Fin dai suoi inizi, la storia dell’umanità – ci dice la Bibbia – è stata un susseguirsi di peccati. Già al capitolo 6 del libro della Genesi l’autore sacro, con un audace antropomorfismo, afferma: “Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni disegno concepito dal loro cuore non era altro che male. E il Signore si pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo” (Gn 6,5-6).
Nella pienezza dei tempi, Dio è intervenuto per fare giustizia o, come dice il Salmo responsoriale propostoci oggi dalla liturgia, per rivelare agli occhi dei popoli la sua giustizia.
Noi conosciamo una sola giustizia, quella forense, quella retributiva amministrata dai giudici nei tribunali dove si comminano castighi proporzionati alle colpe commesse. Non è questa la giustizia di Dio. “Egli è Dio e non un uomo” (Os 11,9). Al peccato non risponde con ritorsioni e vendette, ma dando la maggior prova del suo amore, donando al mondo suo Figlio.
Una certa teologia del passato ha applicato sconsideratamente a Dio la nostra giustizia e lo ha presentato come un giustiziere. Ne è nato un cristianesimo dispensatore di paura, non annunciatore del Regno che è “giustizia, pace e gioia” (Rom 14,17).
Nel Natale Dio manifesta l’immensità del suo amore incondizionato. Questa è la sua giustizia. Tutti i popoli sono invitati a contemplarla con stupore e a lasciarsi liberare dalla paura perché “nell’amore non c’è timore, al contrario l’amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell’amore” (1 Gv 4,18).
Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Com’è diversa dalla mia, Signore, la tua giustizia!”.
Prima Lettura (Is 52,7-10)
7 Come sono belli sui monti
i piedi del messaggero di lieti annunzi
che annunzia la pace,
messaggero di bene che annunzia la salvezza,
che dice a Sion: “Regna il tuo Dio”.
8 Senti? Le tue sentinelle alzano la voce,
insieme gridano di gioia,
poiché vedono con gli occhi
il ritorno del Signore in Sion.
9 Prorompete insieme in canti di gioia,
rovine di Gerusalemme,
perché il Signore ha consolato il suo popolo,
ha riscattato Gerusalemme.
10 Il Signore ha snudato il suo santo braccio
davanti a tutti i popoli;
tutti i confini della terra vedranno
la salvezza del nostro Dio.
In un drammatico giorno del mese di luglio dell’anno 587 a.C. i soldati di Nabucodònosor aprono una breccia nelle mura di Gerusalemme ed entrano in città, bruciano il tempio, la reggia e le case, fanno prigionieri e deportano a Babilonia gli uomini validi. Lasciano in vita nel paese solo alcuni fra i più poveri come vignaioli e contadini (2 Re 25,8-12).
A Babilonia i primi anni sono duri, penosi, tristi. Ne sono una malinconica eco le parole del famoso canto dell’esiliato: “Lungo i fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo al ricordo di Sion” (Sal 137,1). All’amarezza, all’umiliazione per la sconfitta, al dolore per la perdita delle persone care, alla nostalgia per la propria terra si aggiunge un inquietante interrogativo: come mai il Signore ci ha abbandonato nelle mani dei nostri nemici?
I primi responsabili della sciagura – concludono unanimi – sono i sovrani ottusi e insensati che ci hanno governato. Essi non hanno dato ascolto ai profeti e ci hanno condotto alla rovina. Ma anche noi siamo colpevoli: ci siamo lasciati ingannare e abbiamo commesso troppe iniquità. Chi ora ci potrà liberare dalla schiavitù? Il Signore rimarrà per sempre sdegnato con noi? Ha ripudiato per sempre la sua sposa Israele?
La risposta del Signore non si fa attendere: “Viene forse ripudiata la donna sposata in gioventù? – dice il tuo Dio – Per un breve istante ti ho abbandonata, ma ti riprenderò con immenso amore… Anche se i monti si spostassero e i colli vacillassero, non si allontanerebbe da te il mio affetto” (Is 54,6-10).
