Non è qui, è risorto! Questo è il gioioso annuncio che si sentono rivolgere Maria di Màgdala e l’altra Maria andate a osservare la tomba all’alba del primo giorno (cf. Mt 28,1).
La bellezza del vuoto
Siamo ormai entrati nel Debîr, la terza sala del tempio/naos, il Santo dei Santi. Nel primo tempio, quello salomonico, nel Debîr era conservata solo l’arca dell’alleanza, rivestita d’oro e con i cherubini che, fusi insieme alla copertura d’oro e posti dinanzi uno all’altro, con le loro ali “proteggevano” l’arca dell’alleanza.
Secondo 1Re8,9°, essa era vuota, ma altre tradizioni affermano che essa conteneva le due tavole di pietra contenente le tavole della Torah date da YHWH a Mosè sul Monte Sinai (1Re 8,9b). Altre tradizioni, riprese in Eb 9,4, vi aggiungevano un’urna d’oro che conteneva la manna (cf. Es 16,33s) e il bastone di Aronnne che era germogliato (cf. Nm 17,23.25). Secondo Dt 31,26, a fianco dell’arca bisognava depositare il libro della Legge o dell’alleanza, alla quale l’arca deve probabilmente il suo nome di “arca dell’alleanza”.
Nel Debîr entrava solo il sommo sacerdote una volta all’anno, nella festa dello Yôm Ha-Kippûr, la festa dell’Espiazione. Dopo l’esilio babilonese (587-538 a C.), il tempio fu distrutto e l’arca non fu più ritrovata. Il Debîr rimase totalmente vuoto. Così lo trovò Pompeo che vi entrò nel 63 a.C., con grande sua meraviglia.
Così descrive il Debîr Flavio Giuseppe, lo storico ebreo (Gerusalemme 37 d.C. – Roma 100 d.C.), passato a servizio dei romani: «La parte più interna misurava venti cubiti [ca 9 metri] ed era ugualmente separata dall’esterno per mezzo di una tenda (katapetasmati, cf. Mt 27,51!). In essa non c’era assolutamente nulla; inaccessibile, inviolabile, invisibile a chiunque, si chiamava “il Santo dei Santi”» (tr. Giovanni Vitucci).
Bellissima doveva essere la “tenda/katapetasma” (cf. Mt 27,51!) posta dinanzi all’ingresso del “tempio/naos”. Flavio Giuseppe la descrive così: «Davanti a questi pendeva una tenda babilonese, di uguale altezza, operata in vari colori con lino bianco e con lana azzurra, rossa e purpurea, un magnifico lavoro che, non senza intenzione, era fatto di materiali di colore diverso quasi a simboleggiare l’universo; col rosso infatti si voleva alludere al fuoco, col lino alla terra, con l’azzurro all’aria e con la porpora al mare: due di queste sostanze avevano la rassomiglianza nel loro colore, mentre per le altre due la rassomiglianza nasceva dalla loro origine, perché il lino è prodotto dalla terra e la porpora dal mare. Sulla tenda era rappresentata tutta la volta celeste a eccezione dei segni dello zodiaco» (La Guerra giudaica V, 5, 212-214, tr. Giovanni Vitucci).
In questa veglia pasquale celebriamo un “bellissimo… vuoto!”. Gesù non è più nella tomba. Il Signore YHWH non è racchiuso nel Santo dei Santi, la bellissima “tenda del tempio/katapetasma tou naou” raffigurante la volta celeste è ormai squarciata dal terremoto (cf. Mt 27,51).
L’accesso a Dio Padre ora è completamente libero, aperto a tutti! Gesù risorto è il sommo sacerdote che attraversa la tenda più grande e perfetta, non costruita da mani d’uomo, non appartenente a questa creazione, entrandovi una volta per sempre col suo sangue di redenzione (cf. Eb 9,11-12). «Fratelli – ci dice la Lettera agli ebrei –, poiché abbiamo piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne, e poiché abbiamo un sacerdote grande nella casa di Dio, accostiamoci con cuore sincero, nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura» (Eb 10,19-22).
