capito molto bene la tradizione orientale delle icone, dove la parte più importante del volto non è la bocca, spesso ridotta a un segno sottile, ma l’occhio, grande, espressivo e indagatore, una scelta che mira a equilibrare carnalità (le labbra) e spiritualità (lo sguardo), per mostrare la dimensione intera della persona, che è sì carne, ma abitata da uno spirito.
Ricordo in proposito come nei vangeli ricorra con significati rilevanti il verbo “fissare” (cioè “intuire”, etimologicamente “guardare dentro”) che ci dice quale forza enorme abbia lo sguardo: è una dichiarazione d’amore (Mc 10,21), l’intuizione che riconosce un’identità nascosta (Gv 1,36), un’energia capace di cambiare una persona (Gv 1,42). Peraltro, uno dei bisogni più profondi che portiamo in noi è quello di “essere guardati”, di essere presi in considerazione, di essere stimati. Esistiamo se e quando siamo guardati, e dunque lo sguardo di Dio per sua natura ci fa esistere!
Le tre frasi, sotto il segno dello sguardo/benedizione, ci regalano i tre doni più belli di una relazione d’amore che parte dallo sguardo: la custodia, la grazia, la pace. Sono tre parole enormi, dentro le quali la vita ci regala la sua massima capacità di benessere.
La custodia rimanda a Gv 17, e illustra la regola aurea di ogni relazione: nessuno è padrone di nessuno, ma tutti siamo chiamati ad essere custodi gli uni degli altri, nelle varie forme di attenzione, di affetto e di rispetto con cui ci rapportiamo vicendevolmente. Caino non l’aveva capito, e questo fu il suo peccato (Gen 4,9).
Segue la grazia, che è la benevolenza offerta senza chiedere compenso alcuno che non sia la gioia di aiutare e di soccorrere, e che può sostenersi solo nel perenne ricordo di essere stati gratificati a partire dal dono della vita, da cui la regola: «gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,8).
Infine la pace, che è la somma e la sintesi di tutto ciò che è buono, quella che riconosciamo in Gesù che, con la sua morte e risurrezione, ci ha regalato la “sua” pace. Esiste forse una teoria più semplice, più essenziale, più autentica di ciò che costruisce la pace?
Il prodigio della nascita di Gesù
La seconda lettura (Gal 4,4-7) si pone nella linea del Natale da poco celebrato e ripreso nel giorno “ottavo”, un evento che è la più grande e più significativa “benedizione” di Dio, che non si è accontentato di “guardarci”, ma – come scrive san Bernardo –: «Per questo infatti è venuto nel mondo, perché, abitando tra gli uomini, con gli uomini, per gli uomini, illuminasse le nostre tenebre, alleviasse le nostre fatiche, e respingesse da noi ogni pericolo» (Avv VII,2); e ancora fa dire a Gesù: «Sono confitto nel fango profondo» (Sal 68,3). È chiaro che il fango siamo noi, perché dal fango siamo stati plasmati. Ma allora eravamo il fango del paradiso, ora invece siamo fango dell’abisso. «Sono confitto», dice: non sono passato oltre, non mi sono tirato indietro. «Sono con voi sino alla fine dei secoli» (Mt 28,29) (Vig Nat IV,7).
Il cuore della lettura esprime al più alto livello il grande paradosso dell’Incarnazione: da una parte, l’evento più ordinario che ci possa essere nella storia di un uomo, che, come tutti, è «nato da donna, nato sotto la Legge», dall’altra, l’effetto di una nascita che realizza «la pienezza del tempo» e produce il «nostro riscatto e l’adozione a figli di Dio!».
E, per rimanere nel tema della giornata, è da qui che viene la nostra pace, ogni pace, che non può certo esistere in uno stato di “schiavitù”, ma è la forma più alta di “libertà”. E qui entra la figura di Maria, di cui celebriamo oggi la divina maternità.
Circonciso secondo la Legge
Il Vangelo (Lc 2,16-21) è chiaramente collegato all’ottavo giorno dopo la nascita, che ricorre oggi, in cui il bambino è circonciso secondo la Legge, alla quale è sottoposto per riscattarne noi.
