V Per annum: Cacciatore di uomini

di:
Isaia, “YHWH salva”

Isaia (“YHWH salva”) è il primo dei quattro Profeti Maggiori (Isaia, Geremia, Ezechiele, Daniele) e, secondo Is 1,1, visse a Gerusalemme sotto i re Ozia o Azaria (secondo la cronologia stabilita da Albright, 763-742 a.C.), Iotam (742-735 a.C.), Acaz (735-715 a.C.) ed Ezechia (co-reggente dal 727, reggente sui juris dal 715-687).

Il libro di 1Re ha un giudizio variegato su questi regnanti della fine dell’VIII sec. a.C. (condiviso da Isaia che, in parte, ha contribuito a formarli): molto negativo per Acaz, abbastanza positivo per Ozia e Iotam, entusiasta per Ezechia.

La predicazione di Isaia fu raccolta dai discepoli per più di un secolo. Le sue parole autentiche sono reperibili nei cc. 1.2 – 4.5 – 10.14 – 23.28 – 32, caratterizzati da un linguaggio fantasioso, curato, ricco di immagini, espressione di una persona colta, che il libro presenta essere cresciuta all’ombra del tempio di Gerusalemme. Una cultura come quella di Isaia era infatti difficilmente conseguibile fuori di Gerusalemme. Isaia cresce in un ambiente di tradizioni religiose che condizioneranno il suo messaggio: l’elezione divina di Gerusalemme e della dinastia davidica.

Isaia nasce, probabilmente a Gerusalemme, al tempo del re Ozia (763-742 a.C.) e al momento della sua morte (742 a.C.) si afferma con più forza il tema della regalità di YHWH. Ed è YHWH, “il re degli eserciti”, che gli occhi di Isaia vedono nel tempio.

Il suo libro è presentato come il resoconto di una visione che egli ebbe (Is 1,1), una terminologia profetica (ḥāzāh/ “avere una visione”; ḥōzeh/“il veggente”) che precede quella di derivazione asiatica hitnabbē’/“profetizzare in forma entusiastica” e nābî’/“profeta (entusiasta)”. Il verbo ḥāzāh indica spesso una visione profetica come quella di Balaam, profeta straniero, dove si dice «che egli vede la visione dell’Onnipotente» (Nm 24,4.16).

La capacità visionaria non era però mai disgiunta dalla parola. Isaia arriva addirittura a parlare di una “parola che vide” (Is 2,1) e che descrive l’oggetto della sua visione in “un libro sigillato” (Is 29,11).

Il libro di Isaia

Oltre a pochi studiosi che sostengono la tesi di un solo profeta responsabile di tutto il libro, altri sostengono l’opinione di tre libri attribuibili a tre profeti diversi (ad es. Is 1-39.40-55.56-66), mentre altri pensano a un solo libro con più voce profetiche. Infine, c’è chi sostiene l’esistenza di due libri (o un libro in due parti), con una comune esperienza profetica. Così lo studioso A. Mello, che suddivide il libro in due parti: cc. 1–33 (Le “cose antiche”) e cc. 34–66 (Le “cose nuove”). Nel suo commentario, Mello indica cinque linee teologiche principali rinvenibili nel libro: la salvezza, il resto di Israele, la santità, il messia e Sion-Gerusalemme.

A puro titolo orientativo, proponiamo una possibile articolazione letteraria di Is 1–12, avanzata da A. Mello.

Dopo il titolo e l’introduzione al libro (1,1-31), una prima sezione propone “Una visione di pace” (2,1–12,6): 2,1-5 Una pace universale; 2,6-22 Il giorno del Signore; 3,1–4,6 Crisi politica e sociale; 5,1-30 L’invasione assira; 6,1-13 Missione di Isaia; 7,1-17 L’intervento presso Acaz; 8,1-20 La testimonianza scritta; 8,21–9,6 La nascita del messia; 9,7–10,4 Giudizio su Israele; 10,5-34 Contro l’Assiria; 11,1–12,6 La pace messianica.

