In occasione del Natale era d’uso vedere su qualche giornale la rivelazione di uno scoop sorprendente: c’era chi scopriva che Gesù non era nato il 25 dicembre! Quest’anno ne è apparso un altro, ancora più sconcertante: visto che la pandemia ha obbligato ad anticipare a un orario più congruo la cosiddetta “Messa di mezzanotte”, c’è stato chi (e pare non siano pochi) ha protestato perché, costringendo ad anticipare l’orario di quella messa, si finisce per distruggere il senso del Natale, nientemeno!
Forse è il caso di rispondere con cristiana compassione all’analfabetismo culturale, prima ancora che religioso, di certi giornalisti che si credono esperti di tutto e con superficialità sentenziano su cose che ignorano.
Ma non sarebbe male approfittare dell’occasione per una noticina anche nell’omelia, giusto per ricordare ai fedeli che nella liturgia non è mai esistita una “Messa di mezzanotte”, ma che da secoli il messale prevede per il giorno di Natale tre messe: una “nella notte”, una “all’aurora”, e una terza “a giorno fatto”. E dunque non è il giorno né l’orario che ha senso e peso nella nascita di Gesù, ma il significato che assume questo evento per noi.
Proprio partendo da un equivoco diffuso, penso che un’omelia per la Messa di Natale potrebbe mettere al centro il tema di un Gesù che “nasce nella notte”, che tra l’altro potrebbe legare la cosiddetta “Messa di mezzanotte” con quella del giorno, dove pure nel Prologo di Giovanni si parla di «tenebre» (Gv 1,5), quelle che fanno guerra alla luce.
La messa della notte
La pista di riflessione si presenta quindi in modo trasparente: c’è una notte che indica la condizione in cui veniamo al mondo, e c’è una notte che rappresenta le potenze del male, quell’istinto di “opposizione” al bene e alla luce che, a causa del guasto originale, ci portiamo dentro tutti. Tra l’altro le due situazioni trovano un legame che le unisce proprio nell’immagine della notte, e questo ai due estremi della vita di Gesù. Quando nasce, la notizia viene portata a dei pastori che vegliavano nella notte, quando è vicino a morire, nel momento in cui Giuda esce dal cenacolo per andare a consegnarlo ai suoi avversari, l’evangelista annota: erat autem nox, era notte (Gv 13,30). Su questo duplice volto della notte, quello che accoglie il Salvatore, e quello che lo tradisce, anche se seguo le letture della prima messa, vorrei proporre la riflessione.
L’annuncio che domina tutti i testi proposti dalla liturgia odierna è quello della gioia. Nella messa della notte questo si materializza come un dilagare della luce su un popolo che camminava nelle tenebre (Is 9,1-6). E per non lasciare in un’inconsistenza astratta il significato dell’immagine, il profeta provvede immediatamente a trascriverla in sensazioni concrete. È anzitutto la gioia che segue la ricchezza di un raccolto o la soddisfazione di un bottino che si condivide; ma anche la liberazione di tutto ciò che fa soffrire: il giogo che opprime, la sbarra e il bastone dell’aguzzino; è un respiro che si dilata a dimensioni totali, perché «ogni calzatura di soldato che marciava rimbombando (inevitabile ricordare le sfilate ai tempi di Hitler e altre consimili) e ogni mantello intriso di sangue saranno bruciati, saranno dati in pasto al fuoco».
Ma da dove verrà questo dono, questa liberazione: «un bambino è nato per noi»! Sorpresa delle sorprese, ma è la logica di Dio che attraversa tutta la Bibbia, la scelta di ciò che è debole per gettare la confusione su ciò che si crede forte (cf. 1Cor 1,27-29). Lo vedremo nel “segno” dato ai pastori per trovare il Salvatore: un bambino nella mangiatoia di una stalla!
Chi può ascolti (è facilissimo ricuperarlo in Internet) il grandioso coro For unto us a child is born (Per noi è nato un bambino) con cui Handel nel suo Messia ha rivestito queste parole. Perché da questo bambino straripa una cascata di titoli uno più grande dell’altro: «Consigliere mirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace»! Mi rendo conto che la realtà si incarica più spesso di contraddire queste affermazioni, e il tempo che stiamo vivendo rende difficile, quando non insolente, il solo pronunciarle. E però non possiamo fare a meno di rimanere attaccati alla loro realtà, aggrappandoci a tutto quel patrimonio di bontà e di bellezza, fosse anche solo la musica, che ci aiuta ad avere fede nella loro verità e a mantenere salda la speranza nella loro realizzazione.
Amati dal Signore
Come? Il breve passo della Lettera a Tito (Tt 2,11-14) è un capolavoro di sintesi che ritrovo citato come un gioioso ritornello nei sermoni per il tempo natalizio di Bernardo di Clairvaux e Aelredo di Rievaulx. In quel “bambino” infatti ci viene detto che «è apparsa la grazia di Dio», cioè l’amore gratuito con cui siamo amati (idea ricuperata nella nuova traduzione del Gloria, per cui gli «uomini di buona volontà» sono correttamente diventati «gli uomini amati dal Signore»), e questo deve insegnarci a respingere il buio nocivo per produrre luce, cioè «rinnegare l’empietà e i desideri mondani e vivere in questo mondo con sobrietà, giustizia e pietà, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo».
È questa la lotta tra tenebre e luce nella quale siamo impegnati, nel piccolo e nel grande, tutti i giorni. Quella luce che rifulse nel cielo la notte del primo Natale e “avvolse” come in un abbraccio i pastori, ora tocca a noi diffonderla, e lo possiamo fare se viviamo impegnati nell’impresa di diventare ogni giorno «un popolo puro che appartenga a Dio, pieno di zelo per le opere buone».
