Natale: “È nato per noi un bambino”

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«Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce» (Is 9,1). Se penso a cosa è diventato il Natale, viene naturale chiedersi dove stanno le “tenebre” e dove sta la “luce”. Tanti avrebbero pronta una risposta decisa, anche perché il contrasto è totale, e invita a risposte rapide e precise.

La metafora è grandiosa e affascinante, ma credo si debba stare attenti a non cadere in visioni istintive e manichee, soprattutto perché il “popolo” che a Natale arriva in chiesa alla messa di mezzanotte, non credo sia così tutto fatto di persone che hanno una visione di fede chiara e definita al punto da permettere o di fare “poesia”sul Bambino, gli angeli e il presepio, supponendo di avere davanti un coro di monaci, o al contrario, immaginando che ve ne siano nell’assemblea che ci si trova davanti, di rampognare severamente quelli che non avrebbero capito cosa sia veramente il Natale.

Certo, nell’era del consumismo che impera dalle nostre parti, è facile vedere nella festa quell’insieme di cose che pare siano un po’, a voler essere buoni, le “frange” di quello che è il vero cuore della celebrazione.

Rimane importante, perciò, partire dal presupposto suggerito dalla Prima Lettera di Pietro, quello cioè di «essere sempre pronti a rispondere, con dolcezza e rispetto, a chiunque ci domandi ragione della speranza che è in noi» (1Pt 3,15-16). È bello far festa, ma sarebbe un vero peccato non sapere bene “perché”!

Lo scopo dell’omelia è appunto quello di illuminare la mente, ravvivando nella fede la memoria di ciò che crediamo, e accompagnarci con garbo e ritrovare in noi quella speranza che dà senso alla nostra vita e sostiene l’esercizio della carità verso tutti quelli che, nel Signore, sono pur sempre i nostri fratelli.

Per molti di noi il Natale è intriso di memorie emotive che hanno marcato la nostra infanzia: la frenesia dei giorni di vigilia, alcuni canti ben noti che riempiono già da mesi l’atmosfera nei supermercati; l’attesa di grandi e piccini per i regali; il cenone e il pranzo che sono diventati “la” notizia dei telegiornali, il ritrovarsi in famiglia… Proviamo a vedere cosa c’è di buono in queste e altre cose, soprattutto ricordando che la fede, e la liturgia che la celebra e la nutre, è fatta anche di sentimenti ed emozioni, che possono anche produrre frutti sorprendenti.

Mi ha sempre colpito il fatto che Hector Berlioz, uno dei più grandi compositori francesi dell’800, che si professava ateo, confessò di aver creato, testo e musica, quell’assoluto capolavoro che è L’Enfance du Christ, un oratorio che è una delle più belle prediche di Natale che mi sia mai capitato di sentire, dichiarando che l’ispirazione per questa opera gli veniva dal ricordo dei canti natalizi che aveva udito nella sua infanzia.

E quanta gente ancora sa canticchiare il Tu scendi dalle stelle o l’Adeste fideles. Perché non cominciare, per esempio, a puntare su questa memoria, utile a creare nelle persone che partecipano alla messa di mezzanotte la sensazione di essere un “popolo”? Perché la gioia, che è il tema centrale di questa festa, non è tanto un discorso da fare, ma un’esperienza da vivere, e cosà può esprimerla meglio del canto?

La risposta di Dio è un “bambino”

E vengo al percorso disegnato dalle tre letture. La prima (Is 9,1-6) ci dice proprio subito che la luce che illumina la notte di un popolo smarrito nel buio è «una gioia che si moltiplica, una letizia che aumenta». E ci dice anche il perché: non è poesia che svolazza futilmente tra le nuvole, ma è un annuncio concreto, ripetuto due volte, che parla di una ricchezza che cresce e si moltiplica! Spariscono, infatti, tutti i segni di guerra: il giogo che opprime, la sbarra che schiaccia le spalle, il bastone che percuote e ferisce saranno spezzati, «ogni calzatura di soldato che marciava rimbombando» (mi vengono in mente gli stivaloni delle polizie di tutte le dittature) sarà dato in pasto al fuoco.

E qui Isaia ci fa compiere una svolta da capogiro: tutti questi segni della tracotanza e della violenza umana vengono eliminati da “un bambino”, “un “figlio”, e sulle debolissime spalle di questa debolissima creatura andrà a posarsi il “potere”, quello buono, naturalmente, quello che farà di lui un “Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della Pace”.

Bisogna impregnarsi della forza travolgente di queste parole, degli orizzonti sconfinati che disegnano le immagini di Isaia così che, anche solo la loro memoria ci sostenga nei momenti di sconforto, che vengono, perché se guardiano il mondo senza lo splendore di simili visioni, senza la speranza offerta da questo bambino, faremo molta fatica a lavorare per costruire questa pace che trova tanti ostacoli, in noi e fuori di noi.

È il caso di ricordare che, molto spesso, i sentimenti hanno più forza delle idee per spingerci al bene. E se si vuole tradurre questa visione in emozione pura ed entusiasmo vero, chi può ascolti la musica con cui Handel, nel suo Messia, ha rivestito queste parole nel coro For unto us a child is born (Perché per noi è nato un bambino).

