Oltre a quello di san Giovanni Battista, la Chiesa ricorda solamente il giorno della natività di Gesù e di Maria. Egli è il più grande fra i nati di donna, cerniera vivente fra i due Testamenti. La sua figura e la sua missione restano esemplari per la Chiesa di ogni tempo.
Il Battezzatore è stato soprattutto il Precursore del suo Signore, nella predicazione da vivo (pur con toni e contenuti diversi) e nella morte quale testimone della Torah di YHWH. Un vero “Servo di YHWH”.
I “canti” del Servo
Nel corpo vivo della seconda parte del libro di Isaia, il DeuteroIsaia (Is 40–55), spiccano quattro brani identificati tradizionalmente con “I canti del servo di YHWH”. La loro estensione è discussa (Is 42,1-4[5-9]; 49,1-6 [7-13]; 50,4-9 [10-11]; 52,13–53,12), ma spesso sono considerati omogenei tra di loro ed eterogenei al contesto. Di per sé, non sono neppure “canti”, dal momento che il loro genere varia: dalla confessione in prima persona alla lamentazione in terza persona, dalla presentazione regale al dialogo tra YHWH, il popolo e il servo.
La tradizione si è affaticata soprattutto nell’identificazione del servo, ma il risultato sono solo ipotesi astratte e congetturali: si svaria dall’identificazione profetica (Mosè, Geremia, il DeuteroIsaia ecc.) a quella storica (Zerubbabel, Yehoyachin, Sedecia ecc.). Nella tradizione ebraica si ama far riferimento al messia, a Israele, a una sua parte fedele…
Queste ipotesi vanno per la maggiore ancor oggi nell’ebraismo e nel cristianesimo. L’identificazione della figura del servo non deve essere l’operazione ermeneutica più importante. Sembra invece molto fruttuosa, per l’interpretazione complessiva, considerare questi brani profondamente inseriti nel contesto letterario, che sembra essere il miglior supporto ermeneutico per l’interpretazione del contenuto del brano e, secondariamente, un aiuto per un’eventuale identificazione del misterioso “servo di YHWH”.
Mio servo tu sei, Israele
Il “servo” parla in prima persona e fa appello a un “giudizio universale” che si pronunci sull’insieme della sua vicenda e della sua opera. Chiama a testimoni (o a essere giurati della corte) le “isole” e le “nazioni”. Esse sono entità lontane geograficamente dalla terra di Israele e pervase da una cultura e da un religiosità “altre” rispetto a quella israelitica. Ma il “servo” non teme di appellarsi alla loro valutazione critica, poggiando la sua fiducia nella comune umanità per emettere una valutazione equa della sua situazione.
Egli è ben consapevole di essere stato fatto oggetto di una “chiamata personale/vocazione/qerā’ānî” ancora prima della sua nascita. La sua vocazione connota con un DNA unico la sua persona ancora prima del suo vedere la luce. La vocazione a servire non si aggiunge estrinsecamente alla sua esistenza fisica ai suoi inizi (si pensi al profeta Samuele, cf. 1Sam 1,19-28) o giunta agli anni giovanili (come fu il caso del profeta Isaia, cf. Is 6) con una sua strutturazione ormai già ben formata.
Come per il profeta Geremia, “conosciuto e consacrato” da YHWH ancora prima di nascere (cf. Ger 1,5-10) e poi confermato nella vocazione negli anni giovanili, il “servo” di YHWH nasce per essere tale. Nasce per adempiere la sua missione, che non determina dall’esterno la sua personalità rendendola meno libera ed eteronoma nel suo agire, ma si inscrive in lui come l’elica del DNA che connota in modo “naturale” e unico ogni persona.
La voce di YHWH, che lo chiamava ha raggiunto il suo “servo” con un appello personale (“ha chiamato me/ha gridato me”), lo ha raggiunto ancora nel “grembo/beṭen” di sua madre, nelle sue “viscere/mē‘îm”. Proprio lì e in quel lasso di tempo YHWH “ha fatto ricordare/pronunciato/hizkîr” il nome del suo servo. Lo ha fatto sentire al feto perché lo trasmettesse per vie misteriose alla madre.
Con l’imposizione del nome, YHWH prendeva possesso della sua persona e gli indicava la sua missione. Non sarebbe stato il padre – e nemmeno la madre – a imporgli il nome. Essi avrebbero avuto solo il compito di decodificare i segnali dell’alfabeto Morse emessi da YHWH, di analizzare il DNA del neonato e riconoscere una “chiamata” che veniva da molto lontano, nel tempo e nello spazio. Era una voce che sequestrava per sé il nascituro, ponendolo fra le sue proprietà, in stato di appartenenza, di sottomissione e di obbedienza totale.
