Entriamo nella settimana santa in punta di piedi, col cuore gonfio di attese, di speranze, di sottili rimpianti per non avere sempre colto il momento opportuno di una così grande grazia come il tempo di quaresima per slanciarci più decisi verso quel cuore che ci ha tanto amato. Entriamo con gioia soffusa, perché percepiamo che si tratta delle radici della nostra vita spirituale, di ciò che tiene in piedi il nostro cammino quotidiano, di ciò che dà senso alle nostre sofferenze e difficoltà. Ci sentiamo avvolti da un amore di cui non ci sentiamo degni, eppure c’è lo stesso, che lo vogliamo o no. Un amore ostinato, disarmato, pacifico ma tenace. Un amore che è un terremoto.
Una settimana “terremotata”
Gesù entra in città, entra nel mondo un re pacifico ma deciso, umile ma determinato. E tutta la città di Gerusalemme avverte forte il terremoto (cf. Mt 21,10) che la sta attraversando. Le folle si sbandano cercando una direzione, una guida. Sentono che quel profeta gentile e umile è un re che può cambiare le cose, portare la pace ai loro giorni disastrati e con poca speranza. Dio si è ricordato del suo popolo e dal cielo manda il suo re su un pacifico puledro d’asina.
Le folle che precedono e seguono il piccolo corteo invocano salvezza dal Messia, dall’Unto, dall’Inviato definitivo di Dio. Non lo avvertono come giudice degli ultimi tempi, ma come il salvatore mandato da Dio nel suo nome per salvare definitivamente il suo popolo. Le folle inneggiano ma ondeggiano. Le folle sono volubili, manovrabili. La loro invocazione di salvezza «Hôšî‘āh nā’/Salva, ti preghiamo» è accorata, ha un grande significato religioso ma esprime pure un’invocazione chiara di liberazione politica. Il desiderio gridato dalle folle può essere però presto sviato e manipolato dal potere religioso, assecondato da quello politico.
Il re pacifico e umile va incontro sereno a ciò che il Padre vorrà per lui, a miglior bene dei propri fratelli. Un re paradossale, ma profetico e atteso da secoli, dai tempi del profeta Zaccaria (cf. Zc 9,9). Il re messianico cavalca sopra i vestiti delle persone e i rami degli alberi (21,8), ma il suo non è un dominio che schiavizza i sudditi, ma il calmo procedere del re messia, servo di YHWH che tocca la vita degli uomini e la natura tutta, per trasfondere in loro ciò che guida il suo cuore.
Salva, ti preghiamo! Salva tutti, salva tutto! Prendi in mano le nostre vite, quelle dei nostri figli. Butta dietro le spalle i nostri peccati d’orgoglio e di vuota autonomia. Il tuo programma, o re, è strano, paradossale. Non sappiamo se riusciremo sempre a starti dietro, a stare dalla tua parte.
Salva, ti preghiamo! E verso la fine della settimana, sotto la croce del re vittorioso la terra sarà ancora scossa dal terremoto (27,51.54). Ma sono solo scosse premonitorie. Il “terremoto grande” esploderà da lì a poco, la mattina del terzo giorno (28,2) e scuoterà a fondo vivi e morti (28,4). Una settimana di scosse, più che sufficienti per chi vuol capire, cambiare strada e invocare ancora con maggior forza: «Hôšî‘āh nā’/Salva, ti preghiamo!».
Non mi sono tirato indietro
Gesù affronterà giorni tremendi di sofferenze fisiche, morali e spirituali. Il grido messianico, religioso-politico, urlato dalle folle, non lo inganna. Egli conosce le loro sofferenze, il loro desiderio di vita buona, felice, libera, amica di tutti. A questo si è allenato con tante veglie di preghiera notturne e mattiniere nell’aria frizzante della Galilea o del deserto di Giuda.
