Nel documento della Commissione teologica internazionale Dio Trinità, unità degli uomini. Il monoteismo cristiano contro la violenza, pubblicato il 16 gennaio 2014 dopo l’approvazione da parte del card. Gerhard L. Müller, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, viene chiarito in modo molto documentato come il monoteismo non sia fonte di violenza o di imposizione forzata di comportamenti religiosi se non per menti che stravolgono il messaggio originario inteso nel termine stesso.
Ad ogni buon conto, la Commissione illustra con dovizia di argomenti il fatto della specificità del monoteismo cristiano, in quanto al suo interno si può notare la vita effervescente di un amore reciproco, relazionale, rispettoso della “persona-relazione” ricettiva dell’azione dell’altra.
Se c’è amore all’interno della Trinità, questo viene riversato anche sugli uomini, chiamandoli a riprodurre nel loro vivere ecclesiale e civile l’armonia di amore recettivo e oblativo che connota la vita intima della santissima Trinità, così che i cristiani non potranno mai coltivare la violenza nel loro essere e nel loro agire, né potranno mai imporre con la violenza credenze e atteggiamenti spirituali ad altre persone e culture. Il monoteismo cristiano non giustifica alcuna violenza o alcun integralismo.
Un Dio passionale
Il primo (Dt 1,6–4,43) dei quattro discorsi di Mosè nelle steppe di Moab, prima dell’entrata nella terra promessa, dopo una premessa storica (1,6–3,29), si avvia alla conclusione (4,1-43) con un’esortazione parenetica rivolta al popolo radunato a Bet Peor.
Dopo aver ribadito l’immutabilità della Legge (4,1-4), Mosè illustra la motivazione dell’obbedienza (4,5-8), esortando a coltivare il rapporto personale che lega Israele al suo Dio (4,9-31). YHWH infatti è l’unico Dio di Israele (4,32-40). Gli ultimi versetti (vv. 41-43) riportano la lista delle tre città asilo per la zona al di là del Giordano.
Mosè ricorda l’evento della rivelazione infuoca che YHWH diede di sé sul monte Horeb e invita con forza a non “dimenticare /šākaḥ” l’alleanza che YHWH ha stipulato con Israele. Questo comporta evitare ogni atto di idolatria, con l’elaborazione di manufatti di qualsiasi forma. Il motivo sta nel fatto che «YHWH, tuo Dio, è un fuoco che consuma, lui è un Dio passionale» (Dt 3,24, tr. S. Paganini).
Seguiamo qui sotto da vicino le ottime indicazioni di questo autore nel suo commentario al Deuteronomio.
Il campo semantico della “gelosia-ira-passione” infatti è molto importante teologicamente anche per quanto riguarda il NT (cf. Paolo in Rm 1,18ss). L’aggettivo qannā’ (spesso tradotto con “geloso”) all’interno dell’AT non è mai usato nel rapporto tra uomo e donna, nel senso odierno di “geloso”. La differenza di essere tra Dio e il suo popolo è stata espressa con molta vivezza nelle pagine precedenti del testo biblico (cf. anche Os 1,2-3).
La radice qn’ abbraccia una gamma di passioni tipicamente umane che vanno dall’invidia (Gen 26,14), alla gelosia (Gen 30,1), ma anche all’essere fervente, zelante e passionale (1Re 19,10.14). In maniera analoga, il sostantivo qin’āh è usato per rendere la passione erotico-amorosa (Ct 8,6), la rabbia, l’indignazione e l’ira (Dt 29,19).