Difatti un giorno il Signore “si ricordò del suo amore e della sua fedeltà alla casa d’Israele” (Sal 98,3) e decise di andare a liberare il suo popolo. È a questo punto della storia che si inserisce la nostra lettura.
A Babilonia compare un profeta inviato da Dio ad annunciare parole di consolazione al suo popolo. Egli è così convinto della fedeltà del Signore che parla come se l’esilio fosse già concluso. Il futuro per lui è già realtà: vede la carovana degli esiliati dirigersi verso Gerusalemme, un messaggero la precede, corre, è come se avesse le ali ai piedi perché vuole essere il primo a dare la lieta notizia dell’arrivo dei deportati.
Il profeta immagina di contemplare la scena dall’alto del monte che domina Gerusalemme ed esclama: “Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunzi, che annuncia la pace, messaggero di bene che annunzia la salvezza” (v. 7).
Poi il “sogno” continua: ecco che in città esplode la gioia. Che succede? Osserva meglio e scorge le sentinelle che dall’alto delle mura scrutano lontano. All’improvviso ecco che corrono ad annunciare a tutti una lieta notizia: nella colonna di persone che si sta avvicinando hanno riconosciuto gli esiliati che ritornano da Babilonia.
A questo punto la scena diviene grandiosa: in testa alla carovana che incede trionfale le sentinelle vedono il Signore. È lui che riconduce il suo popolo a Gerusalemme (v. 8). Egli non lo aveva mai abbandonato. In visione, il profeta Ezechiele aveva visto la gloria del Signore allontanarsi dalla città santa distrutta e seguire il suo popolo condotto in esilio (Ez 10,18-19; 11,22-23). Ora ritornano insieme.
La schiavitù è finita, le sofferenze, le umiliazioni sono terminate, i capi e i re malvagi, i pastori cattivi che avevano sfruttato ed oppresso il popolo sono scomparsi per sempre. Inizia un’era nuova, un regno in cui il Signore si porrà saldo alla guida del suo popolo.
La lettura si conclude con l’invito rivolto dal profeta alle rovine di Gerusalemme: “Prorompete in canti di gioia” (v. 9). Le mura diroccate verranno ricostruite e tutti i popoli della terra contempleranno stupiti l’opera incredibile che il Dio d’Israele ha saputo realizzare (v. 10).
Questo è il “sogno” del profeta raccontato nella lettura. Cos’è realmente accaduto in seguito?
Verso l’anno 520 a.C. un gruppo di esiliati partì da Babilonia, ma quale non fu la delusione! Al loro arrivo non ci fu alcuna esplosione di gioia, il loro ritorno fu tutt’altro che un trionfo, l’accoglienza fu molto fredda, scoppiarono dissidi fra i residenti e i neo‑arrivati. Il profeta aveva dunque preso un abbaglio, si era ingannato?
Il popolo cominciò a capire: il ritorno da Babilonia era solo l’immagine di un’altra liberazione che Dio intendeva realizzare.
Israele avrebbe preferito che la profezia si attuasse immediatamente e alla lettera. L’aveva intesa in senso materiale. Aveva pensato che Dio avrebbe messo la propria forza a disposizione dei suoi sogni di gloria. Aveva capito male. Era un altro il “ritorno” sorprendente che Dio aveva in mente. Questo sì avrebbe provocato una gioia universale, incontenibile.
Seconda Lettura (Eb 1,1-6)
1 Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, 2 in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo. 3 Questo Figlio, che è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza e sostiene tutto con la potenza della sua parola, dopo aver compiuto la purificazione dei peccati si è assiso alla destra della maestà nell’alto dei cieli, 4 ed è diventato tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato.
5 Infatti a quale degli angeli Dio ha mai detto: “Tu sei mio figlio; oggi ti ho generato?”.
E ancora: “ Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio?”
