È il momento supremo dell’amore dello Sposo. La Sposa tralascia il segno, il sacramento, e si concentra sull’evento. Lascia il segno che comunica, adora l’eruzione che ne è l’origine.
Isacco è giunto sul monte Moria. Il suo corpo legato, l’offerta preparata, il cuore ben disposto. Il padre Abramo ha fatto il cammino in silenzio e, mentre le parole tacciono, il coltello si alza per togliere la vita, pensando che questo piaccia al suo Dio. Non è questo che vuole YHWH.
Il Padre si compiace dell’amore che ama la vita, che condivide i banchetti dei peccatori, che si gode l’aria fresca del mattino in Galilea, mentre il Figlio prega la Sorgente dell’amore. E il Figlio sente crescere sempre di più in sé la donazione della propria vita e la spende volentieri sulle strade dove cammina e vive il suo popolo.
È la violenza che gli viene incontro, quella degli uomini, non ricercata né dal Figlio né dal Padre, ma accolta perché potesse essere vinta e trasformata dall’interno.
È il paradiso che si riapre, l’obbedienza filiale che rifiorisce, l’immagine che si fa pienamente somiglianza. L’amore costa. Non è rapinato, ma donato. Non possiede, ma condivide. Sul Golgota il Figlio dell’Uomo sale consapevole. Sovrana è la sua libertà, piena la sua volontà.
Le tenebre ingannano. Sembrano velare ma, come al Sinai, svelano il Volto, rivelano una Voce che si può vedere. Splende la luce nel Venerdì Santo. Le acque possenti non possono spegnere l’amore (cf. Ct 8,7).
L’evento è qui, fonte del sacramento. Qui è la sorgente, unica, insostituibile. Qui la vita nasce nel dono. Qui il dono diventa fecondo. Si rivela l’unica legge che salva: è morendo che si vive in eterno.
Lo giudicavamo percosso da Dio
È drammatico il confronto e lo scontro di coscienze fra YHWH (Is 52,12-15; 53,11-13), il suo servo misterioso (Is 53,1) e il popolo che assiste prima con un atteggiamento di giudizio, alla fine con il cuore convertito (Is 53,2-10).
Il popolo ha davanti a sé un uomo di Dio, non appariscente e ben consapevole di sé. Nessuno ha creduto alla sua predicazione ed egli si avvia alla sua fine addolorato per non essere stato ascoltato nel suo buon annuncio, per non aver visto svelato il braccio di YHWH che, con potenza, aveva liberato Israele dalla schiavitù dell’Egitto. Nessuna stima del popolo per lui.
Un uomo che ha raccolto insieme l’universo dei dolori non può essere un uomo di Dio, un suo “benedetto”. Non può esserlo uno castigato/colpito/nāgûa‘ da YHWH, come Giobbe lo fu dalla sua mano (Gb 19,21) e come lo fu il salmista innocente e controcorrente, ma «colpito tutto il giorno e fin dal mattino… castigato» (Sal 73,14). Il popolo giudica il presunto servo di YHWH come uno che è castigato/nāgûa‘ da YHWH, “percosso/mukkēh” e “umiliato/me‘ûnneh” (53,4).
La lezione della nostra salvezza
Il popolo guarda al servo e guarda dentro di sé. Guarda il servo innocente, silente, umile, angariato, condannato senza giudizio, agnello afono di fronte agli implacabili tosatori.
Il popolo guarda al servo e capisce. È innocente! Patisce per noi, al posto nostro, a causa nostra. Sono nostre quelle piaghe, nostri quei smarrimenti di pecore senza pastore, nostre quelle colpe per cui ora sta pagando, nostre le iniquità che adesso lo stanno schiacciando come un verme. L’iniquità di tutti noi si è come coagulata sul suo capo, piegandolo a morte.
Pensavamo che il suo essere particolare e diverso da noi, il suo fare da un uomo di Dio con il suo annuncio di salvezza, lo rendesse lontano da noi. Pensavamo che, parlando, ci giudicasse; che, ammonendo, ci condannasse.
Adesso capiamo che YHWH sta seguendo una strada tutta sua, misteriosa. Ha abbracciato con amore la tragica possibilità che la nostra libertà fosse usata male e moltiplicasse nel mondo il virus mortale dell’“a-teismo”. Pensavamo di vivere senza Dio, ognuno per la sua strada, “moltitudine sola”.
Adesso cominciamo a capire che YHWH ha eletto lui come nostro rappresentante, il migliore fra noi. Lo ha scelto perché risucchiasse tutto il nostro male nel suo cuore, si addossasse tutti nostri insulsi vagabondaggi sulle sue spalle magre e piagate. Debole all’apparenza. Tenace nel cuore. Ha risucchiato la nostra violenza, ha assorbito il nostro veleno, ha filtrato la nostra aria malata, ha affrontato da solo la “terra dei fuochi”.