«La gelosia divina è, di conseguenza, strettamente legata allo zelo, all’ardore, allo slancio emotivo derivante da sentimenti contrastanti come l’amore, la rabbia, il tormento o l’indignazione. È, perciò, più coerente con il contenuto del testo tradurre l’aggettivo qannā’ con il termine passionale. Questo sottolinea l’impeto e la partecipazione emozionale di YHWH nel rapporto con il suo popolo. Tutti i passi in cui l’aggettivo qannā’ è usato in diretto riferimento al nome divino sono inseriti in un contesto che si ricollega al culto idolatrico. La gelosia, l’ira e la rabbia divina appaiono dunque caratterizzati da un appassionato coinvolgimento di YHWH per il destino dell’uomo, che va ben oltre la semplice gelosia umana. La passione che muove YHWH non è una reazione naturale al tradimento, ma piuttosto un’ammonizione a non tradire e a non provocare la reazione zelante che, di conseguenza, può essere anche punitiva, da parte di YHWH. La passionalità di YHWH non è dettata da un moto irrazionale, ma da un ideale di giustizia. La rabbia e l’ira sono quelle di un giudice che interviene per salvare e fare giustizia, sono quelle del sovrano che punisce il vassallo infedele per ristabilire una relazione in cui l’alleanza e il patto di sottomissione siano rispettati. In questo senso la “passionalità” è assimilabile all’“ira”, che ha sempre tuttavia come scopo primario quello di ricondurre a una dimensione di giustizia» (S. Paganini).
Inaudito
Con due domande retoriche Mosè rimanda dapprima a ciò che il popolo ha vissuto e ascoltato nell’autorivelazione di YHWH all’Horeb (cf. Es 19,16ss), rimanendo miracolosamente vivo dopo l’incontro, a dispetto di ciò che YHWH in persona aveva detto a Mosè in Es 33,20: «Soggiunse: “Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo”». Il fuoco passionale e divorante del Totalmente Altro ha risparmiato il popolo di Israele.
La seconda domanda retorica rinvia al periodo precedente, quello della liberazione dalla schiavitù in Egitto. «O ha mai cercato un Dio di andare a prendere per sé una nazione dal mezzo di un’altra nazione facendo uso di prove e di segni e di miracoli e di guerra e di mano forte e di braccio teso e di grandi azioni, che ispirano riverenza, come tutto ciò che YHWH, vostro Dio, fece per voi in Egitto davanti ai tuoi occhi?» (Dt 4,34, tr. S. Paganini).
Nessun Dio ha fatto sette azioni così meravigliose, maestose e impressionanti quali ha compiuto YHWH per liberare il suo popolo Israele, per fargli proseguire l’esperienza di elezione inclusiva iniziata ancora al tempo di Abramo.
Nei miti mesopotamici gli dèi avevano creato gli uomini perché svolgessero i lavori faticosi che loro si erano stancati di fare e uccisero molti di essi per il rumore che saliva dalla terra, disturbando la loro quiete… Il Dio di Israele, invece, è per natura estroflesso nell’amore. Egli crea e libera per amore di alleanza e solo in seconda battuta chiede la corrispondenza nell’amore (= fedeltà) al patto. Il Dio di Israele non è un dio che, per prima cosa, richiede adorazione e sottomissione. Come primo atto egli ama e libera, poi chiede corrispondenza al patto perché il popolo possa rimanere nella libertà.
Perché tu sia felice
Il cammino di Israele è passato attraverso il politeismo, l’enoteismo e la monolatria – tutti i popoli hanno il loro dio, noi adoriamo il nostro – per approdare con chiarezza con il Secondo Isaia (Is 40–55), nel libro di Ezechiele (cf. Ez 6; 8; 20), nell’esilio e nell’immediato postesilio babilonese al monoteismo professato chiaramente: una monolatria/monoyahwismo che sostiene l’esclusività di una fede che non ammette l’esistenza di altre divinità. Dt 4,35 afferma chiaramente per la prima volta il monoteismo yahwistico, dopo che, nel libro dell’Esodo, era stata affermata l’incomparabilità e la grandezza relativa di YHWH (cf. Es 8,6; 9,14; 14,31; 15,11; 18,11; 19,9), ma presupponendo ancora di fatto l’esistenza di altre divinità.
Brevi accenni di tendenze monoteistiche si hanno anche in 1Sam 2,2 (Anna) e in 2Sam 7,22 e 23,32 (Davide). «L’affermazione del monoteismo israelitico in Dt 4,35 si propone soprattutto come chiave di lettura per tutto il libro del Deuteronomio» (S. Paganini): «Tu hai visto, per conoscere che YHWH, lui è Dio e non c’è un altro oltre a lui» [Dt 4,35, non letto nella liturgia odierna, tr. S. Paganini].