Il terzo dei quattro carmi del misterioso Servo di YHWH (Is 42,1-9; 49,1-7[13]; 50,4-11; 52,13–53,12) lo ha mormorato tante volte nelle notti di preghiera, soprattutto negli ultimi tempi. Padre, desidero solo di essere un tuo perfetto discepolo! Il tuo desiderio è nel mio cuore. Grazie di “svegliare” (50,4c) ogni mattina il mio orecchio, di “aprirlo” bene perché non sia “occluso dal grasso del cerume” dell’orgoglio e dell’ostinazione (cf. Is 6,10; Gv 12,40). Sento che non posso parlare agli sfiduciati se prima non ascolto a lungo la tua parola, se non mi metto in sintonia col tuo amore eversivo, strabico e straniante. Il tuo cuore privilegia i piccoli e i poveri, i profughi e gli “esodati” senza certezze. Segui con affetto apprensivo il cammino di tanti giovani in difficoltà, perché non vedono un futuro di speranza e di lavoro davanti a sé, dopo tanti anni di studio. Gli amori fragili, le vendette assassine che, per non saper rinunciare, uccidono vigliaccamente. I figli sballottati per mari e deserti, ma anche fra salotti buoni di mamme e papà, zie, cugine e nonne. Il tuo cuore pende per loro perché sono i figli che hanno più bisogno. Metterci la faccia ti costa moltissimo.
Oggi “arano” impunemente le schiene delle persone per 25 euro al giorno. Tu, o Signore YHWH, mi sostieni, sei il mio consigliere e il mio aiuto. Non perderà mai la faccia chi difende il volto del fratello. Sono tosto, ma non cattivo. Faccia dura e decisa contro il male, ma non intransigente con chi, al momento, non capisce e colpisce duro. «Chi tace e chi piega la testa muore ogni volta che lo fa, chi parla e chi cammina a testa alta muore una volta sola» (Giovanni Falcone). Non piego la testa, ma la offro ben diritta, senza odio. Possono pur “arare” fin che vogliono, ma alla fine il male sarà sconfitto dal suo interno dal seme buono che nasce morendo.
Dammi forza, Signore YHWH, perché i miei discepoli sono deboli e la gente è volubile e si vende con facilità a chi grida più forte, a chi parla “alla pancia”, a chi va avanti a forza di slogan bolsi, istupiditi dalla chiusura mentale.
Dammi forza, Signore YHWH, vieni presto in mio aiuto, mostra dov’è la giustizia, il vivere buono in alleanza con te e i fratelli.
Vieni in mio aiuto, Signore YHWH, con la tua forza io non mi tiro indietro.
Il prezzo del sangue
«Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente» (Mt 27,4), dice angosciato Giuda “il consegnatore”. Torna “con rimpianto/pentimento (metamelētheis)” dai capi dei sacerdoti e dagli anziani del popolo, consegna loro i trenta denari ricevuti per tradire il maestro e, abbandonato cinicamente a se stesso, va a impiccarsi (cf. invece At 1,18 «divenuto in avanti/caduto a faccia in avanti, si squarciò») dopo aver gettato le monete nel tempio.
Nella tradizione ebraica probabilmente questo gesto era uno dei quattro con il quale un omicida poteva riparare al proprio peccato. In ogni caso, il “denaro sporco” non può essere riciclato. Quei soldi non possono essere messi nel tesoro del tempio per pagare qualche offerta al Signore. I capi religiosi riconoscono che sono il prezzo con cui essi stessi hanno pagato la soppressione di una vita innocente, “sparsa” senza alcuna colpa personale (26,14-16). «È prezzo di sangue (timē haimatos)» (27,6), ma anche “onore/stima di sangue”.
Trenta denari, tanto poco era già stato valutato un altro servo del Signore YHWH al tempo dei profeti (cf. Zc 11,12-13). Ma quel “sangue/vita sparsa” innocente dai nemici e dai traditori – uno dei Dodici!, ricorda con orrore ma onestamente Mt 26,14 – compie paradossalmente il piano di Dio per gli uomini fattisi a lui “stranieri” (Mt 27,7). Col “prezzo del sangue” innocente viene infatti comprato dai capi – secondo At 1,18 da Giuda stesso – un appezzamento di terra sulla pendice occidentale della valle della Geenna conosciuto come «il Campo del vasaio» (cf. Ger 19,1-6.12), che d’ora in poi sarà chiamato in aramaico «Hakeldama’/campo del sangue». Servirà a seppellire “gli stranieri” (xenoi), persone non ebree morte durante la loro permanenza a Gerusalemme per affari, per viaggi, forse anche per una preghiera al tempio (a loro permessa nel “cortile dei gentili”).
La pericope di Mt 27,4-10 è molto preziosa. La riporta solo l’evangelista Matteo. Normalmente titolata come “Morte di Giuda”, meriterebbe forse una titolatura più pregna teologicamente, già indicata da qualche studioso: “Il campo del sangue”. È questo il tema centrale del brano, che l’evangelista sottolinea con l’impiego di molti versetti e riportando citazioni di compimento da lui impiegati in passi importanti.