Dio non lo stava castigando, l’abbiamo capito dopo, guardandolo negli occhi, penetrando nel suo cuore. Abbiamo capito lui e abbiamo compreso le vie nuove di YHWH. Egli ci stava dando «la lezione della nostra pace/mûsar šelômēnû» (cf. Is 53,5b). Un insegnamento, una correzione, un ammonimento e un avviso che portava a noi salvezza dal baratro, un insegnamento che YHWH ha reso persona, incarnandolo nel suo servo.
È una lezione sapienziale, un insegnamento che il saggio dona al suo discepolo, una lezione che va accolta per avere la vita (cf. Pr 1,2-7). «Dalla sua piaga/baḥăburātô ci è giunta la guarigione/nirpā lānû» (53,5d). YHWH ha scelto il migliore tra noi, come nostro rappresentante, e lo ha reso forte interiormente, perché potesse insegnarci una lezione che ci porta pace/salvezza. Nel piano benevolente di YHWH è per noi davvero difficile capire che il suo servo sarebbe stato prostrato dai dolori, che non erano conseguenza del suo peccato, come invece ci avevano sempre insegnato i nostri padri.
Alcuni profeti avevano parlato del fatto che ognuno è responsabile delle proprie azioni sbagliate (Ez 18,1-3), ma per noi è difficile pensare che sia un innocente a soffrire. Eppure lui ha donato tutto se stesso in oblazione di riparazione/’îm tāśîm (o yāśîm)’āšām napšô (53,10b) delle nostre colpe. Noi pensavamo a lui come a un nostro capro espiatorio, ma non era così. Con la sua vita ha sconvolto la nostra vita, il nostro pensiero su di lui. Egli ha compiuto la volontà di YHWH. Pur essendo innocente, ha preso volontariamente su di sé la nostra iniquità, e così si è realizzata una nuova via di YHWH per farci convertire.
Ha spogliato se stesso, vedrà la luce
Siamo tutti sconvolti. Abbiamo cambiato opinione su di lui. Sentiamo che non siamo più noi stessi. La sua vita e la sua morte ci hanno convertito. Certo – afferma YHWH (53,11-12) –, ha dato tutto se stesso, è stato annoverato fra gli empi senza Dio, mentre egli portava il peccato di molti/di tutti e intercedeva per i colpevoli. “Dopo il suo intimo tormento/mē‘ămal napšô», vedrà la luce, riscatterà una numerosa discendenza. È stato seppellito come un empio.
Io – dice YHWH – gli darò un bottino ricchissimo. Farà il bottino della vita di tanti. Li porterà con sé alla vita. Vivrà a lungo, vedrà una discendenza. Io giustifico, lui è il mio strumento eletto perché questo avvenga. Egli riporterà alla mia amicizia tanti che si erano allontanati, come pecore disperse, atomi buttati a caso nell’universo verso la morte. Il mio servo è un coagulo di vita. Chi si attacca a lui, ritornerà a me. Tornerà a essere mio alleato, sarà reso “giusto”.
È una cosa mai udita, un fatto mai accaduto (cf. Is 52,13). Tacete, mettetevi la mano sulla bocca. Fate silenzio e adorate la nuova via d’amore e di riconciliazione attuata da me. Onorate il mio servo, perché io l’ho innalzato. Guardate a lui, battetevi il petto, attaccatevi a lui. Avrete vita nel mio servo.
Chi cercate? Io sono!
«… Si meraviglieranno di lui molte nazioni, i re davanti a lui si chiuderanno la bocca» (Is 53,12a). Nel «giardino» (Gv 18,1), il suo (Ct 6,2), lo Sposo viene a pascolare, ad aspirare il balsamo, a cogliere gigli, a vedere i progressi delle noci, a bearsi dei germogli delle viti e dei melograni in fiore (cf. Ct 6,2.11).
Sono però frutti agrodolci quelli che lo sposo si ritrova. «Eravamo amici e compagni, avanzavamo insieme verso l’altare del Signore. Ora alzi contro di me il tuo calcagno…» (cf. Sal 41,10). Tant’è, l’Avversario ha sempre i suoi alleati, qualunque progetto mulinasse in testa a Giuda, «uno dei Dodici!». «Chi cercate?», domanda il re (Gv 18,4.7). «Che cosa cercate?», aveva chiesto ai primi due aspiranti discepoli (Gv 1,38). La domanda sarà di nuovo rivolta all’Innamorata, nel giorno della Pasqua, nel giardino dell’amore: «Chi cerchi?» (20,15).
