Il lungo racconto della Passione, al centro della liturgia odierna, preceduto, quando si può fare, dalla processione con le palme o l’ulivo, non consente in questa domenica un’omelia troppo estesa. Peraltro, chi volesse riflessioni su tutte e tre le letture, non ha che da ricorrere a quanto scritto per l’Anno A.
Ho pensato che la cosa migliore da fare fosse una riflessione più breve, concentrata sul racconto di Marco, anche perché la Passione serve da portale a tutta la liturgia della Settimana santa, e dunque pare utile richiamare all’inizio alcune delle disposizioni d’animo con cui ci prepariamo a rivivere gli eventi che caratterizzano il mistero pasquale.
Si può usare il testo o come introduzione o come breve commento alla lettura, magari sezione per sezione. Per il vero, il Messale prevede la scelta tra l’intero testo (Mc 14,1-15,47) e una versione più breve (Mc 15,1-47), che fa partire il racconto dalla condanna di Pilato. Penso che, per una volta, più dei commenti del celebrante, si dovrebbe privilegiare il testo evangelico, preparando bene le persone che lo leggono.
Una breve lirica inglese medievale di tipo popolare recita: «La memoria della tua Passione, /dolce Gesù, / provoca le lacrime, / gonfia gli occhi, / bagna di pianto il volto, / dona dolcezza al cuore». L’accento è chiaramente sulla sofferenza, anche se un verso è lasciato a un cuore che si “addolcisce” nel pentimento e nella compassione.
Giuliana di Norwich, le cui Rivelazioni partono da visioni che hanno per oggetto la Passione, indica tre modi che possono fare da griglia per la riflessione sul mistero della croce: «Il punto più importante che si deve considerare nella sua Passione è pensare e rendersi conto di chi è che colui che patì, e riflettere inoltre su questi altri due punti, che sono minori: uno è che cosa patì, l’altro è per chi egli patì» (Riv. 20,180). Il confronto è rivelatore.
La breve lirica si concentra sulla sofferenza. Giuliana, che ragiona da teologa, e che pure sa descrivere nello stesso capitolo il dramma del dolore patito da Gesù, inquadra il dolore tra due altri punti che ne sottolineano il significato per noi: evoca il protagonista, e la motivazione dell’evento, ci dà cioè una teologia perfetta della redenzione.
Il ciclo completo del mistero è però pittoricamente espresso in un altro passo, che concentra il tutto sul “volto” di Gesù: il primo è quello della Passione «nel momento in cui moriva», il secondo esprime «pietà, tenerezza e compassione, e così si mostra a tutti quelli che lo amano», il terzo è quello del «beatissimo volto che vedremo per tutta l’eternità» (Riv. 71,300-301).
Cena e arresto
Il racconto che Marco fa della Passione nel suo vangelo è il più drammatico dei quattro, tutto strutturato attorno alla dialettica che si crea tra due gruppi di personaggi: gli amici di Gesù e i suoi nemici. L’unzione di Betania riversa su Gesù un’onda di affetto, ma sullo sfondo appare già la figura di Giuda.
In questo contesto l’ultima cena indica, da una parte, il gesto con cui Gesù consegna come segno di amore il suo “testamento”, che prenderà un’ampiezza straordinaria in Giovanni; dall’altra, annuncia il tradimento di uno dei discepoli.
Con poche parole si consegna ai suoi: «Prendete, questo è il mio corpo, questo è il mio sangue dell’alleanza».
Segue la scena del Getsemani, dove la solitudine di Gesù è totale, a dispetto di quello che Pietro gli promette: «Anche se tutti si scandalizzassero, io no», e lo ripete due volte! Gesù rimane in uno stato di «paura e angoscia», mentre gli amici che aveva preso con sé dormono. Rimane solo il Padre cui affidarsi.
L’arresto, introdotto dal bacio di Giuda, provoca la reazione violenta di un discepolo, ma Gesù non entra in questa logica. Tutti fuggono, rimane «un ragazzo» che lo segue avvolto da un lenzuolo, ma che riesce a fuggire nudo dai soldati che tentano di afferrarlo.
Processo al Sinedrio
Parte poi il processo, con le accuse ben note, davanti alle quali Gesù rimane in silenzio, tranne quando, interrogato se sia lui il Cristo, risponde dicendo «Io lo sono».
La reazione è la prima serie di sputi, beffe, percosse su cui indugia spesso tanta letteratura di tutti i tempi, perché, se la prima sofferenza è la solitudine in cui Gesù è lasciato, quella del disprezzo è forse ancor più grave.
Ad appesantire la situazione, Marco presenta la negazione di Pietro, che l’aveva seguito «fin nel cortile del palazzo del sommo sacerdote», ma che poi è preso da paura, nega di essere di quelli che vanno con Gesù. E però, al canto del gallo, si ricorda di quanto gli aveva profetizzato Gesù, “e scoppia in pianto”. Qui, tra i personaggi di questa storia, c’è almeno uno che si pente di come si è comportato, e le sue lacrime lo salvano.