Mi plasma
La voce di YHWH ha pronunciato il nome del profeta, e con questo gli ha imposto una missione. La voce di YHWH è perfomativa, attua con potenza ciò che esprime col flatus vocis. È una “parola-fatto/dābār”, frutto di un “dire/’āmar” efficace e creativo. La voce di YHWH è quella di uno “che mi plasma/yōṣrî (participio qal continuativo)” (v. 5) come un abile artigiano, un vasaio sempre all’opera. Egli prende la materia fornita dalla madre e dal padre per farne un vaso per uso “nobile/eis timēn” nella casa di Israele (cf. 2Tm 2,20). Esso conterrà un tesoro, anche se in un vaso di creta (cf. 2Cor 4,7). Potrà essere spezzato dalla violenza cieca degli uomini, ma non sarà un vaso di Pandora per la disgrazia degli uomini.
Spada e freccia
Il servo di YHWH non sarà però un imbelle, uno che si dà per vinto in partenza, un perdente nato. La sua missione è l’annuncio della parola di YHWH puntuale, preciso, tagliente e penetrante.
Se ne può vedere un esempio proprio nella pagina precedente, Is 48. La parola del profeta-servo denuncia con chiarezza l’infedeltà del popolo, la sua disobbedienza e chiusura nei confronti di YHWH. Questi chiamerà come suo strumento il pagano Ciro II il Grande. Lo farà venire da lontano e darà successo alle sue imprese (cf. Is 48,15). Anch’egli sarà un “servo di YHWH”, a suo modo e in limiti ben precisi.
Il servo di YHWH è un guerriero ben equipaggiato, fornito di attrezzatura militare di massima efficacia. La sua bocca/lingua sarà una spada lunga, pesante, a doppio taglio, le sue parole frecce appuntite riposte nella faretra di YHWH, pronte per l’uso. Egli ricorda con commozione il compiacimento del suo Signore: «Il mio servo, sei tu! Israele, di te vado orgoglioso» (A. Mello).
Il servo sarà un profeta che parla in modo tagliente e penetrante a nome di YHWH, ma sarà pur sempre appartenente al popolo di Israele, un suo discendente. Un servo a servizio del suo popolo, amante del suo popolo anche quando lo deve redarguire ferocemente per la sua infedeltà al patto con YHWH.
Troppo poco
Il momento della crisi arriva per tutti, anche per il profeta, il servo del Signore.
Il suo è un lamento accorato, ai limiti dello scoraggiamento totale. Il suo sforzo è stato generoso, senza risparmio di forze. Il risultato però è stato deludente, “vano/rêq”, un “soffio/hebel” passeggero, volubile, vaporoso e inconsistente. «… ho servito (douleōn) il Signore con tutta umiltà, tra le lacrime e le prove che mi hanno procurato le insidie dei giudei; non mi sono mai tirato indietro da ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi, in pubblico e nelle case… perché non mi sono sottratto al dovere di annunciarvi tutta la volontà di Dio… per tre anni, notte e giorno, io non ho cessato, tra le lacrime, di ammonire ciascuno di voi» (At 20,19-20.27.31) dirà l’infaticabile apostolo Paolo nel suo “testamento pastorale” affidato sulla spiaggia di Mileto agli anziani fatti arrivare dalla comunità di Efeso. In 1Cor 9,19.22 confermerà il suo bilancio spirituale e apostolico: «… mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero possibile… mi sono fatto tutto per tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno».
Il servo-profeta è esausto, senza più forze, ormai “consumate/finite/kōḥîkillêtî”. IL DNA però non mente. Dall’elica riparte l’input della fiducia incrollabile. Il profeta “sa” che il suo giudice giusto e inappellabile è YHWH. Egli conosce la genuinità e la generosità degli sforzi, come pure la responsabilità della sordità e della disobbedienza in campo.
La “paga/pe‘ullatî” del militare fedele e combattivo, l’orgoglio di YHWH, è al sicuro presso il suo Signore. Egli conosce la verità della cose, la generosità del “vaso” plasmato in continuità, il suo “valore/peso/’ekkābēd”. Ha fatto di tutto per mettere a frutto la forza che YHWH gli donava “per far tornare/convertire/lešôbēb” Giacobbe/Israele dal suo esilio/peccato, per “rimettere in piedi/ristabilire/(ri)suscitare/lehāqîm” le tribù di Israele.
Luce e salvezza di YHWH
Il guerriero scoraggiato si è confidato col suo comandante in capo, ha fatto rapporto a lui e gli ha aperto il proprio cuore con fiducia. E a chi tocca il fondo, la spinta all’insù non viene negata.