Gesù risorto è ora la via nuova e vivente per andare al Padre. Lui è la nostra sicura speranza: «In essa, infatti, abbiamo come un’àncora sicura e salda per la nostra vita: essa entra fino al di là del velo del santuario, dove Gesù è entrato come precursore per noi, divenuto sommo sacerdote per sempre» (Eb 6,19). Un’àncora, un arpione, che raggiunge il cuore del Padre e alla fune del quale possiamo afferrarci con sicurezza per una scalata mozzafiato, verso il monte Horeb, quel Sinai in cima al quale ci attende il Dio, Padre dell’Inviato, Gesù risorto, uniti nell’amore dello Spirito Santo.
Camminarono sull’asciutto in mezzo al mare
«Tutto il creato fu modellato di nuovo nella propria natura come prima, obbedendo ai tuoi comandi, perché i tuoi figli fossero preservati sani e salvi. Si vide la nube coprire d’ombra l’accampamento, terra asciutta emergere dove prima c’era acqua: il Mar Rosso divenne una strada senza ostacoli e flutti violenti una pianura piena d’erba; coloro che la tua mano proteggeva passarono con tutto il popolo, contemplando meravigliosi prodigi» (Sap 19,6-8).
La settima, e ultima, antitesi con la quale il libro della Sapienza medita sull’opera della Sapienza nella storia della salvezza (cf. le sette antitesi in Sap 11,4-14; 16,1-4.5-14.15-29; 17,1–18,4.5-19; 19,19) esprime bene la partecipazione di tutti nel processo di liberazione del popolo eletto. Dio, il popolo, il creato “modellato di nuovo”, come si addiceva a un prodigio di salvezza. Un Dio vicino al suo popolo, che va a cercarlo e a tirarlo fuori dalla “schiavitù/casa degli schiavi”. Notte di veglia per Dio e per la natura tutta. Prodigi d’amore e fenomeni della natura si uniscono provvidenzialmente.
Il mare, simbolo del male, della schiavizzazione dell’uomo, del ribollio del peggio che l’uomo sa inventare per umiliare e annientare esseri umani e popoli interi, per un periodo è placato, “vinto” ridotto a “pianura piena d’erba”. Vi devono passare i redenti del Signore, all’asciutto, senza pericolo, per pura grazia.
Il male incombe sempre, è accovacciato alla porta (cf. Gen 4,7), non si dà mai per vinto. Spinge con furia assassina i carri da guerra impantanati. La preda fa gola, schiavizzare la gente fa sentire grandi, onnipotenti, “faraoni”. «Israele vide la mano potente con la quale il Signore aveva agito contro l’Egitto, e il popolo temette il Signore e credete in lui e in Mosè suo servo» (Es 14,31).
Non si può tenere in prigione il popolo che deve portare benedizione a tutte le genti! Deve attraversare il mare, deve attraversare il male. Deve assaporare l’amaro della schiavitù, l’esultanza della liberazione, la gioia della pace e della comunione.
La tradizione ebraica ricorda che YHWH disse ai suoi angeli di non esultare per la sconfitta e la morte degli egiziani, perché anch’essi erano suoi figli… Nel mare ci deve affogare il male, non i malvagi. Men che meno uomini, donne e bambini che cercano solo la vita, la dignità, la libertà e il lavoro. «Notte di veglia fu questa per il Signore per farli uscire dalla terra d’Egitto. Questa sarà una notte di veglia in onore del Signore per tutti gli israeliti, di generazione in generazione» (Es 12,42).
E, nella veglia, usciremo anche noi dalla schiavitù della vita vecchia, attraverseremo il mare delle lusinghe egocentriche e solipsistiche, e approderemo a sponde nuove di libertà-da, di libertà-per. Risale dal cuore l’eco dell’Exultet: «Questa è la notte in cui hai vinto le tenebre del peccato con lo splendore della colonna di fuoco. Questa è la notte che salva su tutta la terra i credenti nel Cristo dall’oscurità del peccato e dalla corruzione del mondo, li consacra all’amore del Padre e li unisce nella comunione dei santi. Questa è la notte in cui Cristo, spezzando i vincoli della morte, risorge vincitore dal sepolcro… O notte veramente gloriosa, che ricongiunge la terra al cielo e l’uomo al suo creatore!».
È risorto dai morti!