Processo e condanna davanti a Pilato
La forma breve inizia con il processo davanti a Pilato, dove la domanda è sul titolo di «re dei giudei», e Gesù risponde «Tu lo dici». Dopo ciò, Gesù entra in un silenzio totale, che romperà solo con l’ultimo grido sulla croce. Pilato sembra volerlo salvare ma, davanti alla ferocia della folla, propone lo scambio con Barabba, un rivoltoso contro il potere romano, probabilmente più simpatico alla gente del “remissivo” Gesù, e la scelta è obbligata. Dalla folla sale per due volte il grido: «Crocifiggilo!», e dunque, dopo averlo fatto flagellare, «lo consegnò perché fosse crocifisso».
Gesù aveva già “consegnato” se stesso ai suoi nella cena; ora è “consegnato” da Pilato per essere messo a morte. Il verbo collega due eventi interconnessi: il sacrificio cultuale e quello materiale, la mensa e la croce. Da tenere a mente! La scena successiva prepara già in modo vistoso la desolazione del Calvario: Gesù è preso in giro, deriso, sbeffeggiato, coronato di spine, vestito di “porpora” regale, quella che, sulla croce, diventerà una veste di sangue.
Via crucis
Sul cammino verso il patibolo, Gesù è solo: niente donne in pianto, nessuna Veronica, neanche sua madre, ma un Cireneo, «costretto» a portare la croce perché Gesù non vi stramazzi sotto. Sulla croce si trova accanto due «ladroni». I passanti, i capi dei sacerdoti e gli scribi, persino quelli che erano stati crocifissi con lui, «lo insultavano» deridendolo per il fatto che, pur avendo salvato altri, non sapeva salvare se stesso.
E, nell’agonia, Gesù manda un grande grido: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». C’è chi vi ha visto un urlo di disperazione: è certo che il salmo 21, citato nel suo inizio, segue una traiettoria che ne fa invece una preghiera di supplica, una notte che termina in un’alba di speranza: «Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea» 21,23), […] «Ricorderanno e torneranno al Signore tutti i confini della terra; davanti a te si prostreranno tutte le famiglie dei popoli» (Sal 21,28).
Morte e sepoltura
Marco presenta subito gli effetti “positivi” di questa morte: il velo del tempio si squarcia in quanto la sua funzione è finita, il centurione riconosce in Gesù il «Figlio di Dio», confessione che arriva solo a questo punto del vangelo, per giunta da un “pagano”. Appaiono le “donne” che lo seguivano dalla Galilea. Questo piccolo gruppo, con Giuseppe d’Arimatea, del tutto sproporzionato rispetto alla folla e agli altri che finora lo hanno insultato, è il principio della Chiesa che nasce dalla croce.
Vorrei chiudere il quadro con una splendida quartina del medioevo inglese, tratta da un manoscritto del 1240, che dipinge in modo magico la scena della sepoltura sullo sfondo del tramonto, immagine dal significato trasparente:
Ora che scende il sole sotto il bosco,
soffro, Maria, per il tuo bel volto.
Ora che scende il sole sotto il tronco,
soffro, Maria, per tuo figlio e per te.
La lirica è famosissima, rimanda a quella citata all’inizio, ma con ben altra suggestione. Il sole che tramonta è Gesù che muore, il “bosco” sta per la natura, da dove è stato tagliato “l’albero”, il “tronco” che avrebbe formato la croce, quel lignum crucis che diventa albero della vita. Con “soffro” si è tradotto un verbo inglese che significa la sofferenza che traduce il pentimento, e pure la compassione, il dolore condiviso. Ritroviamo a più riprese questo tema nello Stabat mater, di cui cito solo una strofa: Fac me tecum pie flere / crucifixo condolere/ donec ego vixero: Fammi piangere con te / e soffrir col Crocifisso / finché dura la mia vita.
Non a caso, nell’iconografia della Passione, l’immagine conclusiva e che resta nel ricordo è quella della Pietà, che riappare in una splendida versione in R.S. Thomas, poeta e prete anglicano gallese, intitolata in italiano Pietà: «Sempre le stesse colline / affollano l’orizzonte, / remoti testimoni / della scena immobile. // E in primo piano / l’alta Croce, / scura, disabitata, / si strugge per il Corpo / tornato nella culla / in grembo ad una vergine».
Quelle colline siamo noi, come le «donne» che «osservavano da lontano» la scena del Calvario. La croce è ora “scura”, quasi a incarnare il buio, e “disabitata”, perché il Corpo non c’è più, ma quel Corpo è «tornato in grembo ad una vergine», perché quella morte è, in verità, una nascita.