Un Dio confitto nel fango

Il vangelo (Lc 2,1-14) mette a fuoco, come è naturale, la nascita di Gesù. Paolo aveva concentrato la notizia in una frase: «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge» (Gal 4,4). C’è quanto basta per dire che il Figlio di Dio è entrato nella storia degli uomini nel modo di tutti, in un territorio e dentro una religione precisa.

Luca, da vero “pittore” come la tradizione dice che fosse, ci regala un racconto talmente ricco di suggestioni che è difficile commentarlo adeguatamente nello spazio di un’omelia.

Penso valga la pena sottolineare almeno tre cose. Anzitutto la folla di nomi di persone e di luoghi del paragrafo introduttivo che danno un senso di concretezza sia alla nascita di Gesù sia al tempo in cui è avvenuta: non stiamo parlando di nuvole!

Il secondo elemento è il “come” di questa nascita: in una stalla, evocata dalla culla che è in effetti una mangiatoia dove si nutrono gli animali, e questo perché «non c’era posto nell’alloggio». Non è necessariamente un rifiuto, segno di ostilità; certamente indica la precarietà della situazione per cui non c’era niente di preparato.

Il terzo punto, molto importante (meriterebbe da solo di formare il tema dell’omelia), è la chiamata dei pastori, la loro risposta, e il contenuto dell’annuncio che li coglie nel cuore della notte. La luce non risplende per un “popolo”, come diceva Isaia, ma per un gruppo di poveri posti in fondo alla scala sociale, che ne sono “avvolti”. Non c’è il seguito, riservato alla messa dell’aurora, ma il fatto ci aiuta a ricordare che l’annuncio e l’invito in questa notte è rivolto a noi, è per noi!

Vorrei fermarmi sull’elemento più paradossale di questa storia, che, abbagliati dalla bellezza di questo fulgore notturno, accresciuto dal canto di un coro di angeli, temo ci sfugga: è la stranezza incredibile che arriva al termine dell’annuncio: «Non temete, ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino, avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia».

Gli esegeti hanno già segnalato come le fasce aggancino il Natale con la sindone della Passione, e un grande predicatore del 600 inglese, il vescovo Lancelot Andrewes, ha evidenziato il rapporto con una felice allitterazione che lega, in Cristo, la greppia e la croce (cratch, Christ, cross).

Molte ninnenanne medievali vedevano già nei vagiti del bambino il preludio dell’agonia nel Getsemani e l’ultimo grande grido al Calvario. Non è per rendere lugubre il Natale, ma solo per ricordare la “serietà” dell’incarnazione. Scrive san Bernardo: «Dice invero Cristo nel salmo: “Sono confitto nel fango profondo”. È chiaro che il fango siamo noi, perché dal fango siamo stati plasmati. Ma allora eravamo il fango del paradiso, ora invece siamo fango dell’abisso. “Sono confitto”, dice: non sono passato oltre, non mi sono tirato indietro. “Sono con voi sino alla fine dei secoli”» (Sermone IV,7 per la Vigilia di Natale).

I cistercensi sono noti per aver spostato l’attenzione della pietà cristiana dalla redenzione all’incarnazione, ma la croce non sparisce certo dalla scena, anzi! Perché la “croce” è già nell’incarnazione, da loro letta come una “riduzione” che abbassa Dio alle nostre misure: in Gesù Dio “si restringe”, la sua luce si vela nell’angustia di una “lanterna” per rispetto alla debolezza dei nostri occhi, diventa la “parola che si accorcia”, addirittura la “parola che non parla (Verbum in-fans)”, e questo per non farci paura!

Scrive ancora Bernardo: «Non fuggire, non temere. Non viene con le armi, non viene per punire, ma ti cerca per salvarti. E affinché tu non dica: “Ho udito la tua voce e mi sono nascosto”, ecco è un infante, un senza voce. Infatti la voce di uno che vagisce suscita piuttosto la compassione che non il tremito di paura» (Sermone per il Natale I,3).

Come accogliere un Dio bambino

La seconda lettura (Tt 2,11-14) offre un compendio mirabile di come si debba accoglie un Dio che si è fatto bambino per essere tra noi, con noi, per noi: «vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà». Sono le tre virtù che regolano il rapporto che dobbiamo avere rispettivamente con noi stessi, con gli altri, con Dio. E in esse torna l’immagine del “popolo” al quale appare questa grande luce, che lo illumina e lo aiuta a diventare «un popolo puro che gli appartenga, pieno di zelo per le opere buone».

Proprio per celebrare il frutto più bello dell’incarnazione mi servo della conclusione di una poesia dell’inglese Elizabeth Jennings (1926-2001), intitolata “Contraddizione”, sotto il cui segno riassume tutta la vita di Gesù. Questa è l’ultima strofa: «Morì per liberare l’umanità dall’acredine / poiché tutto ciò che ebbe a soffrire era ingiusto, / e mostrò amore ove amore così di rado appare: / nel buio, nel dolore, nella morte. Prese la nostra polvere / e le insegnò a benedire».

Quale migliore immagine per sintetizzare la rivoluzione prodotta nel mondo dal Bambino che nasce a Natale di una “polvere” che si fa “benedizione”?

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