Nella notte dell’amore tradito gli avversari vengono a cercare un brigante e un ladrone, ma l’«Io Sono» (Gv 18,5.8; cf. 8,24.58; cf. Es 3,14), sovrano, si presenta spontaneamente e li atterra, nella prostrazione non voluta, ma dovuta.
L’evangelista Giovanni ci accompagna nella passione e morte del Re, del presunto accusato, ma in realtà è lui che giudica ed è nel vero, è la Verità stessa del Padre. E l’identità profonda di Gesù quella che sta a cuore a Giovanni.
E anche nella Passione Gesù non è mai solo, perché è sempre unito al Padre che lo ha inviato (cf. Gv 8,16). Gesù affronta sovranamente e in piena libertà gli eventi, perché lui “conosce per rivelazione/eidōs < hōraō = vedere” (18,4) e non per esperienza pratica (ginoskō) tutto quello che gli deve venire/accadere/panta ta erchomena (ivi).
Egli rifiuta la violenza di Pietro e ne guarisce le conseguenze che sfregiano l’uomo, lo rendono inadatto a servire nel culto del tempio e feriscono l’immagine e la somiglianza di Dio in terra.
Il dono del calice
La passione che Gesù affronta è un combattimento trinitario, un dono d’amore del Padre, messo nelle mani del Figlio, perché beva nella sua sorte dolorosa tutto il fiele che avvelena la vita degli uomini. «… il calice che il Padre mi “ha donato/dedōken”, non dovrò berlo/ou mē piō?». La domanda non può che attendere – grammaticalmente e teologicamente; la grammatica è teologia (Lutero)! – una risposta positiva.
Con “ironia drammatica”, il sommo sacerdote Caifa aveva profetato, senza volerlo, una verità profonda: era conveniente/sympherei hymin ai suoi colleghi sadducei e farisei che un solo uomo morisse a favore del popolo/hyper tou laou, salvando così dalla distruzione “il luogo/il tempio/ton topon” (Gv 11,48) e tutta la “nazione/ethnos” (11,49-50). Con un’intrusione letteraria, l’autore commenta ulteriormente a livello teologico: «Questo però non lo disse da se stesso, ma, essendo sommo sacerdote quell’anno, profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione; e non soltanto per la nazione, ma anche per riunire insieme/synagagēi eis hen i figli di Dio che erano dispersi/ta tekna tou theou ta dieskorpismena».
La passione di Gesù è il grande dono d’amore che il Padre condivide con il Figlio Unigenito – nel bacio d’amore dello Spirito che li lega –, perché il mondo intero sappia che Dio ama gli uomini e li vuole tutti salvi e nella vita piena (Gv 3,16-17; Rm 5,6-11; 8,32.35.39; 1Gv 4,7-10). Gesù accetta con slancio la possibilità di mostrare al mondo l’amore redentore e unificatore di Dio, di mostrare qual è la vera essenza del Dio che guida a unità il suo popolo e tutti i suoi figli dispersi nel cosmo.
Gesù ha sempre parlato apertamente, anche nella zona del tempio; tutti sanno, tutti hanno ascoltato, tutti possono essere interrogati e diventare testimoni… Ma proprio Pietro rinnega il suo essere discepolo. «Anche l’amico in cui confidavo, che con me divideva il pane, contro di me alza il suo piede» (Sal 41,10). «Se mi avesse insultato un nemico, l’avrei sopportato; se fosse insorto contro di me un avversario, da lui mi sarei nascosto. Ma tu, mio compagno, mio intimo amico, legato a me da dolce confidenza! Camminavamo concordi verso la casa di Dio» (Sal 55,13-15).
Il calice è amaro.
Il re di un altro mondo
Pilato entra ed esce sette volte (18,29-32.33-38a.38b-40; 19,1-3.4-8.9-12.13-16a) dall’interno della propria sala delle udienze nel pretorio all’esterno, per affrontare gli odiati giudei che gli chiedono la condanna a morte di un loro pretendente re.
Il prefetto romano non trova in quell’uomo nulla che meriti la morte (18,38; 19,4.6). Solo discorsi strani su un regno invisibile – di un altro mondo –, su ufficiali e militari che avrebbero strenuamente combattuto a difesa della sua libertà, su una verità sovrumana che però deve essere ascoltata dalle sue labbra.
Quell’uomo strano rasenta la pazzia lucida – ai giudei ha perfino detto di essere Figlio di Dio –, ma non pare costituire un pericolo reale e immediato o un colpevole di laesa maiestas allo stato romano.