6 E di nuovo, quando introduce il primogenito nel mondo, dice: “Lo adorino tutti gli angeli di Dio”.
Non si parla solo con la lingua. Un volto rabbuiato, un sorriso, un semplice sguardo, una carezza, una stretta di mano, comunicano spesso meglio delle parole ciò che si ha nella mente e nel cuore. Un regalo è carico di messaggi, anche quando non è accompagnato da un biglietto. Persino il silenzio può essere “parola”. Nel famoso racconto dell’incontro di Elia con Dio sull’Oreb, dopo aver detto che Dio non era nel vento impetuoso, nel terremoto e nel fuoco, il testo sacro continua: “Dopo il fuoco ci fu una voce di leggero silenzio” (1 Re 19,12). Era Dio che si manifestava… nel silenzio.
Egli interviene nel mondo solo attraverso la sua parola e la lettura ci dice che si è rivolto agli uomini in diversi modi.
Nei tempi antichi ha parlato attraverso il creato.
Che il creato parli di Dio è del tutto normale perché ha avuto origine dalla sua parola. In tutti gli avvenimenti, in tutti i fenomeni della natura, nel sole che sorge, nella pioggia che irrora i campi, nel volgere armonioso e regolare degli astri è possibile ascoltare il messaggio di Dio.
Chi – magari perché distratto o incantato dalla bellezza delle cose – non riesce a cogliere questa voce è chiamato nel linguaggio biblico “stolto”. Non malvagio o colpevole, ma “stolto”, cioè infelice perché, nella sua ottusità, si lascia sfuggire il senso di tutto ciò che esiste e accade. Osserva l’autore del libro della Sapienza: “Davvero stolti per natura tutti gli uomini che sono vissuti nell’ignoranza di Dio e dai beni visibili non hanno riconosciuto colui che è. Non hanno riconosciuto l’artefice, pur considerandone le opere… Se, stupiti per la loro bellezza, li hanno presi per dei, pensino quanto è superiore lo stesso autore della bellezza” (Sap 13,1.3).
Questo modo di comunicare attraverso il creato, tuttavia, è il meno perfetto. Il popolo d’Israele ha avuto il privilegio di udire la voce del Signore in modo più nitido rispetto ai pagani: l’ha ascoltata attraverso i profeti (v. 1). Il Signore manifestava a questi uomini santi il suo pensiero affinché essi lo comunicassero al popolo. “Il Signore non fa cosa alcuna – diceva Amos – senza aver prima rivelato la sua decisione ai suoi servitori, i profeti” (Am 3,7).
Negli ultimi secoli prima di Cristo, a causa delle infedeltà dell’uomo, il Cielo però si chiude. Dio non invia più i suoi profeti e il popolo fa la dolorosa esperienza del silenzio di Dio. Il profeta Amos lo aveva predetto: “In quei giorni gli uomini andranno errando da un mare all’altro e vagheranno da settentrione a oriente, per cercare la parola del Signore, ma non la troveranno” (Am 8,12).
Fino a quando Dio non rivolgerà la parola al suo popolo? Rimarrà per sempre adirato? (Sal 79,5). Il pio israelita lo supplicava: “Se tu squarciassi i cieli e scendessi!” (Is 63,20).
Quando giunse la pienezza dei tempi, mentre noi eravamo ancora suoi nemici (Rm 5,6), Dio squarciò i cieli e mandò nel mondo il suo stesso figlio: la sua immagine perfetta, la sua “Parola”, il suo “Verbo” (vv. 2-3).
Gesù è la rivelazione più elevata, più chiara, più eloquente del Padre. Vedendo lui si vede il Padre (Gv 14,9). Egli è il fulgore irradiato dal Padre – come afferma anche Paolo – “E Dio che disse: ‘Rifulga la luce dalle tenebr È rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulse sul volto di Cristo” (2 Cor 4,6).
L’ultima parte della lettura (vv. 4-6) insiste sulla superiorità incomparabile della rivelazione ottenuta attraverso Gesù. Gli Ebrei sostenevano che Dio aveva parlato loro persino servendosi degli angeli. L’autore della lettera ribatte: Gesù è immensamente superiore agli angeli. Come prova cita tre testi della Scrittura e conclude: “Lo adorino tutti gli angeli di Dio”.
Vangelo (Gv 1,1-18)
1 In principio era il Verbo,
il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
2 Egli era in principio presso Dio:
3 tutto è stato fatto per mezzo di lui,
e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste.