Il sangue di Gesù Cristo vale un campo comprato nella Valle della Geenna, nell’immondezzaio di Gerusalemme. Ma il Signore «dall’immondizia rialza il povero, per farli sedere con i nobili e assegnare loro un seggio di gloria», canta convinta Anna, la madre del profeta Samuele (1Sam 2,8). Infatti, «Il Signore… ama il forestiero» (Dt 10,18), «protegge i forestieri… ma sconvolge le vie degli empi» (Sal 146[145],9).
Il pacifico re messianico accoglie l’invocazione di salvezza che gli rivolge la folla, e affronta con mite determinazione due ingiusti processi, conclusi con un’iniqua condanna a morte.
Ma prima di questo, Gesù ha lasciato dietro a sé in consegna anticipata ai discepoli il segno sacramentale del suo corpo donato e del suo sangue versato. Ha pregato con tristezza e angoscia nel Getsemani, invocando la compagnia dei tre discepoli più fidati, ma alla fine della lotta si abbandona con fiducia alla volontà del Padre (26,42). Sarà condannato pur essendo un “giusto” (27,19) – come riconosce la moglie di Pilato, ricordata solo dall’evangelista Matteo – per l’insieme delle sue pretese messianiche, per la libertà con la quale ha interpretato con autorità nuova la volontà originaria del Padre nel dare la sua Torah, per il percorso innovativo che ha inaugurato perché i peccatori e gli ultimi possano incontrare il volto misericordioso del Padre, relativizzando – ma non disprezzando – sacrifici e cerimonie nel tempio.
Il potere religioso lo elimina come pericoloso concorrente, «per invidia» (27,18), lui che è veramente «il re d’Israele» (27,42).
Il potere politico-militare si accoda, liberandosi con poca spesa di un potenziale sovversivo, bollandolo invece con il titolo di presunto “re dei giudei” (27,11; 37).
Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
Il re mite e pacifico è torturato, sbeffeggiato, deriso e irriso nella sua pretesa di essere Figlio di Dio amante degli uomini, in specie i più disprezzati ed emarginati. Già ora egli è il Figlio dell’uomo, che però non viene solo alla fine dei tempi come giudice e re liberatore, ma fin d’ora è vicino all’umanità ferità e schiavizzata a morte dal male che scorre nelle sue vene (cf. Eb 2,14-15).
Il Messia raccoglie nell’otre del suo cuore (cf. Sal 56[55],9) l’amarezza per la fuga di tutti i suoi discepoli (26,56) e le lacrime amare di pentimento di Pietro (26,74), che nega persino di conoscerlo. Sulla croce, nel suo cuore umano-divino, sente psicologicamente la lontananza del Padre, ma nello Spirito innalza nel gorgoglio del trapasso il salmo di desolazione e insieme di fiducia: «Elì, Elì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (27,46; cf. Sal 22[21],1.22-23.32).
È la nostra lontananza dal Padre che Gesù assume nel suo amore, e gli pesa sul cuore. Dio Padre è lì, vicino alla croce, soffre in silenzio amoroso vicino al Figlio amato (Mt 3,17; 17,5), assume in sé la generosa assunzione della nostra lontananza, lo bacia lievemente sul cuore col soffio dello Spirito. Non sembra, ma è tutto vero quel che dicono irridenti i capi dei sacerdoti, con gli scribi e gli anziani: «Ha confidato in Dio; lo liberi lui, ora, se gli vuole bene (Sal 22,9). Ha detto infatti: “Sono Figlio di Dio”» (27,43). Il Figlio si è fidato. Il Padre gli vuole bene. Il Padre lo ha liberato suscitando nel Figlio un sì di vita per i suoi fratelli.
Alla morte del Figlio, il terremoto scuote la terra (27,51.54), perché l’amore dell’Innocente è già disceso sui suoi fratelli e nessuna tenda del tempio separa più Dio dal contatto immediato col suo popolo, peccatore ma santo. Con esso il Signore YHWH vuol camminare nella storia, in un nuovo esodo.
O re, mite e pacifico, abbi pietà delle nostre palme agitate da un cuore indeciso e volubile. O Signore, re d’amore misericordioso, salva, ti preghiamo, hôšî‘āh nā’. Non farci fuggire, trascinaci con te, corriamo (cf. Ct 1,4) sopra i monti dei balsami! (Ct 8,14).