È il primo giorno della settimana. È il giorno della luce primigenia, quella che vince il caos, ciò che è deforme e deserto (cf. Gen 1,2-3)!. È il giorno Uno, è il giorno ottavo, è il giorno “nuovo.”
Due donne, discepole fedelissime, vanno a “osservare con attenzione/theōrēsai” la tomba. Guardano ancora all’indietro, fissate amorevolmente al passato. Ma il mondo è in subbuglio, è capovolto da un terremoto. La storia cambia di qualità, la stoffa non è più la stessa, le logiche ora sono totalmente diverse. Sono cambiati i padroni, sono spariti i vecchi “faraoni”. Chi fa paura agli uomini è «colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo». Con la sua morte Gesù lo ha reso all’impotenza e lo ha annientato, perché tiene in schiavitù gli uomini suoi fratelli con la paura della morte (cf. Eb 2,14-15).
Quel che viene distrutto non sono certo gli uomini, ma il male del peccato, del colpo di freccia che fallisce e va a colpire come un boomerang colui che l’ha scagliata e chi gli è vicino.
C’è aria nuova, c’è un biancore accecante. La morte vinta da Gesù risorto mette in giro liberi esseri umani (uomini e donne) tutti di Dio, trasparenti, bellissimi. Si può toccare e sentire il mondo di Dio. Si incontrano messaggeri di gioia e di vita, e poi è dato di incontrare l’Inviato stesso, il Figlio di Dio, Gesù in persona. Egli stesso si fa avanti e incontra le discepole.
Il messaggio pasquale trafigge la speranza con una certezza iridescente: «È risorto dai morti, non è qui, presto, andate a dirlo ai discepoli, andate ad annunciare ai miei fratelli che partano e se ne vadano verso la Galilea: là mi vedranno» (cf. Mt 28,5-10).
L’amico di colui che riportò alla vita il defunto Lazzaro, e che anche per questo andò incontro alla morte, ha sconfitto l’ultimo nemico, la morte e il suo pungiglione. Dagli inferi nessuno può lodare Dio (cf. Sal 6,6), solo i viventi partecipano della gloria del Padre.
Il volto e la persona di Gesù sono di nuovo rivisti, diversi da come le discepole era abituate a vederli in passato. Ma ormai il rapporto si è approfondito ulteriormente. Da discepoli (cf. Mt 5,1) ad amici (cf. Lc 12,4; Gv 1,11; 15,13.4.15), a fratelli del Risorto (cf. Mt 28,10), che non si vergogna di chiamarli tali (cf. Eb 2,11).
Gesù risorto si lascia avvicinare, abbracciare i piedi e adorare. E il Risorto ordina alle discepole/sorelle non di “tornare”, ma che “partissero e se ne andassero (ap-elthōsin)” nella Galilea. Là dove tutto è cominciato (cf. Mt 3,13; 4,12.15.18.23) e l’avventura del discepolato aveva iniziato la sua corsa (cf. Mt 4,19), la Luce era apparsa, come il primo giorno del mondo e il primo giorno della Nuova Settimana, l’Ottavo giorno: «Il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce, per quelli che abitavano in regione e ombra di morte una luce è sorta» (Mt 4,16). Là bisogna andare, da fratelli del Risorto, discepoli risorti.
La vita comincerà nuova, col vangelo ricuperato, interiorizzato e metabolizzato dallo Spirito santo. Un vangelo da annunciare e vivere fra altri fratelli, sempre facendosi di nuovo discepoli dell’unico Maestro.
«O notte beata, tu solo hai meritato di conoscere i tempi e l’ora in cui Cristo è risorto dagli inferi. Di questa notte è stato scritto: la notte splenderà come il giorno e sarà fonte di luce per la mia delizia!» (dall’Exultet).
Il 10 aprile del 30 d.C. era ancora verde l’erba della Galilea, «una pianura piena d’erba» (Sap 19,7). Proprio come quando Israele attraversò a piedi asciutti “il Mare” e si avviò a una vita di libertà, in una mattina piena di luce.
Andiamo “in Galilea” e là lo vedremo.
«Gioisca la terra inondata da così grande splendore: la luce del re eterno ha vinto le tenebre del mondo» (dall’Exultet).