4 In lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini;
5 la luce splende nelle tenebre,
ma le tenebre non l’hanno accolta.
6 Venne un uomo mandato da Dio
e il suo nome era Giovanni.
7 Egli venne come testimone
per rendere testimonianza alla luce,
perché tutti credessero per mezzo di lui.
8 Egli non era la luce,
ma doveva render testimonianza alla luce.
9 Veniva nel mondo
la luce vera,
quella che illumina ogni uomo.
10 Egli era nel mondo,
e il mondo fu fatto per mezzo di lui,
eppure il mondo non lo riconobbe.
11 Venne fra la sua gente,
ma i suoi non l’hanno accolto.
12 A quanti però l’hanno accolto,
ha dato potere di diventare figli di Dio:
a quelli che credono nel suo nome,
13 i quali non da sangue,
né da volere di carne,
né da volere di uomo,
ma da Dio sono stati generati.
14 E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi;
e noi vedemmo la sua gloria,
gloria come di unigenito dal Padre,
pieno di grazia e di verità.
15 Giovanni gli rende testimonianza
e grida: “Ecco l’uomo di cui io dissi:
Colui che viene dopo di me
mi è passato avanti,
perché era prima di me”.
16 Dalla sua pienezza
noi tutti abbiamo ricevuto
e grazia su grazia.
17 Perché la legge fu data per mezzo di Mosè,
la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
18 Dio nessuno l’ha mai visto:
proprio il Figlio unigenito,
che è nel seno del Padre,
lui lo ha rivelato.
Tutti gli autori curano con particolare impegno la prima pagina dei loro libri perché costituisce il foglio di presentazione di tutta l’opera. Deve essere non solo piacevole e accattivante, ma è bene che accenni anche ai temi essenziali che verranno trattati in seguito. È un modo per stuzzicare l’interesse e la curiosità del lettore.
Per introdurre il suo vangelo, Giovanni compone un inno così sublime, così elevato da meritargli, giustamente, il titolo di “aquila” fra gli evangelisti. In questo prologo, come nell’“ouverture” di una sinfonia, è possibile cogliere i motivi che saranno poi ripresi e sviluppati nei capitoli successivi: Gesù inviato del Padre, sorgente di vita, luce del mondo, pieno di grazia e di verità, Unigenito nel quale si rivela la gloria del Padre.
Nella prima strofa (vv. 1-5) Giovanni sembra spiccare il volo da un’immagine cara alla letteratura sapienziale e rabbinica: la “Sapienza di Dio” raffigurata come una donna incantevole e deliziosa. Ecco come la “Sapienza” si autopresenta nel libro dei Proverbi: “Il Signore mi ha creato all’inizio della sua attività, prima di ogni sua opera. Quando non esistevano gli abissi, io fui generata; prima che fossero fissate le basi dei monti, prima delle colline, io sono stata generata. Quando egli fissava i cieli, io ero là; quando stabiliva al mare i suoi limiti, quando disponeva le fondamenta della terra, io ero con lui” (Prv 8,22-29).
Si tratta di una personificazione ripresa anche nel libro del Siracide, dove si afferma che la Sapienza si è come incarnata nella Toràh, nella Legge, e ha fissato la sua tenda in Israele (Sir 24,3-8.22).
Giovanni conosce bene questi testi e – forse anche con un filo di polemica nei confronti del giudaismo – li riprende e li applica a Gesù.
È lui – dice – la Sapienza di Dio venuta a porre la sua tenda in mezzo a noi, è lui, e non la legge mosaica, che rivela agli uomini il volto di Dio e la sua volontà. Egli è il Verbo, la Parola ultima e definitiva di Dio, è quella stessa Parola mediante la quale Dio, in principio, ha creato il mondo.
Non solo. A differenza della Sapienza personificata (Sir 24,9), la Parola di Dio – che in Gesù si è fatta carne – non è stata creata, ma “era” presso Dio, esisteva dall’eternità ed era Dio.
