Presentazione del Signore: Gesù è il nuovo tempio

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La festa odierna nella memoria di molti probabilmente rimane con il nome di “Candelora” per la processione con le candele accese che caratterizza il rito di ingresso alla messa, accompagnato dall’antifona «Cristo è luce per illuminare le genti, gloria del tuo popolo Israele», come canta Simeone rivolto al bambino Gesù (Lc 2,32).

Il tema della “luce” ha sicuramente un posto di rilievo nell’origine e nella liturgia della festa, che si rivela come compimento di un tragitto iniziato la notte di Natale con l’apparizione degli angeli ai pastori, continuato nella festa dell’Epifania con la “stella” che ha guidato i magi a Betlemme, e dichiarata oggi nella piccola “epifania” avvenuta nel tempio.

Non sorprende che il tema della luce che vince le tenebre, proclamando con ciò la fine dell’inverno, stia alle spalle della liturgia cristiana che è venuta ad inserirsi su feste pre-cristiane, a cominciare dal Natale (Solstizio d’inverno), legate alla gioia di vedere il ritorno del sole e del caldo dopo la stagione in cui sembrava che tutto fosse condannato alla morte.

Si può consultare la voce “Purificazione” dell’Enciclopedia Cattolica, che risulta molto istruttiva per la ricchezza di informazioni che offre, non solo sulle origini della festa e sulle probabili premesse di processioni pagane, ma anche per la varietà delle tradizioni popolari che vi sono cresciute sopra in varie regioni dell’Occidente europeo.

In sintesi, possiamo ricordare che la festa ebbe origine a Gerusalemme nel IV secolo, basata sul racconto evangelico che sta al centro della liturgia odierna, dove era fissata al 14 febbraio, 40 giorni dopo l’Epifania che, nella Chiesa orientale, corrispondeva al nostro Natale.

Secondo l’accento messo su un aspetto o l’altro della festa, essa fu chiamata Ypapante (Incontro) quando, nel VI secolo, giunse a Costantinopoli; al suo arrivo a Roma divenne Purificazione della Beata Vergine Maria in relazione alla legge ebraica che imponeva alla puerpera un rito di purificazione 40 giorni dopo il parto (Lv 12,2-4).

In corrispondenza del nostro Natale, la festa fu fissata al 2 febbraio, dove è rimasta, e considerata, in quanto tale, come festa mariana. Con la riforma liturgica questa prese definitivamente il nome di Presentazione di Gesù al tempio, come del resto si può dedurre dall’incipit del vangelo odierno, e tornò ad essere festa del Signore.

A ben guardare, però, la liturgia di oggi ha comunque conservato tutti i temi emersi nelle varie titolazioni della festa: Gesù come luce al centro, di cui si è detto, e che si riflette sul senso che prendono i tre effetti seguenti: l’incontro tra Gesù e il suo popolo, qui rappresentato in Simeone e Anna; il tempio come luogo dell’incontro; e, infine, la purificazione, non solo quella “rituale” di Maria, ma quella radicale richiesta e insieme prodotta dall’incontro con Gesù.

Purificati e gioiosi

Il tema del tempio e della purificazione è chiaramente espresso dal brano di Malachia (3,1-4) che apre la serie delle tre letture. È la voce dell’ultimo dei profeti che annuncia l’avvicinarsi del Signore, chiamato «angelo dell’alleanza», preceduto da «un messaggero a preparare la via», che per Matteo è riconoscibile in Giovanni Battista (Mt 11,14), noto per questo come “il precursore”.

La figura dell’alleanza richiama immediatamente quella del Signore come “sposo” del suo popolo, e dunque quella correlata dell’incontro con lui come festa di nozze.

Non so quanto tale immagine sia presente nell’immaginario dei fedeli che frequentano la messa, ma non sarebbe male rinfrescarne la memoria, sia per ricordare che anche la liturgia, che è poi la maniera più normale di celebrare tale incontro, dovrebbe avere un aspetto di festa e di gioia che, ahimè, non mi pare sia molto diffuso, sia per richiamare alla necessità di arrivare alla celebrazione in qualche modo preparati e purificati: si ricordi in proposito la parabola del banchetto nuziale (Mt 22,1-14), al quale si deve arrivare con la “veste” adatta.

La gratitudine (per cui facciamo festa celebrando un rito che si chiama “eucaristia”) e la purificazione (che si esprime nella richiesta di perdono) le troviamo del resto già nei brevissimi riti di introduzione, che non sarebbe male qualche volta espandere per ritrovarne il significato.

Il testo di Malachia calca la mano sulla necessità di purificazione, che deve avvenire attraverso «il fuoco del fonditore e la lisciva dei lavandai», necessari per essere affinati «come oro e argento», e questo per essere in grado di «offrire al Signore un’offerta secondo giustizia». Se uno volesse trasformare queste immagini in forti emozioni che le visualizzino, non posso che suggerire l’ascolto di cosa ne ha fatto Handel nel suo oratorio Il Messia, dove proprio il testo di Ml 3,1-4 è trascritto in una musica travolgente nella sequenza Recitativo (5b), Aria (6) e soprattutto Coro (7: And he shall purify), in cui la velocità frenetica di una splendida fuga traduce mirabilmente la violenza allegra di una purificazione che, se pure costa, però libera e dà leggerezza e alacrità al cuore.