Il compito del servo-profeta guerriero non è concluso, ma rilanciato, raddoppiato. “Troppo poco/nāqēl” quello che hai fatto, rispetto alla forza che ti ho dato, alla missione nascosta nel tuo nome, all’orgoglio che tu susciti in me, gli risponde YHWH.
«Ti darò come/Ti farò luce delle genti, perché la mia salvezza arrivi agli estremi della terra». La tua “morte” per sfinimento e consunzione si trasformerà in risurrezione, vita ulteriore, a più ampio raggio.
Diventerai trasparenza della mia luce per tutti i popoli, sarai testimone della luce del Dio unico creatore perché liberatore, redentore del suo popolo dall’esilio dell’Egitto e di Babilonia. Sarai la luce della Torah, la vita “saggia” secondo i comandi di vita e di felicità donati da YHWH (cf. Dt 4,32-40).
In tal modo “la mia salvezza/yešû‘ātî” (soggetto!) “sarà/arriverà/lihiôt” ai confini della terra.
Luce che illumina, riscalda, indirizza, rivela, fuga le tenebre della menzogna che manipola i cuori e le menti. Luce che difende l’uomo da se stesso, dai suoi idoli artefatti, dai suoi sentieri interrotti e dalle sue libertà di corto respiro. Porterai una speranza grande, che sorregge le piccole speranze quotidiane.
Il servo-profeta sente dentro di sé un’acqua fluire sommessa: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2Cor 12,9). L’animo si placa nella fede: «… quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,10).
Benedetto il Signore
Di fronte alla mano del Signore che sta con il suo bambino, fonte di lode e di domande stupite della gente, le labbra chiuse del sacerdote Zaccaria (“YHWH ricorda”) – castigo e simbolo a un tempo di fronte alle grandi opere del Signore non accolte prontamente nella fede – si aprono finalmente al canto profetico (epropheteusen).
Nella preghiera contemplativa di Zaccaria, la benedizione retrospettiva verso il Dio liberatore precede ogni altra lode, supplica, profezia e ringraziamento (cf. Lc 1,67-75).
La lode di Zaccaria, ispirata dallo Spirito profetico, si radica sull’opera potente di Dio sperimentata da Israele nella sua storia. La promessa fatta a Davide (cf. 2Sam 7) e confermata più volte nella storia di Israele, vede ora l’inizio del compimento nell’arrivo del Salvatore potente, Gesù. Egli è in persona la “visita” benevola del Dio di Israele che riscatta il suo popolo dai nemici.
Gesù è compimento di parole profetiche, salvezza dai nemici, segno definitivo di misericordia, memoriale vivente dell’alleanza che unisce YHWH al suo popolo (e tendenzialmente con tutte le genti).
La liberazione dalla “schiavitù/‘ăbôdāh” in Egitto era stata donata da YHWH a Israele in vista di un “servizio liturgico ed esistenziale/‘ăbôdāh” nella libertà. Una libertà responsabile, radicata in una grazia prevenienete in vista di una oblatività estroflessa, connotata dalla santità e dalla giustizia.
Una vita “altra”, “santa”, pervasa dal Santo, segnata da uno standard morale superiore a quello delle “genti” (cf. Lv 19,2 «Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo»). Una vita di stretta unione di intenti e di opere (“giustizia”) con l’Alleato divino. Una vita “liturgica” di lode e di integrità comportamentale, segnata dall’amore del prossimo e dall’integrazione anche dello straniero e del “nemico” (cf. Lv 19,18; Nm 9,14; 15,14; Dt 5,14-15; 10,19 26,11; 27,19…). Una vita nella pace, senza timore alcuno, né degli uomini, né del proprio Dio «amante della vita» (Sap 11,26).
Profeta dell’Altissimo
Dalla benedizione di YHWH Signore, la preghiera profetica di Zaccaria si sposta ora sul suo bambino, Giovanni (“YHWH fa grazia”).
Zaccaria lo contempla con sguardo divino, “spirituale”, profetico. Alla sua coscienza credente e orante (fatta propria e ampliata dall’evangelista e dalla Chiesa postpasquale), Giovanni sarà e sarà riconosciuto pubblicamente come tale (= “sarà chiamato”) soprattutto come un profeta (prophētēs<pro-phēmi)), un uomo che parla davanti e al posto di Dio, YHWH l’Altissimo.