Il forte ammonimento di YHWH/Mosè al popolo di Israele non può quindi essere altro che quello di “sapere/yāda‘tā” e di “far tornare verso il tuo cuore/wahăšēbōtā[ <šûb] ’el lebābekā” che «… YHWH è Dio nei cieli dalla parte alta e sulla terra dalla parte bassa e non c’è un altro oltre a lui» (v. 39, tr. S. Paganini). Al movimento della coscienza memoriale segue quello dell’azione della “custodia/messa in pratica/wešāmartā” di tutte le disposizioni di YHWH liberatore del suo popolo.
La finalità ultima della vita spirituale, relazionale, “religiosa”, pattizia di Israele è molto particolare. YHWH non vuole essere in prima battuta adorato dal suo popolo, foss’anche nella schiavitù e nell’oppressione, ma desidera che esso “sia felice/gli vada bene/’ăšer yîṭab [<ṭôb = buono, bello] lekā” anche nelle generazioni a venire Ed esso “possa prolungare/lema‘an ta’ărîk” i suoi giorni con la sua vita buona sulla “terra/’ădāmăh” che YHWH gli dà in dono/nōtēn lekā”, per sempre.
Sul monte, il dubbio
«Ma, dopo che sarò risorto, vi precederò in Galilea» (Mt 26,32), promette Gesù dopo aver preannunciato lo scandalo che egli susciterà col suo arresto e con il tradimento di Pietro. Puntualmente l’angelo al sepolcro vuoto conferma a Maria di Màgdala e all’altra Maria il messaggio da inoltrare ai discepoli: «“È risorto dai morti, ed ecco, vi precede in Galilea; là lo vedrete”. Ecco, io ve l’ho detto» (Mt 28,7).
E gli Undici se ne vanno in Galilea, là dove tutto era cominciato, tre anni prima. Tre anni volati in un attimo; tre anni di avventura umana e spirituale indescrivibile.
L’animo è diviso fra mille pensieri, gioie, rammarichi, timori e speranze.
Sul monte lo vedono. Non ci sono lampi né tuoni, terremoti o sconvolgimenti della terra. Il Risorto è davanti a loro, amico, fraterno, accogliente. Il pastore, percosso a morte, raduna da risorto le pecore disperse (cf. Mt 26,31). Il corpo si prostra in adorazione del Re e del Signore, ma l’animo dubita, teme una delusione, un qui pro quo.
A Gerusalemme hanno già goduto della sua presenza, ma i suoi incontri ora si stanno diradando. Il maestro li prepara al distacco, ad una presenza diversa. Il regime della fede amplia il suo campo d’azione. La primavera della visione entra nella luce abbacinante dell’estate, dove la presenza fisica è bruciata dal sole della risurrezione e dell’ascensione al Padre.
Veramente dovremo camminare da soli? Il Risorto ci accompagnerà sulle strade non amiche delle genti e dei fratelli ebrei non credenti? Resterà veramente con noi l’orgoglio della nostra forza, la delizia dei nostri occhi e l’anelito delle nostre anime (cf. Ez 24,21)? L’Emmanuele resterà fedele al suo nome? (cf. Mt 1,23). La nostra fortezza, la gioia della nostra gloria, l’amore dei nostri occhi, la brama delle nostre anime (cf. Ez 24,25) ci priverà della sua dolce compagnia, della sua parola luminosa, dell’abbraccio forte del suo corpo?
Fate discepole le genti
Ben più di Giona c’è qui, ben più di Salomone si staglia sulla cima del monte. Ben più di Ciro II il Grande, che pur aveva detto ai deportati increduli della prossima liberazione: «… Tutti i regni della terra ha dato a me YHWH, il Signore dei cieli/nātan lî YHWH ’Ĕlōhê haššāmaim/edōken moi kyrios ho theos tou ouranou», sigillando con un imperativo marmoreo le pagine dell’Antico Testamento ebraico: «… Chiunque di voi appartiene al suo popolo, YHWH, il suo Dio (è/sia/sarà) con lui “e salga/we‘al”» (2Cr 36,23). Salga a Gerusalemme, riscostruisca il tempio, accolga il Tempio Nuovo…
Il Signore risorto è misericordia e grazia. “Si avvicina/proselthōn” ai suoi, si fa loro vicino come fa il Buon Samaritano all’uomo disarticolato dalle botte dei briganti (cf. Lc 10,34). A lui “è stato dato/edothē” (dal Padre) ogni potere nel cielo e non solo sulla terra. La sua regalità è completa, la sua sovranità è piena ed efficace sul suo Regno di giustizia e di pace.