Modelli vocazionali

Già commentando la narrazione della vocazione e missione del profeta Geremia (IV domenica per annum C) avevamo indicato alcuni elementi di questo genere letterario. Lo studioso Vogels individua quattro modelli all’interno del genere letterario del racconto di vocazione: 1) un modello “ufficiale-soldato”: non è lecita alcuna trasgressione del comando (Amos, Osea); b) padrone-servo: è lecita un’obiezione (Mosè, Geremia); c) re-consigliere: in esso è lo stesso consigliere a proporsi, prima ancora di essere inviato; d) maestro-discepolo: il primo istruisce gradualmente il secondo (Eli-Samuele; Elia-Eliseo). «La missione di Isaia, e soltanto quella di Isaia, rientra nel terzo modello, quello dell’amico del re che contempla il suo volto» (A. Mello). Leggendo il racconto della missione di Isaia, ci si può chiedere, dunque, chi sia Dio, chi sia il profeta, quale sia la sua missione.

Il re nel tempio

Come i mistici dei secoli successivi, Isaia stenta a trovare un linguaggio capace di esprimere la sua esperienza trascendente dell’Ineffabile. Dapprima egli accenna a una teofania (vv. 1-5), quindi descrive la consacrazione profetica (vv. 6-7) e, infine, la missione (8-12[13]).

Nel “tempio/sala del tempio/ hêkāl” (è interessante il fatto che lo stesso vocabolo denomini anche il palazzo regale), Isaia “vede/wā’erh” (< rā’āh) YHWH seduto su un “trono regale/kissē’”, “alto/rām” ed “elevato/niśšē’”. Il trono del re Ozia, morto nel 742, era solo una pallida idea di quel che Isaia vide nella teofania templare. Una regalità superiore, trascendente quella umana. Lo strascico del mantello regale riempiva la sala del tempio/il tempio, proprio come si può vedere nelle raffigurazioni regali dell’epoca.

YHWH è un “re/melek” (v. 5), così designato per la prima volta proprio da Isaia, termine altrimenti evitato pe non confonderlo con la divinità cananea, chiamata dagli ebrei “mōlēk” (una denominazione irridente: le consonanti mlk designante il re sono vocalizzate con le vocali ō ed ē proprie del termine “bōšēt/vergogna”). YHWH è il vero re. Non lo sono né Ozia appena morto, né Tiglat Pileser III, appena salito in trono a Ninive, capitale della superpotenza dell’Assiria (744 a.C.).

Alcuni serafini, “esseri (angelici) brucianti”, stavano ritti sopra YHWH. Attestati solo qui, forse in riferimento ai “serpenti brucianti” del deserto esodico (cf. Nm 21,6), sono diversi dai “cherubini”. Questi sono ben attestati nella documentazione extrabiblica e presentati dalla Bibbia all’interno del tempio, nel Santo dei Santi. Sono raffigurati con una testa d’uomo, torso di leone, zoccoli di vitello e ali di aquila.

I serafini hanno sei ali – sono quindi mobilissimi –, modesti, dal volto non visibile e riproducibile a livello umano.

Santo, santo, santo

Il profeta Amos ricevette la chiamata e la missione profetica durante il suo lavoro agricolo di coltivatore di sicomori. Osea all’interno di una infelicissima vicenda matrimoniale straziata dall’infedeltà mercenaria.

Isaia sperimenta la sua chiamata all’interno del tempio, in un contesto liturgico. Gli ambienti di vita possono essere i più diversi, ma uguale è l’imperatività e l’irrevocabilità della chiamata, unita alla prontezza di risposta positiva richiesta con radicalità.

Il Trisagion (dal greco “hagios = santo”, in ebraico qādôš) cantato dai serafini in un inno a due cori alternati, rimanda alla “santità” di YHWH, cioè alla sua totale alterità rispetto al mondo cosmico e umano. Egli è il re “Totalmente Altro”.