Pilato propone ai capi dei giudei – i sommi sacerdoti e le guardie (19,6) – e alla folla la scelta di liberare per la Pasqua lui o il “brigante/terrorista/lēistēs” Barabba. Essi gridano la loro preferenza per Barabba, ma Pilato non è convinto. Dentro il pretorio fa flagellare Gesù, lascia che le guardie lo irridano con una corona fatta di spine e un mantello di porpora. Un poveretto intronizzato re per un giorno, prima di essere ucciso. Un bel passatempo per i soldati, un tentativo forse per Pilato di ammorbidire gli animi dei giudei mostrando loro un povero uomo ridotto in poltiglia (cf. 19,5). Inoffensivo, dovrebbe aver capito la lezione, potrebbe essere liberato.
Eppure i capi insistono e quell’uomo trova le forze per ricordare a Pilato che il suo potere viene dall’alto, non da Roma e che altri hanno colpe più gravi di lui.
Pilato ancora tentenna, perplesso. Dall’esterno però gli arriva forte e chiaro un grido di “avviso” che lo fa decidere: «Se liberi costui, non sei “amico/philos” di Cesare! Chiunque si fa re si mette contro Cesare» (19,12).
Alla fine, il prefetto porta fuori quello straccio di uomo una seconda volta, lo fa sedere in tribunale, mostra ai giudei colui che dice di essere un re (18,17) e chiede loro se sono proprio decisi a far crocifiggere il loro re. Li prende in giro, Pilato. Non l’ha mai amata quella gente. Sa che attendono il “re di Israele”, che non è certo quell’uomo, il “re dei giudei” come lo definisce lui.
La minaccia di farlo cadere in disgrazia a Roma raggiunge però il suo scopo. Touché. Facciamola finita e togliamo il disturbo. Il giochetto si è fatto ormai troppo pericoloso.
Tutto è compiuto!
Pilato resta però fermo nella sua irrisione verso i giudei e il titulus che riporta la causa della condanna dice chiaramente in tre lingue: “Gesù il nazareno, il re dei giudei” (19,19). Quel che è scritto resta scritto per sempre. Non dice tutto correttamente, ma la sostanza c’è. E tutti avranno modo di capire e di decidersi.
Le vesti del condannato sono divise, come aveva previsto il salmo (19,23; cf. Sal 22,19), ma la tunica inconsutile – simbolo dell’unità della comunità dei discepoli – resta intatta, non stracciata dalla morte vergognosa riservata agli schiavi e ai presunti nemici di Roma.
Il condannato affida alla madre il Discepolo Amato, il Principio Amante della Chiesa. Il Discepolo Amato riceve in affido la Madre, che genera unità e vita di fede fra i discepoli.
Così arriva la fine. Dopo avere chinato il capo, Gesù “consegna lo spirito/Spirito/paredōken to pneuma”. Finisce lo scaricabarile delle consegne/tradimenti (6,64.71; 12,4; 13,2.11.21; 18,2.5 [Giuda]; 18,30 [i sommi sacerdoti e gli scribi]; 18,35 [il tuo popolo e i sommi sacerdoti]; 18,36 [passivo impersonale-Giuda]; 19,11 [Giuda e altri]; 19,16 [Pilato]; 21,20 [domanda del Discepolo Amato sul traditore/consegnatore].
Ma il filo rosso che tutto collega è il filo d’oro dell’autoconsegna di Gesù nel “giardino” dell’amore: “Io Sono” (cf. 18.5.8). Gesù può consegnare lo spirito/Spirito a colui che da sempre glielo aveva donato – il Padre – e alla Chiesa nascente sotto la croce.
Tutto è compiuto. «Dopo questo, sapendo/eidōs Gesù che già ogni cosa era stata compiuta/tetelestai, perché fosse portata a perfetto compimento /teleiōthēi la Scrittura» – così va letta la frase, senza virgola, come suggerisce giustamente il grande esegeta De La Potterie –, «disse: “Ho sete”». Gesù non dice “Ho sete” per adempiere perfettamente chissà quale punto cruciale della Scrittura. La sete del morente è tragica, ma non è il compimento apicale della Scrittura.
Il compimento è già stato raggiunto prima. La sua vita di rivelazione, la sua fine di donazione (cf. Gv 13,1ss).
Sangue e acqua
L’offerta è perfetta. La “santificazione/consacrazione/hagiazō” promessa da Gesù a livello personale e a favore dell’unità dei discepoli (cf. Gv 17,19) è realizzata compiutamente.
L’agnello pasquale ha dato tutto se stesso. È integro. Perfetto. Puro.
Gli viene aperto il costato. Gesù effonde anche da morto il sangue della sua proesistenza e l’acqua della sua coscienza filiale.
È la vita nella morte.
Il Servo di YHWH rende giusti molti/tutti (cf. Is 53,11c).
Le mani dei re salgono alla bocca (cf. Is 52,52).
Il Re ha vinto e ora riposa.