Giovanni camminerà davanti al Signore, per preparargli la strada e un popolo ben disposto (cf. Is 40,3; Ml 3,1). Il Signore/Kyrios YHWH è ora il suo Figlio Gesù risorto e posto come Signore/Kyrios alla destra di Dio/Theos, il Padre/Patēr. Giovanni sarà come l’angelo di luce che apre di notte la strada della liberazione nel deserto dell’esodo. Una colonna di nube, tromba d’aria di luce sabbiosa che indica di giorno il cammino sicuro al popolo in cammino.
Il dono-compito proprio di Giovanni sarà quello di illuminare la coscienza spirituale e morale del popolo di Israele, un richiamo incarnato a vivere nella libertà ricevuta in dono dal Dio dell’esodo.
Noctem fugat lux, la luce mette in fuga la notte. Giovanni sarà la coscienza critica di Israele (gente semplice e potenti insieme), perché torni indietro dai propri bersagli sbagliati (“peccati”), per camminare sulla “strada santa”, l’“autostrada dei re” della Transgiordania: «Ci sarà un sentiero e una strada e la chiameranno via santa; nessun impuro la percorrerà. Sarà una via che il suo popolo potrà percorrere e gli ignoranti non si smarriranno. Non ci sarà più il leone, nessuna bestia feroce la percorrerà o vi sosterà. Vi cammineranno i redenti. Su di essa ritorneranno i riscattati dal Signore e verranno in Sion con giubilo» (Is 35, 8-10a).
Sole di tenerezza
Se, grazie alla predicazione Giovanni, il popolo prenderà coscienza dei propri peccati, esso sperimenterà la conoscenza della salvezza. Essa sorgerà dall’alto come un sole che porta in visita benefica (episkepsetai[ v. 78, cf. v. 68]) la tenerezza e “la misericordia/splagchna eleous (= viscere di misericordia materna/tenerezza)”di Dio.
Il sole della tenerezza misericordiosa di Dio annienterà le tenebre mortali in cui si trova Israele (e le genti) (cf. Is 9,1; Is 42,7) e dirigerà i suoi passi sulla via della pace piena, lo šālôm messianico.
Inserito pienamente nella temperie spirituale e teologica del suo tempo, Giovanni connoterà però di fatto la sua predicazione secondo uno stampo apocalittico, di ammonizione severa contro i peccatori, senza sfumature. Una divisione netta del mondo in malvagi e giusti. Una via di santità divisiva incontro al YHWH, signore e giudice della storia. La prassi di accoglienza misericordiosa – non giustificante del male – attuata da Gesù lo metterà in crisi teologica e spirituale sulle modalità dell’instaurazione della santità di Dio nel mondo (“il Regno”).
Grande nel Regno
Giovanni sarà il Precursore di Gesù nella predicazione in vista di preparare un popolo ben disposto verso Dio. Morirà decapitato nella fortezza di Macheronte per la sua fedeltà radicale alla Torah di YHWH. A lui erano accorsi poveri peccatori, prostitute e pubblicani, che lo avevano ascoltato e avevano «riconosciuto che Dio è giusto» (Lc 7,29), convertendosi. In quel frangente, di fronte alle persone in carne e ossa, le parole di Giovanni verso i pubblicani e i soldati desiderosi di un cammino spirituale percorribile a loro non erano state violente e radicali. Aveva solo chiesto loro passi di comportamento possibili nella loro situazione di “lavoro” (cf. Lc 3,12-13.14; cf. Amoris laetitia c. VII, nn. 291-312: “Accompagnare, discernere e integrare la fragilità”; n. 293: «Nel discernimento pastorale conviene “identificare elementi che possono favorire l’evangelizzazione e la crescita umana e spirituale”» [cit. della Relatio Synodi 2014, 27]”).
Il più “piccolo” che accoglie Gesù e il suo Regno è più grande di Giovanni il Precursore, il Battista (cf. Lc 7,28).
Vogliamo pensare – ne siamo certi – che il Precursore in vita e in morte del Signore Gesù, il più grande fra i nati di donna (cf. Lc 7,28), nel buio della galera del Macheronte abbia alla fine allineato le sue categorie teologiche a quelle del Messia che rivelava se stesso (e il Padre) nella prassi accogliente di liberazione dei poveri, dei malati, dei peccatori.
Vogliamo pensare – ne siamo certi – che anche Giovanni Battista, il Precursore, il più grande fra i nati di donna e “più che un profeta” (cf. Lc 7,26) sia “grande” anche nel Regno dei cieli.
L’amico dello Sposo gioisce alla voce dello Sposo (cf. Gv 3,29).
L’amico gioisce nel “diminuire”, mentre vede “crescere” lo Sposo (cf. Gv 3,30).
E lo Sposo ha già detto da tempo all’amico: «Vieni, entra nella gioia del tuo Signore» (cf. Mt 25,21).