Il prezioso testimone del testo di Isaia rinvenuto a Qumran, il manoscritto 1QIsaiaa (1QIsaa) riporta solo una duplice acclamazione, presente invece in triplice ripetizione, liturgicamente la più plausibile, nelle antiche versioni giudaiche. Il Targum amplifica inoltre l’acclamazione con queste parole: «Santo nel più alto dei cieli, sede della sua Presenza; Santo sulla terra, opera della sua Potenza; Santo nei secoli dei secoli il Signore onnipotente».

“Il Tre Volte Santo/il Santissimo” trascende il cosmo e l’umanità, supera ogni umana possibilità di percezione e di accaparramento. Egli sfugge a ogni tentativo di sequestro da parte di uomini e nazioni, religioni e sistemi di pensiero umani (magari contro altri raggruppamenti umani, filosofici o religiosi).

La santità trascendente e inafferrabile di YHWH si coniuga alla sua gloria immensa. “Il suo peso specifico interno/kābôd” di potenza e amore si manifesta anche all’esterno non per narcisismo solipsistico ma per presenza salvifica vicina a Israele (e ad ogni uomo) in difficoltà. L’espressione del testo può essere intesa in due modi: «la gloria di Dio riempie tutta la terra» oppure «riempimento di tutta la terra è la sua gloria», nel senso senz’altro più ricercato, che «la terra stessa e il mondo definiscono in che cosa consiste la gloria di Dio» (A. Mello, che sostiene questa versione).

YHWH è “il Tre Volte Santo”, qādôš, trascendente, e colui che, allo stesso tempo, è connotato da pesantezza, importanza, visibilità (kābôd), che rimanda ad una sua visibilità anche sociale opposta al nascondimento tipico della santità. YHWH è, allo stesso tempo, “Il Totalmente Altro” e “Il Totalmente Pesante/Glorioso/Inserito nella storia”.

Impuro

YHWH è “Il Tre Volte Santo” e “Il Glorioso” e il fumo dell’incenso riempie il suo palazzo/tempio, come ben s’addice a Dio venerato come il “Totalmente Superiore nel Potere” all’umanità e al cosmo, compresi i suoi re terreni, anche quelli che governano una superpotenza (come l’Assiria o l’Egitto). Tutto trema di fronte alla sua potenza, ogni costruzione umana non può reggere di fronte al suo potere eccelso.

Questi è Dio. Ma chi è il profeta?

Isaia si sente nidmêtî (v. 5), “perduto, rovinato, annichilito” (< dāmāh/“cessare, perire, essere perduto” (Alonso Schökel, CEI 2008, Einheitübersetzung, New Revised Standard Versiobn, New International Version, King James Version, American Standard Version, Traduction oecumenique de la Bible, La Bible de Jérusalem, Chouraqui, Nova Vulgata [perii] ecc.). Annichilito dal Totalmente Altro e dal Sommamente Glorioso e Potente.

Intendendo in modo diverso, si può pensare al fatto che Isaia “ammutolisca/diventi muto” (< √dmm/ “tacere, ammutolire”). Le due radici possono confondersi e dal “cessare” si può giungere al senso di “tacere”. Il contesto parla con insistenza di labbra e dell’abilitazione profetica a parlare. Si può quindi anche preferire il secondo senso, come hanno fatto le versioni antiche giudaiche in greco (Aquila, Simmaco, Teodozione) e la stessa Volgata (taqui).

Isaia si sente perduto/ammutolisce perché avverte di essere completamente fuori posto, “totalmente altro” da ciò che lo circonda: “[sono] un uomo dalla labbra impure/’îš ṭemē’ śepātayim ’ānōkî”. Le labbra ritualmente impure lo rendono inadatto a parlare con Dio per poi riferire la sua parola agli uomini. Isaia si sente completamente immerso (betôk) nella realtà degli uomini che lo circonda, al popolo che lo circonda, un popolo dalle labbra impure. Il suo popolo.

