Il fatto che la Chiesa ponga questa solennità al termine del ciclo liturgico pasquale ci induce a pensare. È come quando, al termine di ogni salmo, eleviamo la gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo. Intendiamo rinnovare il nostro atto di fede e di amore verso le tre persone della santissima Trinità. Nello stesso tempo, però, intendiamo esprimere la certezza che esse sono presenti alla nostra vita e noi siamo la loro dimora preferita.
Non possiamo dire che questa solennità risalga ai primi tempi della vita della Chiesa; possiamo, però, ritenere che in questo modo la Chiesa ha interpretato un’esigenza profonda della pietà cristiana: quella di mettere le tre persone della santissima Trinità al vertice della nostra preghiera e quindi in cima alla nostra vita.
1. La prima lettura è mutuata dal libro dei Proverbi. In essa si parla della Sapienza di Dio; anzi è essa stessa, la Sapienza, che parla e si presenta come creata da Dio «come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all’origine». «Dall’eternità sono stata formata, fin dal principio, dagli inizi della terra».
Alcuni esegeti fanno notare che, mentre nei libri storici e profetici il Dio di Israele si fa conoscere al suo popolo come il Trascendente che comunica la sua parola con autorità, nei libri sapienziali rivela invece un nuovo aspetto della sua natura: egli si rende presente dentro un contesto del tutto umano e pertanto si lascia conoscere attraverso l’esperienza umana.
Il libro dei Proverbi si direbbe che presenta l’immanenza – sarebbe meglio dire la vicinanza – della Sapienza di Dio, cioè di Dio nella sua sapienza, agli uomini. Essa non solo era con Dio quando egli creava, ma è anche con gli uomini, nelle varie situazioni della vita e della storia.
La Sapienza era la delizia del divino architetto mentre creava, ma giocava anche sul globo terrestre ponendo le sue delizie «tra i figli dell’uomo».
La Sapienza è presentata come una persona, che rivela la sua origine, che descrive la parte attiva che ha avuto nell’opera della creazione, che manifesta il compito singolare che le è stato affidato di condurre gli uomini a Dio.
2. Il salmo responsoriale è uno di quelli che cantano le lodi di Dio creatore e perciò possiamo considerarlo come una variazione sul tema sviluppato dalla prima lettura.
Già nel ritornello proposto dalla liturgia siamo invitati anche noi a cantare le lodi del Creatore: «O Signore, quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!». L’invito è a considerare tutte le creature, anche se poi l’attenzione del salmista si concentra sull’uomo, che è la meraviglia dell’intera creazione.
È di largo respiro questo salmo, anzi questa preghiera di lode che sale dal cuore dell’orante in piena libertà. Colui che canta è pienamente consapevole della sua dignità umana; ma, nello stresso tempo, egli si sente in dovere di riconoscere in Dio l’autore di ciò che è. A fronte dell’uomo tutte le creature vengono ridimensionate: tutto il cielo, cioè la luna e le stelle; i greggi e gli armenti, cioè tutte le bestie della campagna; gli uccelli del cielo e i pesci del mare. A questo canto di lode farà eco il cantico delle creature di Francesco d’Assisi.
Dell’uomo si dice che l’ha fatto «poco meno di un dio» e che tutto è stato posto sotto i suoi piedi: due affermazioni che lasciano intendere la grande dignità di colui che il Creatore ha voluto rendere partecipe della sua gloria e del suo onore. Ireneo di Lione commenta: «Gloria di Dio è l’uomo vivente e la vita dell’uomo è la visione di Dio».
3. La seconda lettura ci presenta una pagina della lettera dell’apostolo Paolo ai cristiani di Roma nella quale vengono come elencati tutti i beni concessi a chi che è stato giustificato per mezzo della fede.
L’apostolo intende farci conoscere qual è il modo corretto di rapportarci a Dio: non con la mentalità di chi ragiona in termini di do ut des in modo da poter pretendere che il Signore ci ripaghi per quello che abbiamo fatto per lui. Questa mentalità è estremamente negativa e opprimente.
A noi, che siamo diventati figli di Dio per fede e per pura grazia, compete un altro modo di vivere la nostra vita. Abbiamo ricevuto il dono della pace da colui che è la pace personificata e, in virtù di questo dono, possiamo vivere in pace con Dio e con il prossimo.
In Cristo abbiamo ricevuto anche il dono della speranza, una virtù piccola ma preziosa. Essa non delude, perché è dono del Dio delle promesse e ci è assicurata dalla presenza dello Spirito Santo. Secondo la teologia di Paolo, infatti, lo Spirito Santo, riversato nei nostri cuori, reca con sé le virtù teologali della speranza, della fede e della carità.
Non solo, ma abbiamo ottenuto anche la capacità di resistere nelle tribolazioni. Questo – secondo l’apostolo – è il nostro vanto. Come lui spesso si vanta di vivere nella debolezza e nelle tribolazioni (cf. 2Cor 6,3-13), così ora lo afferma di noi, lasciandoci un insegnamento convalidato dalla sua esperienza personale.
4. La lettura evangelica offre alla nostra meditazione un passaggio dei famosi discorsi di addio di Gesù, che comprendono i capitoli 13-17 del quarto vangelo: una vera miniera per chi desidera addentrasi nella conoscenza della teologia giovannea.
È opportuno, anzitutto, riflettere su quanto Gesù afferma all’inizio: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso». Qui emerge un tratto caratteristico dell’arte pedagogica di Gesù di Nazaret. Egli non volle caricare eccessivamente i suoi discepoli di tutto quello che aveva da insegnare. Al contrario, seppe dosare gli insegnamenti secondo tempi e momenti diversi. Era nei suoi progetti demandare allo Spirito Santo il compito di completare l’opera.
Poi Gesù promette la presenza dello Spirito Santo, il quale «vi guiderà a tutta la verità». Ecco come dobbiamo considerare l’insieme della rivelazione neotestamentaria. Essa è opera di Gesù e dello Spirito Santo: non l’uno senza l’altro e neppure uno dopo l’altro, ma ambedue in perfetta collaborazione e sintonia. Lo afferma esplicitamente Gesù stesso: «Egli prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».
Infine, il Signore ci introduce nel mistero della santissima Trinità, quando afferma: «Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà». Qui il mistero ci viene presentato non astrattamente, ma come intreccio di relazioni interpersonali: in questo modo Gesù intende presentarci la Trinità come modello di vita.