Per Israele la Sapienza è “un albero di vita per chi ad essa si attiene” (Prv 3,18). Giovanni chiarisce: la Sapienza di Dio si è manifestata pienamente nella persona storica di Gesù. È lui, non più la Legge, la sorgente della vita.
La venuta di questa Parola nel mondo divide la storia in due parti: prima e dopo Cristo, tenebre senza di lui, luce dove c’è lui. Parola che, come una spada, penetra nell’intimo di ogni uomo e separa in lui ciò che è “figlio della luce” da ciò che è “figlio della tenebra”. La tenebra cercherà di sopraffare questa luce, ma non vi riuscirà. Anche la risposta negativa dell’uomo non potrà soffocarla e alla fine la luce avrà la meglio nel cuore di ognuno di noi.
La seconda strofa (vv. 6-8) è un primo intermezzo narrativo che introduce la figura del Battista. Di lui non si dice che “era presso Dio”. Giovanni è un semplice uomo suscitato da Dio per una missione. Doveva essere il testimone della luce. Il suo ruolo è tanto importante che viene sottolineato per ben tre volte.
Egli non era la luce, ma seppe riconoscere la luce vera e indicarla a tutti.
La terza strofa (vv. 9-13) sviluppa il tema di Cristo-luce e la risposta degli uomini di fronte al suo apparire nel mondo.
L’inno si apre con un grido di gioia: “Veniva nel mondo la luce vera”. Gesù è la luce autentica, in contrapposizione ai luccichii illusori, ai fuochi fatui, ai miraggi, ai bagliori ingannevoli proiettati dalla sapienza degli uomini.
A questo grido entusiastico si contrappone però subito un lamento: “il mondo non lo riconobbe”. È il rifiuto, l’opposizione, la chiusura alla luce. Gli uomini preferiscono l’oscurità perché affezionati alle loro opere malvagie (Gv 3,19).
Neppure gli israeliti – “la sua gente” – la accolgono. Eppure avrebbero dovuto riconoscere in Gesù la manifestazione ultima, l’incarnazione della “Sapienza di Dio”, di quella Sapienza che “fra tutti i popoli aveva cercato un luogo di riposo nel quale stabilirsi” e proprio in Israele aveva trovato la sua dimora. Il Creatore dell’universo le aveva dato quest’ordine: “Fissa la tua tenda in Giacobbe e prendi in eredità Israele” (Sir 24,7-8).
Sorprende il rifiuto della luce e della vita da parte degli uomini, anche dei più preparati e ben disposti. Anche Gesù si meraviglierà un giorno dell’incredulità dei suoi stessi conterranei (Mc 6,6). Questo significa che la luce che viene dall’alto non si impone, non fa violenza, lascia liberi, ma pone di fronte ad una decisione ineludibile: bisogna scegliere fra “benedizione e maledizione” (Dt 11,27), fra “ vita e morte” (Dt 30,15).
La strofa si conclude con la visione gioiosa di coloro che hanno creduto nella luce. Credere non significa dare il proprio assenso intellettuale ad un pacchetto di verità, ma accogliere una persona, la Sapienza di Dio che si identifica con Gesù.
A coloro che si fidano di lui viene concesso “un diritto” inaudito: divenire figli di Dio. È la rinascita dall’alto di cui Gesù parlerà a Nicodemo (Gv 3,3), rinascita che non ha nulla a che vedere con la nascita naturale che è legata alla sessualità, al volere dell’uomo. La generazione da Dio è di un altro ordine, è opera dello Spirito.
La quarta strofa (v. 14): “E il Verbo si fece carne e fissò la sua tenda in mezzo a noi”. È il punto culminante di tutto il prologo e sono le parole del vangelo che oggi ascolteremo in ginocchio. Sono ancora cariche dell’ammirazione gioiosa e stupita dei cristiani delle prime comunità di fronte al mistero di Dio che per amore si spoglia della sua gloria, annienta se stesso e prende dimora sotto la nostra tenda.