Isaia è perfettamente uguale agli altri, come tutto il suo popolo. Un uomo impuro ritualmente (ṭāmē’), in-degno di stare alla presenza del Totalmente Santo, il Tre Volte Santo (qādôš). Si sente im-possibilitato a farlo. Un’impurità costitutiva, irrimediabile e insuperabile da parte dell’uomo. Non è in sintonia ontologica, esistenziale e rituale con YHWH, il vero e unico Re di Israele.

Isaia si sente al centro di un processo di estraniamento. Totalmente “impuro” come il suo popolo a cui appartiene, è stato fatto oggetto di una enorme grazia santificante. Senza suo merito e senza aver fatto alcunché, YHWH degli eserciti (non militari, ma delle schiere celesti!) lo ha gratificato della sua visione. «Il re, YHWH degli eserciti, i miei occhi hanno visto!» (v. 5).

Labbra impure, purificate col fuoco

Una cascata di roboanti vocali “o” scende a cascata nel v. 3, dall’alto di YHWH. Una stalattite esile di “î” si eleva timida dalla terra, dal muto e perduto Isaia nel v. 5. Solennità della gloria di YHWH contrapposta in modo stridente all’impurità costitutiva di Isaia. Eppure la grazia della visione è stata data, totalmente immeritata. Potremmo dire, con un accostamento di bassa lega, che egli ha ricevuto la grazia battesimale di essere ammesso alla presenza del re degli eserciti, il Signore tre volte santo.

Ma, se la vocazione di Isaia sarà quella di essere profeta (gr. pro-phētēs), un uomo che parla al posto di Dio davanti agli uomini (pro-phēmi), occorre che riceva un’abilitazione particolare, una grazia “specializzata”, potremo dire – continuando con stessa bassa lega di prima – la grazia della Confermazione, quella che lo abilita a esser profeta di YHWH presso il suo popolo (e non solo), in vista del suo ministero specifico e proprio.

Un essere bruciante vola verso Isaia, tenendo in mano una brace tolta dal fuoco che brucia sull’altare di YHWH. Il fuoco della santità e dell’incendio di amore misericordioso di YHWH per Israele e per tutte le nazioni. Con questa brace il serafino tocca le labbra di Isaia “perduto/ammutolito”, abilitandolo alla sua missione di profeta, uno che deve parlare. Mettendo in comunione il fuoco dell’altare (= YHWH) con le labbra del profeta, quest’ultimo riceve un annuncio di grazia redentrice che lo riscatta dal peccato e dall’impurità rituale e lo invia a parlare agli uomini da parte di YHWH.

La grazia bruciante di YHWH ha fatto sì che “si è allontanata la tua colpa/sār ‘ăwônekā”, “e il tuo peccato è stato espiato/weḥaṭṭātekā’ tekuppār”. È il trionfo della grazia gratuita di YHWH, che personalmente espia, cioè lava via il peccato dalle labbra del (futuro) profeta Isaia. Nella Bibbia chi espia è sempre YHWH, mai l’uomo. Nulla a che fare con l’espiazione prevista dalla legge penale umana, che tocca all’uomo che ha sbagliato (non sempre e non solo per colpa propria…) nei confronti dei suoi simili e dell’intera società.

Eccomi, manda me!

Isaia sente la “voce tonante/qôl” di YHWH che chiede: «Chi invierò, e chi andrà “per noi/lānû”», a nostro vantaggio? Chi potrà andare, inviato da YHWH circondato dalla corte regale (“noi”)? Isaia è prontissimo nella risposta generosa, segnata da enorme disponibilità: “Eccomi, manda me/hinenî šelāḥēnî”. Pronto come Abramo (Gen 22,1), pronto come fece ripetutamente Samuele alla voce di YHWH scambiata per quella di Eli (cf. 1Sam 3,5.6.8.9).

Unico caso tra i profeti, Isaia prende l’iniziativa nell’offrirsi al compito che il Signore vorrà dargli. Avrà una missione difficile, rivolta a gente che non vuol sentire la parola di YHWH e non vuole obbedirgli di cuore. La sua missione si tramuterà nel “fotografare” la situazione di ribellione degli israeliti a YHWH, a rendere nota la loro situazione, a prendere atto della loro chiusura mortale agli inviti di YHWH. I vv. 9-12(13) – non letti nella liturgia odierna – descriveranno nei particolari la difficile missione affidata al profeta.