Dio “afferra” l’uomo

La seconda lettura (Eb 2,14-18) ci riconduce al tema dell’incarnazione, quasi una risposta alla domanda: Che faccia ha il Signore che viene a purificarci? Se le parole di Malachia ci hanno, in certa misura, spaventati, qui troviamo un salutare e potente correttivo. La frase chiave, nella traduzione corrente, suona: «(Cristo) non si prende cura degli angeli, ma della stirpe di Abramo si prende cura».

E su questo, proprio in un sermone dedicato al Natale, nel quale commenta questa frase, il vescovo anglicano Lancelot Andrewes (1555-1626), finissimo filologo e attento come pochi altri al senso vero e profondo delle parole, mi ha aperto un grande orizzonte di senso nel modo con cui indugia sull’espressione “prendersi cura”, traduzione di un verbo che significa qualcosa di più. Nel greco è epilambánetai, in latino apprehendit, in italiano afferrò!

Non ho niente contro il “prendersi cura”, che semmai evoca la tenerezza di un Dio che è anche madre. Ma nel testo si tratta dello stesso verbo usato nel racconto di Pietro strappato dalle acque in cui rischiava di affogare (Mt 14,31), dove la traduzione della Bibbia CEI rende letteralmente «lo afferrò».

Cosa significa tale scelta lo lascio dire a Andrewes che, nel primo sermone per il Natale, quello del 1605, prende a tema Eb 2,16. Consiglierei di leggere l’intero sermone che si estende su ben 25 pagine, di cui dieci (86-96) dedicate al significato del solo verbo «afferrò»! (Andrewes, Dio è diventato uomo, Qiqajon-Bose 2012, p. 79-104).

Qui ritengo utile anche solo dare l’essenziale. Commentando il senso letterale del verbo in questione, Andrewes scrive: «Questo termine “afferrò” suppone che una parte sia in fuga e un’altra la insegua; un inseguimento appassionato e molto lungo, fino a raggiungere l’oggetto e, quando l’ha raggiunto, afferratolo, lo trattiene forte e se ne impadronisce saldamente. Così il termine suppone due cose: 1. La fuga di uno, e 2. Un focoso inseguimento da parte di un altro» (p. 87).

La fuga rimanda al peccato dei progenitori, l’inseguimento descrive in modo pittorico l’incarnazione del Figlio, che non si occupò della fuga degli angeli ribelli, mentre tentò in molti modi, già con lo stesso Adamo, poi a mezzo dei profeti, poi impegnandosi lui stesso in prima persona, di «cercare la pecora perduta, e non si arrese finché non la trovò, se la mise sulle spalle e la portò di nuovo a casa» (cf. Lc 15,5) (ibidem).

La seconda parte della Lettura descrive con termini commoventi che cosa ha significato per il Figlio questo inseguimento: «rendersi in tutto simile ai fratelli… per cui, proprio per essere stato messo alla prova e avere sofferto personalmente, egli è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova».

Il tempio del Signore

Il vangelo (Lc 2,22-40) non fa sconti su questo aspetto doloroso dell’incarnazione. Il tema ricorre già nella stessa legge che impone di presentare al Signore i primogeniti, perché come tali rimangono «proprietà» del Signore, e dunque occorre almeno offrire un paio di colombe come riscatto simbolico del neonato (Es 13,1-2.15; Lv 12,8). E comunque la cosa non finisce qui, perché Simeone profetizza a suo riguardo che «egli è qui come segno di contraddizione – e anche a te (dice rivolto a Maria) una spada trafiggerà l’anima».

Il seguito della storia confermerà abbondantemente tale profezia. San Bernardo non mancherà di segnalare il collegamento: «Verrà il tempo in cui l’offerta non sarà nel tempio, e neanche tra le braccia di Simeone (Lc 2,24.39), ma fuori dalla città (Eb 13,12) e tra le braccia della croce» (Purif. III,2).

Ma questo è solo un aspetto di questo “incontro”, che ha due ricadute di enorme rilevanza: l’apparizione di un nuovo “tempio” e la liberazione/consolazione di Israele. Simeone va al tempio per incontrare Gesù, e Anna «non si allontanava mai dal tempio».

San Bernardo inizia così il primo dei tre sermoni scritti per la purificazione: «Oggi la Vergine Madre conduce il Signore del tempio nel tempio del Signore». Non è solo un bel gioco di parole, perché Gesù è venuto a dire, fin dall’inizio del suo ministero: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere… Egli parlava del tempio del suo corpo» (Gv 2,19.21). Ora è Gesù il “luogo” della presenza di Dio sulla terra, Simeone e Anna sono i primi a riconoscerlo, e a vedere nel bambino «la salvezza preparata da Dio davanti a tutti i popoli» (Simeone), e «la redenzione di Gerusalemme» (Anna): è da questa loro scoperta che si innalza il canto di ringraziamento e di lode. Non siamo forse già nel mistero di morte e risurrezione che celebreremo nella Pasqua? Non è un caso che nel Diario di viaggio di Egeria (fine sec. IV) si dica che la festa era celebrata «con somma letizia quasi fosse Pasqua» (cap. XXVI). Non è forse questa la luce che rivela quel «grande mistero della pietà» (1Tm 3,16) «nascosto da secoli in Dio» (Ef 1,26), di cui parlano le lettere paoline?

Questa è l’ultima epifania del tempo natalizio, che idealmente trova qui la sua conclusione. Rimane il rendimento di grazie e la preghiera della colletta: «concedi anche a noi di essere presentati a te pienamente rinnovati nello spirito».

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