“Carne” nel linguaggio biblico indica l’uomo nel suo aspetto di essere debole, fragile, perituro. Si percepisce qui la drammatica contrapposizione fra “carne” e “Parola di Dio” espressa in modo così efficace nel famoso testo di Isaia: “Ogni carne è come l’erba e tutta la sua gloria è come il fiore del campo. Secca l’erba, appassisce il fiore, ma la parola del nostro Dio dura per sempre” (Is 40,6-8).
Quando Giovanni dice che la “Parola” divenne carne non afferma semplicemente che prese un corpo mortale, che si rivestì di muscoli, ma che divenne uno di noi, che si fece in tutto simile a noi (compresi i sentimenti, le passioni, le emozioni, i condizionamenti culturali, la stanchezza, la fatica, l’ignoranza – sì, anche l’ignoranza – e poi le tentazioni, i conflitti interiori…). In tutto simile a noi fuorché nel peccato.
“E noi vedemmo la sua gloria”. L’uomo biblico era cosciente che l’occhio umano è incapace di vedere Dio. Di lui si può solo contemplare la “gloria”, cioè, i segni della sua presenza, le sue opere, i suoi gesti di potenza in favore del suo popolo: “Dimostrerò la mia gloria sul faraone e su tutto il suo esercito, i suoi carri e i suoi cavalieri” (Es 14,17).
Si sentono riecheggiare in questa frase del prologo le espressioni colme di intensa commozione della prima lettera di Giovanni: “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta” (1 Gv 1,1-4).
Giovanni parla al plurale perché intende riferire l’esperienza dei cristiani delle sue comunità che, con lo sguardo della fede, sono riusciti a cogliere, al di là del velo della “carne” di Gesù umiliato e crocifisso, il volto di Dio.
Il Signore ha manifestato spesso la sua gloria con segni e prodigi, ma mai si era rivelato in modo così chiaro e palese come nel suo “Unigenito, pieno di grazia e di verità”. “Grazia e verità” è un’espressione biblica che significa “amore fedele”. La troviamo nell’AT quando il Signore si presenta a Mosè come “il Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà” (Es 34,6). In Gesù è presente la pienezza dell’amore fedele di Dio. Egli è la dimostrazione inconfutabile che nulla potrà mai sopraffare la benevolenza di Dio.
La quinta strofa (v. 15) è il secondo intermezzo. Ricompare il Battista e questa volta egli parla al presente: “rende testimonianza” in favore di Gesù. “Grida” agli uomini di tutti i tempi che egli è unico.
La sesta strofa (vv. 16-18) è un canto di gioia dal quale trabocca la riconoscenza a Dio della comunità per il dono ricevuto. Dono incomparabile. Anche la legge di Mosè era un dono di Dio, ma non era definitiva. Le disposizioni esterne che essa conteneva non erano in grado di comunicare “la grazia e la verità”, cioè, la forza che permette all’uomo di corrispondere all’amore fedele di Dio. La “grazia e la verità” sono state donate per mezzo di Gesù. Compare qui, per la prima volta, il suo nome.
Dio nessuno l’ha mai visto. È un’affermazione che Giovanni richiama spesso (5,37; 6,46; 1 Gv 4,12.20). La si ritrova già nell’AT: “Tu non potrai vedere il mio volto – dice Dio a Mosè – perché nessun uomo può vedermi e restare vivo” (Es 33,20).
Le manifestazioni, le apparizioni, le visioni di Dio raccontate nell’AT non erano delle visioni materiali, erano un modo umano di descrivere le rivelazioni dei pensieri, della volontà, dei progetti del Signore.
Ora invece è possibile vedere realmente, concretamente Dio osservando Gesù. Per conoscere il Padre non si devono fare ragionamenti filosofici o perdersi in sottili disquisizioni. Basta contemplare Cristo, osservare quello che fa, cosa dice, cosa insegna, come si comporta, come ama, chi preferisce, chi frequenta, da chi va a cena, chi sceglie, chi rimprovera, chi difende. Basta, soprattutto, contemplarlo nel momento più alto della sua “gloria”, quando viene innalzato sulla croce. In quella manifestazione somma di amore il Padre ha detto tutto.