Come ogni profeta, Isaia è il punto di contatto tra il Tre Volte Santo, il Glorioso, e il popolo degli impuri.
Punto di contatto tra cielo trascendente e terra immanente.
Parola sospesa tra due rive, due labbra, due cuori.
Cielo e storia.
Profeta: Parola di Dio in parole umane.
Per conto di Dio, di fronte agli uomini.
Santità e Gloria si fanno storia.
Il profeta risponde: Eccomi, manda me!

Vocazione apostolica

Nella liturgia odierna, al racconto della vocazione profetica di Isaia (Is 6), fa da pendant quello della vocazione apostolica dei primi quattro discepoli di Gesù (Lc 5,1-11).

Il messia Gesù si presenta due volte: nella parola del discorso programmatico (Lc 4,14-30) e nelle opere di guarigione ((Lc 4,31-44). Subito dopo, Gesù chiama i primi discepoli e così Luca dimostra che «il ministero apostolico si fonda sul fatto di aver accompagnato Gesù fin dall’inizio» (F. Bovon).

Il racconto di una pesca miracolosa circolava nelle comunità senza inquadramento cronologico, e per questo motivo Luca lo aggancia alla chiamata dei primi discepoli, mentre Giovanni lo innesterà nel racconto delle apparizioni pasquali di Gesù (Gv 21).

Preziose le note di inquadramento teologico-ermeneutico della pericope lucana che troviamo nel commentario di F. Bovon, grande specialista dell’opera lucana: «La comunità delle origini ha raccontato la pesca miracolosa in una prospettiva ecclesiologica che prende corpo per Luca in una vocazione, e per Giovanni in un insediamento. Pasqua fu effettivamente per i discepoli come una vocazione rinnovata. C’era forse all’inizio della tradizione un racconto miracoloso accompagnato da una promessa a Simone; gli sviluppi, come la risposta alla chiamata in Luca, e l’ordine di missione in Giovanni, sembrano trattati con riserva, secondari. Laa notizia dei discepoli che si alzano per seguire Gesù è in Luca solo un’appendice che proviene dalla combinazione del racconto con Mc 1,16-20: La chiamata stessa di Gesù deute opisō mou, “venite qui, dietro a me” (Mc 1,17), non viene riferita da Luca. Solo al v. 11 veniamo a sapere che i pescatori diventano discepoli e lasciano tutto e seguono Gesù».

Ressa per la parola di Dio

Costruendo l’“inquadratura” dell’episodio, Luca arricchisce gli elementi presenti nel parallelo di Mc 1,16-20. Per la prima volta compare in Luca il sintagma “parola di Dio”. La “parola-fatto/dābār” di Dio si fa carne nell’uomo Gesù, plenipotenziario di Dio e suo ambasciatore, ma anche realizzatore in prima persona della parola del Padre.