C’è sempre un raggio di speranza
A dilatare le dimensioni di una nascita di cui, quando avvenne, probabilmente non si è accorto nessuno, Luca provvede con lo stile di “storico” che caratterizza il suo vangelo: la inquadra nella cornice che evoca i potenti di allora, a cominciare da Cesare Augusto, che rivela nel «censimento di tutta la terra» il suo dominio sul mondo (Lc 2,1-14). Ma poi tutto il racconto prosegue come una traduzione nei fatti di quanto Maria aveva proclamato nel suo Magnificat: «ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili» (Lc 1,52)!
Il ribaltamento è evidente: dei grandi non si fa più alcuna menzione (accadrà lo stesso, e in modo ancora più plateale, con il modo in cui Luca annuncia l’apparizione di Giovanni Battista in 3,1-2), mentre la notizia viene portata ai “pastori”, gli ultimi della scala sociale, e sopra la stalla l’araldo non è un soldato romano, ma un angelo del Signore, seguito da «una moltitudine dell’esercito celeste» a proclamare il significato di quella nascita: gloria a Dio nei cieli e pace sulla terra agli uomini amati dal Signore.
La risposta dei pastori è confidata al vangelo della messa dell’aurora, scelta che non credo casuale, perché quello è il momento in cui, dopo avere visto il Bambino, i pastori escono dalla notte per andare verso il pieno giorno.
Nella terza messa, il Prologo di Giovanni ci ricorda che il buio che è uscito dal cuore dei pastori rientra nel cuore di quelli che sono nelle “tenebre”, quelli che “non lo riconoscono e non l’accolgono” (Gv 1,10-11). Va detto che “riconoscere” pare suggerire che si tratti solo di ignoranza, di per sé incolpevole, mentre c’è anche un significato più forte del verbo, che indica “afferrare, soffocare”, e qui le tenebre diventano forze cattive che lottano contro la luce per spegnerla.
Com’è noto, tutto il vangelo di Giovanni si muove su questa direttrice del conflitto senza tregua tra luce e tenebre. Tale dramma tra accoglienza e rifiuto si svolge costantemente in ciascuno di noi.
Isacco della Stella (XII secolo) afferma con chiarezza che «l’uomo nasce nella notte», che il buio è la sua natura, ma che la luce è apparsa proprio per farlo «uscire dalla notte» (Serm. 16,8)! La differenza ora è tra quelli che «amano la loro notte», e quelli invece che «desiderano il giorno» (Serm. 17,4).
E qui ritrovo un bel salmo di Patrice de la Tour du Pin (1911-1975), che è un invito a “trasfigurare le notte”, di cui cito alcuni versi: «Guardate la notte dietro di noi / e vedete davanti come è trasparente! / Le piante d’ombra distendono i loro rami verso il giorno. // Fa azzurro davanti, gridatelo, su, gridatelo! / Anche la morte non interrompe l’erta su cui saliamo, / non perdiamo il fiato come adulti, / è il bambino che prende il volo in noi! // […] Libera ciò che hai misconosciuto e soffocato con la tua colpa, / prolunga quello che hai bloccato in te, / anche gli uomini d’ombra distendono le braccia verso il giorno. // Non hanno saputo che faceva azzurro in loro, / non hanno lasciato giocare la brezza divina, / si sono radicati su se stessi. // Non guardare più la notte, mio portatore d’ombra».
Non c’è spazio per elencare i tanti modi di entrare nella notte, così come ce ne sono tanti per uscirne. Ma raccolgo l’invito del poeta a “non perdere il fiato come adulti, ma a far volare il bambino in noi”.
In questa figura ritroviamo l’immagine che sta al centro della liturgia e della festa odierna, eco perfetta del diventare “piccoli”, non nel senso puerile e bamboccione, ma nella spontaneità e nell’entusiasmo con cui il bambino tende le mani verso l’adulto dal quale si attende affetto e protezione. Perché il Natale è annuncio di una nascita che è anche un appello: lottare ogni giorno per non lasciarsi inghiottire dalla notte, «gemella della morte» (Shakespeare).
Concludo con il poeta bretone Guillevic (1909-1999), incontrato in un Natale lontano e mai più dimenticato. «C’è sempre / Natale che arriva. // C’è sempre nel buio più buio / un po’ di luce da supporre, // da vedere già salire, anche al di fuori di sé, // soprattutto quando la notte in cui si sguazza / è la più lunga. // È un tunnel senza volta / che sfocia // già fin da ora / su un bambino nella luce».
È una luce che, anche quando non la si vede, è comunque sempre da “supporre”, perché questa è la fede. Solo così la vita, anche se rimane pur sempre un tunnel che rischia di soffocarci nelle sue strettoie, trova però un respiro perché ormai è “senza volta” e ci apre alla vista del cielo azzurro sopra di noi, e questo grazie ad “un bambino nella luce” che vediamo già sullo sfondo, un bambino che trasforma la supposizione in speranza.
Va be, l’ignoranza e’ sempre degli altri. Fino all’anno scorso nelle rubriche del messale era scritto : “Secondo la tradizione costante delle Chiese in Italia la Messa della notte di Natale si celebri a mezzanotte a meno che ragioni pastorali…età”. Di che parliamo? Di scoop.
Certamente, ormai, dopo il 2013 le tradizione non hanno più il valore di un tempo e tutto è possibile per l’uomo.