Il brano è un ottimo riepilogo di ciò che il Natale comporta e significa per noi. Vi compaiono i personaggi principali della scena: Maria, Giuseppe, il Bambino e i pastori. Giuseppe è il «giusto», che ascolta i messaggi di Dio pronto a obbedire senza esitare.
Il Bambino è qualificato come colui che si trova «adagiato nella mangiatoia», accompagnato cioè dal segno che ne esprime la povertà, la fragilità, la vulnerabilità, e che però, proprio in questa sua discesa nella nostra miseria, si fa nostro Salvatore, nutrimento per la nostra vita: si ricordi che Betlemme significa «casa del pane», come i commentatori antichi si compiacevano di segnalare.
Poi c’è Maria, «che, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore». Medita per capire, medita per nutrire quello “stupore” che ha preso un quinto personaggio della scena, la folla di «tutti quelli che udivano le cose dette loro dai pastori». Tra costoro ci siamo anche noi, nell’oggi perenne della storia guidata da Dio.
Lo stupore è un ingrediente necessario per la fede, che – come sappiamo – non può ridursi alla conclusione di un ragionamento che, al massimo, riguarda la testa, mentre noi siamo fatti anche, e soprattutto, di cuore, di sentimenti e di emozioni. Deve esserci in noi un’antenna che ci rende sensibili ai segnali che svegliano lo stupore per ciò che è bello e buono, per ciò che chiamiamo le «grandi meraviglie di Dio».
Il poeta gallese R.S. Thomas, in un brano che parte dalla visione improvvisa del sole che, uscendo per un momento dalle nubi, illumina per poco tempo un piccolo campo, trascura la cosa, per accorgersi subito dopo che quella era «la perla / di gran pregio, l’unico campo che conteneva / il tesoro». Da qui la sua conclusione: «La vita non è un affrettarsi // verso un futuro che s’allontana, né un agognare / un passato immaginato. È il voltarsi / come Mosè al miracolo / del roveto ardente, a uno splendore / che sembrava transitorio come la tua giovinezza / d’un tempo, e invece è l’eternità che ti aspetta» (R.S. Thomas, Il senso è nell’attesa, Àncora, Milano 2010, p. 91). Il lettore riconoscerà facilmente i riferimenti a Mt 13,44-46 e Es 3,2.
Tutto ciò implica la capacità non ovvia di lasciarsi sorprendere, una capacità che va educata e nutrita proprio da questi segnali, che arrivano da ogni parte, magari anche piccolissimi, come quando, in un altro brano, il poeta lancia le sue preghiere come sassolini su una finestra, «nella speranza di attirare dell’amato / l’attenzione». Stanco per l’assenza di ogni segnale, quando sta per rinunciare, scrive che «sbirciando una volta / attraverso le mie dita intrecciate / mi parve di scorgere / il movimento di una tenda» (Ibidem, p. 131).
Per avere questa sensibilità è necessaria l’abitudine al silenzio e alla contemplazione. Non è certo un dono che ci si può aspettare in mezzo ai botti, al frastuono e al fervore del Capodanno. Ma il capodanno dura un giorno, e la vita resta, con il battere implacabile dell’orologio. E resta la nostra missione quotidiana di essere profeti, testimoni, ed educatori di pace. In questo ci sono di esempio i pastori, che «andarono senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino adagiato nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. […] I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, come era stato detto loro». In questi verbi c’è una sintesi meravigliosa di ogni cammino di fede che si dipana da un originario stupore: andare, trovare, guardare, riferire quanto si è udito e visto.
Ciascuno è in grado di comprendere cosa sono e dove portano questi “passi” della fede. C’è un ultimo dato da aggiungere: la “circoncisione” che, nella pietà medievale, era vista come il primo di sette spargimenti di sangue che segnano la vita di Gesù, dalla nascita alla croce. È una nota stonata a Capodanno? Non proprio, credo. La pace ha un prezzo, che chiede il nostro impegno, che può essere in certi giorni e con certe persone faticoso.
E, però, è attraverso quel rito che il bambino riceve il nome che segnerà la sua missione: essere Gesù, cioè il Salvatore. Questo vale anche per noi, chiamati ad essere sempre operatori di pace (Mt 5,9).