La “Parola” e la sua “corsa” sarà un tema caro a Luca e quello principale della seconda parte della sua opera, gli Atti degli Apostoli. È la parola di Dio pronunciata e inverata da Gesù, che a sua volta diventa oggetto del “vangelo” proclamato dagli apostoli. Una parola potente, guaritrice, feconda, “evangelizzante” (Lc 1,2 [servitori della Parola]; 1,4; 4,22.32.36 5,1; 6,47; 7,7.17; 8,11.12.13.15.21; 9,26.28.44; 10,39 [Maria che ascolta la sua parola]; 11,28 [beati chi lo ascolta]; 21,33 [non passerà]; 24,19 [Gesù, profeta potente in parola].44); At 1,1; 2,22.41; 4,4; 5,5; 6,2.4 [non va posposta al servizio delle mense].7 [cresceva]; 8,4 [i “disseminati” la evangelizzano in Samaria].25; 10,36; 11,1.19; 12,24 [cresceva e si moltiplicava] 13,44.46.48.49; 14,3 [parola della sua grazia, cf. Lc 4,22 Gesù a Cafarnao!].14.23.25; 15 passim; 16,6 [in Asia].32 [in casa del carceriere a Filippi, dopo il divieto posto dallo Spirito di Gesù alla predicazione in Asia]; 17,11 [a Berea è accolta con grande entusiasmo]13; 18,5 [a Corinto].11; 19,10 [per due anni a Efeso/in Asia].20 [a Efeso cresceva con vigore e si rafforzava]; 20,2 [in Macedonia].7 [lunga omelia di Paolo a Troade].32 [a Mileto Paolo affida gli anziani di Efeso a Dio e alla Parola della sua grazia, cf. Lc 4,22!]; 28,31 [a Roma, capitale dell’impero che giunge fino ai confini della terra (cf. At 1,8), Paolo annuncia come banditore il regno di Dio e insegnando le cose/parole (ta tou kyriou Iēsou) con tutta franchezza e senza impedimento].

Duc in altum!

A Gesù non basta “stare in piedi” sulla riva del lago di Genesaret ad annunciare la parola di Dio. Vede due barche (comunione ecclesiale fraterna…) che anch’esse “stavano in piedi” e con sovrana libertà imbocca la via di fuga e sale su una per sfuggire alla ressa della folla. Solo in un secondo momento chiederà a Pietro, il proprietario della barca (ma non della Chiesa: la “mia Chiesa”, gli dirà Gesù in Mt 16,18!), di “andare un po’ più al largo/epanagagein oligon”, v. 3; cf. invece il progresso nel v. 4: “epanagage eis to batos/andare al largo/verso il profondo”). Seduto, in posizione magisteriale, dalla barca “ecclesiale” Gesù insegna alle folle. Al termine del suo dire, Gesù comanda a Pietro di “puntare verso il largo/andare al largo/verso il profondo/epanagage [epi+ana+agagein] eis to batos” e di calare le reti “per la pesca/eis agran”.

Pietro confessa la delusione sconfortata per la pesca notturna infruttuosa, benché svolta professionalmente nel tempo più propizio. Forse però Pietro conosceva un posto molto pescoso, dove ora tentare una breve pesca di consolazione…

L’affabile e compianto archeologo benedettino B. Pixner (Untermais/Merano 1921 – Gerusalemme 2002), è stato uno spirito coraggioso e dalla vita molto movimentata durante la quale dimostrò la presenza degli esseni nel quartiere sud-occidentale di Gerusalemme e la vicinanza di Gesù al movimento stesso. Ha vissuto e insegnato per oltre venticinque anni in Israele, di cui dodici sul lago di Genesaret. Egli scrive così: «Nei mesi freschi, i pescatori di Cafarnao pescavano nelle acque davanti a Tabgha (Magadan), dove si trovava anche un porticciolo, detto “porto di Pietro”. Il tilapia, “pesce di s. Pietro”, fa parte di una specie tropicale che mal sopporta il freddo invernale. Attirati dalle acque provenienti dalle sorgenti calde di Tabgha (le Sette Sorgenti), in quella zona si formano grossi banchi di quel tipo di pesce. In inverno e in primavera se ne può fare una pesca abbondante». Prosegue, con un commento concordistico col passo di Mc 1,26-30: «I figli di Zebedeo e quelli di Giona formavano una società. Erano tornati a riva dopo aver pescato assieme agli operai stipendiati a giornata. Mentre gli altri preparavano le reti per l’uscita successiva, Pietro e Andrea con le loro reti da lancio cercavano di prendere ancora qualche pesce nelle acque basse di Tabgha. Fu a questo punto che il Signore passò e li chiamò (cf. Mc 1,10-20)» (Con Gesù attraverso la Galilea secondo il Quinto vangelo, Corazin Publishing, Rosh Pina 1996.2005, acquistabile solo in Israele).