Sul monte (cf. Mt 5,1), Gesù il Nazareno aveva proclamato la rivoluzione del mondo, le Beatitudini, la felicità possibile nel paradosso della differenza credente. L’avventura del lievito era iniziata, la pasta aveva cominciato già a crescere, il grano di senape a ingrandirsi prodigiosamente per accogliere i nidi degli uccelli del cielo (cf. Mt 13,31-32). La Galilea era stata la primavera del discepolato, l’aria frizzante delle decisioni che lasciano un segno indelebile nella vita.
Ora il sangue ricomincia a scorrere nelle vene, rinfrancato. «Fate discepole tutte le genti», comanda il Signore risorto. Fate sì che seguano me, vedendo e ascoltando voi. Fate in modo da essere contagiosi della vita buona del vangelo, il vangelo della gioia. Se correranno dietro a me come ragazze innamorate, il mondo avrà futuro, sarà poi naturale mettere in pratica tutte le cose insegnate loro su mio comando: «Trascinami con te, corriamo! – fate che dicano – M’introduca il re nelle sue stanze: gioiremo e ci rallegreremo di te, ricorderemo il tuo amore più del vino. A ragione di te ci si innamora!» (Ct 1,4).
Battezzateli
La vita piena viene dall’acqua e dallo Spirito. La vita emerge dall’immersione nel Dio vivace e passionale: Padre, Figlio e Spirito Santo. Tutte “le persone/autous” che costituiscono la moltitudine delle “genti/ta ethnē” sigilleranno la loro apparenza al Dio-comunione tramite un passaggio di proprietà. Saranno immerse “verso il nome/verso la persona/eis to onoma – distinta ma costituita dalla relazionale comunionale con le altre – del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
La formula trinitaria completa è, con ogni probabilità, espressione della fede matura della Chiesa successiva di decenni rispetto al mandato missionario universale dettato dal Signore Gesù risorto sul monte in Galilea. Essa non è altro però che la fioritura di quella coscienza credente, cresciuta nel tempo, dell’appartenenza a un Dio unico, ma non solitario, freddo nel suo monoteismo gelido e lontano.
Il Dio dei discepoli di Gesù è un Dio passionale di relazioni amorose: il Padre, sorgente di ogni piano di salvezza; il Figlio, tutto recettività oblativa; lo Spirito (del Padre e del Figlio) che li bacia e li lega in un abbraccio d’amore.
Un Dio Tri-unità d’amore. Un Dio passionale, relazionale.
C’è un fuoco di autodonazione alla sorgente.
Ci sarà un incendio di amore e di unità sinfonica nell’oceano in cui sfocia.
Persone-relazioni, Chiesa-comunione, umanità riconciliata.
Su tutto è sovrano il Signore Gesù, risorto e sempre “con noi con Dio/Emmanuele/‘Immānû’ēl”.
«[Padre, che] tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato. […] Padre, voglio che quelli che mi hai dato siano anch’essi con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che tu mi hai dato, perché mi hai amato prima della fondazione del mondo» (Gv 17,21.24).
La Trinità modello della Chiesa, della famiglia, della società e fonte della morale. Ma potrebbe essere anche modello del genio, e soprattutto del genio artistico. La dimensione speculare, inclusiva del mistero trinitario, la si ritrova nella manifestazione del genio umano. A partire dal Gesù dei Vangeli, ma anche nelle opere e nelle vite dei geni in generale e soprattutto in quelli nel campo artistico, e di Leonardo da Vinci e Michelangelo Buonarroti in particolare. Nelle opere degli artisti americani Jackson Pollock, Andy Warhol e nell’italo argentino Lucio Fontana la dimensione speculare e/o inclusiva è addirittura nella tecniche di esecuzione. Non occorre che il genio, nella produzione dei suoi capolavori, pensi o si ispiri alle definizioni trinitarie, può non pensarci, non conoscerle o al limite non crederci, ma di fatto, in modo diretto o indiretto, consapevole o meno, lì sembrerebbe, in qualche modo, ricadere. Cfr. ebook/kindle. “La Trinità modello del genio”.