Sono peccatore, ma sulla tua parola…

Simone confessa al “padrone/colui che sta sopra/sovrintendente/epistata” la sua delusione per l’infruttuosa fatica notturna (apostolica!; kopiasantes, cf. Gv 4, 6.38[bis]; At 20,35 [Paolo nel suo testamento pastorale a Mileto]; Rm 16, 6.12[bis]; 1Cor 16,16; Gal 4,11 [Paolo spera di non aver faticato invano]; Fil 2,26 [i filippesi devono tenere salda la parola di vita ricevuta, in modo che Paolo non abbia ad aver “corso e faticato” invano]; Col 1,29; 1Ts 5,12; 1Tm 4,10; 5,17; 2Tm 2,6).

“Basandosi tuttavia solo sulla parola/epi de tōi rhēmati” di Gesù, Pietro si dice disponibile a obbedirgli (menziona solo il calare le reti, ma sottintende certamente anche “il puntare verso il largo/l’andare al largo/verso il profondo”).

La folla faceva ressa per ascoltare la Parola, Pietro “si appoggia fiducioso/epi” sulla parola di Gesù nonostante la frustrante pesca notturna (“de” leggermente avversativo e correttivo: ho faticato invano, tuttavia continuerò ad affaticarmi ancora, ma stavolta sulla tua parola, che amplia e corregge la mia pluriennale esperienza professionale).

“Avendo fatto questo/poiēsantes touto”, i pescatori fanno una pesca abbondantissima, tanto che hanno bisogno di riunire le forze di tutti i soci (metochois), cosicché vengano a “prendere-insieme/sullambanesthai” il frutto della pesca che sta per rompere le reti dall’abbondanza della seconda fatica, fatta sconsideratamente in pieno giorno, ma stavolta fatta con Gesù. Ciò che sta per rompere le reti e riempire le barche fino a rischiare di farle affondare è l’abbondanza strabordante del pescato, non le divisioni/scismi/rivalità a cui allude la tunica inconsutile “ecclesiale” di Gesù che non venne tagliata in quattro dai soldati, ma che rimase “una”, tirata a sorte e “vinta” tutt’intera alla “tombola” della croce (cf. Gv 19,23-24).

Simone (nome ebreo Shim‘on, che allude all’ascolto) ora è menzionato anche con il secondo nome, il greco Petros che traduce l’aramaico Kepha’, che allude alla solidità della pietra.

L’evangelista Luca ce lo presenta mentre “cadde ai piedi/prosepesen tois gynasin” signoriali/kyriali di Gesù riconosciuto e acclamato stavolta come “il Signore/kyrie” (v. 8), e non più semplicemente come “il signore/padrone/colui che sta sopra /sovrintendente/direttore/epistata” (v. 5).

Certamente, viene qui anticipata una percezione teologia che, a livello maturo, si avrà solo con la pasqua, ma Pietro intuisce la signorialità trascendente di Gesù dall’abbondanza della pesca, frutto dell’obbedienza letterale alla parola di Gesù e compiuta con la sua presenza fisica a bordo, ancorché alla luce sfavorevole del giorno invece che nelle provvidenziali tenebre fitte della notte.

Pietro avverte la “lontananza” della sfera di vita in cui è immerso Gesù, totalmente altra rispetto alla sua, molto umana e fondata solo sulla propria esperienza professionale umana. Chiede che Gesù “esca da/si allontani da lui/exelthe ap’emou”, cioè si separi (rimanendo in tal modo “santo”) dalla sfera umana, immancabilmente peccatrice rispetto alla santità kyriale di Gesù.

Predatore di uomini vivi. Bella promessa…

Una “meraviglia stupefatta/thambos” “aveva circondato da ogni parte/afferrato/racchiuso/avvolto/perieschen” Pietro e tutti coloro che erano con lui per la “pesca/caccia/cacciagione/preda/bottino/agra” che “avevano ricevuto/preso/elabon < lambanō = ricevere, non poieō = fare!). Una “meraviglia stupefatta” che afferra anche Giacomo e Giovani, soci d’azienda con Pietro (e con Andrea, ricorda il Vangelo di Marco). La pesca/caccia grossa è un dono ricevuto grazie alla fede fiduciosa e obbediente nella parola di Gesù e alla presenza di Gesù stesso sulla barca.

Isaia si sente un uomo dalla labbra impure e quindi tutto immondo e indegno di stare alla presenza di YHWH, pur essendo nel tempio. Viene purificato/“espiato” dalla brace ardente dell’altare sacrificale.

Pietro non viene purificato/“espiato” da Gesù, pur essendosi riconosciuto “peccatore/hamartōlos” e ritrovandosi nell’ambiente totalmente mondano in cui lavorava ogni giorno con la propria competenza professionale. Gesù gli comanda di “smettere di avere paura/mē thambou”, perché immotivata. Egli è presente con lui, è sulla barca con lui, “lavora” con lui: Sono tutti insieme sulla stessa barca della Chiesa e della vita. Non c’è motivo di aver timore. Ora si va a Dio insieme, non per separazione dal mondo e dagli altri.

Pietro non viene purificato/“espiato”, ma riceve una promessa. Non riceve un esplicito invito/comando vocazionale a seguire Gesù (cf. invece il deute opisō mou/su, dietro a me” rivolto ad Andrea e a Pietro – Mc 1,17 – e l’“ekalesen/chiamò” rivolto a Giacomo e Giovanni in Mc 1,20).

Dall’“adesso in poi/apo tou nyn” messianico decisivo, Pietro riceve la promessa “di uomini (vivi) sarai in continuità un cacciatore-predatore/anthrōpous esēi zōgrōn” (verbo composto da “zaō = vivere” e “agra/pesca-caccia”). Gesù aveva comandato a Pietro e compagni di puntare al largo e di calare le reti “per la pesca/eis agran” (v. 4). Pietro e i suoi soci avevano “ricevuto” in dono un’ottima e insperata (caccia/)pesca/agra (v. 9).

Ora la promessa rivolta a Pietro da Gesù (e implicitamente ai suoi soci più stretti) è quella è di diventare in continuità pescatori/cacciatori di uomini (vivi).

Il pescatore trascina a terra i pesci vivi facendoli morire. Pietro deve diventare un cacciatore/predatore di uomini (vivi) perché restino vivi, vivi al massimo.

Cacciatore di uomini come si cacciano gli uccelli con la rete tesa fra gli alberi dei fossi di campagna… Promessa unica in tutta la Bibbia. L’unica altra ricorrenza dell’immagine si trova in Ger 16,16. Il profeta annuncia l’invio minaccioso e punitivo da parte di YHWH di pescatori (alieeis nella LXX, chiaramente “pescatori” e non “cacciatori”), che avrebbero pescato gli uomini disobbedienti a YHWH (alieusousin nella LXX, chiaramente un “pescare” e non un “cacciare”), per infliggere loro una giusta punizione.

“Condotte giù/katagagontes” le barche a terra, lasciate tutte le cose, si misero alla sequela di lui. Nessuno è ricordato per nome, ma il Vangelo di Marco (cf. Mc 1,16-20) specifica che si tratta delle due coppie di fratelli: Pietro (e Andrea, dimenticato” da Luca), Giacomo e Giovanni (v. 10). Gesù chiama la “sua” Chiesa a essere “fraterna”…

Barche a terra, ogni cosa lasciata alle spalle (aphienetes ta panta).

È la pronta e radicale risposta a due doni e a una promessa.

Isaia si era proposto come profeta a YHWH ed è stato “espiato” in profondità.

Pietro riceve i doni della presenza di Gesù e di una pesca abbondantissima, insieme a quello di una promessa straordinaria, basata su un ossimoro: cacciatore-predatore di uomini/uccelli-pesci vivi perché restino vivi.

Pietro non riceve un esplicito comando vocazionale. Si è fidato di una parola, ha obbedito a un comando, ha ricevuto due doni e una promessa.

Non resta che cambiar reti, non mestiere!

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